Il terrorismo biologico

Dott. Marino D’Amore

Università di Lugano L.U.de.S

Terrorismo: un macroconcetto che ne comprende altri, elementi che lo caratterizzano nella sua essenza più profonda: fanatismo ideologico e religioso, annientamento incondizionato dell’“altro”, imposizione incontrovertibile delle proprie scale valoriali e delle gerarchie che le sottendono, ma soprattutto, lo dice il nome stesso, terrore nella sua forma più turpe. Sì perché, come è lecito attendersi, il terrore oltre a essere il suo nucleo linguistico ne rappresenta anche quello semantico, la sua caratteristica immanente e, al tempo stesso, la finalità prima e irrinunciabile: scatenare e diffondere il panico più cieco verso il proprio nemico, una nazione, la sua popolazione civile, causando più vittime possibile e rendendola consapevole della propria, evidente debolezza.

L’atto terroristico si declina in effetti diretti, le vittime come detto, ma anche in ricadute indirette altrettanto importanti nella loro drammaticità, come ad esempio il modificare drasticamente la linea politica o punire la condotta “infedele”, da un punto di vista religioso, dei destinatari delle azioni, ricadute contestualizzate da una potente risonanza mediatica che le medesime azioni conseguono grazie ai  mezzi di comunicazione di cui disponiamo: in questo senso il ricordo non può non andare all’11 settembre 2001, un attentato, quello alle Torri gemelle, pensato e realizzato nei minimi dettagli, con i tempi e i ritmi della regia televisiva, per far sì che quello spettacolo di sangue fosse visto dal maggior numero possibile di persone.

Scopo finale delle azioni può essere quindi sia un improvviso, radicale ribaltamento di uno status quo stabilizzato nel tempo, sia, paradossalmente, il mantenimento, grazie alla violenza, di una data situazione politica, catalizzando però, questo è il denominatore comune di entrambe le finalità, attenzione e fidelizzando, grazie ad essa, nuovi aderenti alla causa, nuovi sanguinari sostenitori. Funzionale a tale risonanza può quindi essere l’efferatezza, la ferocia e l’enorme peso umano e sociale dei gesti stessi di distruzione: sequestrare cento bambini in una scuola può essere in questo senso più efficace, ai fini della strategia del terrore, che sterminare cento militari adulti in una caserma, perché il risalto mediatico dato all’evento sarà, purtroppo, infinitamente maggiore.

Per questi motivi il terrorismo come lo intendiamo noi, è un fenomeno caratteristico del XX secolo, il primo periodo storico in cui l’umanità dispone di media tanto potenti e tanto invasivi, un fenomeno quindi la cui recrudescenza e direttamente proporzionale allo sviluppo tecnologico di una data società.

Gli attentati terroristici di notevole gravità, generano, come è ovvio, una reazione dura da parte dell’ordine costituito: nessun gruppo terroristico può perpetuare le proprie azioni nel tempo se non abbia un folto numero di seguaci che lo appoggi, che lo rifornisca di armi, di aiuti economici, di informazioni, di aree geografiche dove nascondere i propri capi, insomma uno strato sociale che ne condivida la causa e le istanze violente per il raggiungimento delle proprie finalità. Questo è il contesto dove vive e da cui si nutre il terrorismo, compito dei suoi oppositori, degli organi deputati alla difesa di una nazione è neutralizzarlo staccandolo da questo contesto, dalle sue stesse radici.

Tuttavia esiste una declinazione del fenomeno terroristico più terribile e spaventosa perché eleva alla massima potenza una delle caratteristiche principali del terrorismo stesso, il suo carattere di invisibilità, elemento che amplifica il suo potenziale distruttivo e omicida in modo tanto silenzioso quanto irreversibile: parliamo del terrorismo biologico. Le caratteristiche appena citate sono rintracciabili nella sua stessa natura: infatti esso consiste nell’utilizzo intenzionale di agenti biologici (virus, batteri, tossine, ecc) in azioni contro popolazioni che si concretizzano in attentati, sabotaggi, stragi  volte a creare morte, panico e isteria collettiva. Gli agenti biologici utilizzati possono essere reperiti in natura, o possono essere modificati dall’uomo al fine di aumentarne la virulenza e la diffusione nell’ambiente attraverso l’aria, l’acqua o il cibo.

Il CDC  (Centers for Disease Control and Prevention) statunitense suddivide le armi cosiddette biologiche in tre categorie, discriminandole per rapidità di diffusione e per rischio di mortalità che recano:

Categoria A: comprende organismi e tossine molto pericolose per la collettività (come il carbonchio, il botulino, la peste, il vaiolo e il tristemente famoso virus ebola per citarne alcuni) il cui utilizzo è caratterizzato dai seguenti aspetti: una facile trasmissione da persona a persona; un potere altamente letale, l’emergere di episodi di panico e di isteria collettiva e la pressante necessità di adottare speciali contromisure su vasta scala per la tutela della salute pubblica.

Categoria B: comprende organismi moderatamente pericolosi, caratterizzati da una diffusione potenziale su scala ridotta, da una scarsa capacità di provocare malattie potenzialmente letali e dalla necessità di misure di monitoraggio della salute pubblica meno intensive e invasive rispetto a quelle annoverate nella categoria precedente.

Categoria C: comprende organismi patogeni emergenti, potenzialmente modificabili, attraverso l’ingegneria genetica,  per essere trasformati in armi biologiche. Le caratteristiche principali di tali organismi sono: una facile disponibilità nell’ambiente, una facile produzione e un alto potenziale in termini di virulenza e di impatto sulla salute pubblica.

Storicamente, sin dai tempi più antichi, sono stati utilizzati piani e strategie per diffondere agenti patogeni contro il nemico, come ad esempio, l’impiego di cadaveri o carcasse di animali infetti per contaminare pozzi, cisterne e raccolte d’acqua utilizzate dagli eserciti e dalle popolazioni assediate, veleni e sostanze tossiche rintracciabili in natura o realizzate appositamente.

I tartari, ad esempio, catapultavano cadaveri uccisi dalla peste bubbonica oltre le mura delle città assediate, come a Caffa nel 1346, per diffondere il contagio e la morte prima della battaglia. Gli inglesi, durante la guerra dei sette anni (1756-63), per sconfiggere gli indiani alleati dei francesi, si aiutarono con armi biologiche ante litteram: come atto di amicizia regalarono ai loro nemici coperte, ma queste provenivano da ospedali che accoglievano malati di vaiolo che così si diffuse tra gli indiani causando migliaia di morti.

La medesima strategia venne utilizzata nel 1763 in Nova Scozia da Sir Jeffrey Amherst, governatore dello Stato, il quale distribuì ai pellerossa coperte utilizzate negli ospedali, diffondendo così, anche in questo caso, il morbo del vaiolo tra le tribù indigene. Nello stesso periodo gli inglesi, per portare a termine la colonizzazione in Nuova Zelanda, mandarono tra i maori, gruppi di prostitute malate di sifilide, sterminando così le popolazioni di quelle terre allora incontaminate.

In tempi relativamente più recenti, durante il XIX secolo, la ricerca scientifica ha fornito l’opportunità di isolare e produrre agenti patogeni specifici come, ad esempio, il Bacillus Anthracis e lo Pseudomonas Mallei.

Durante il primo conflitto mondiale La Germania sviluppò un programma di guerra biologica infettando il bestiame con gli agenti patogeni dell’antrace e del cimurro. Nello stesso periodo la Gran Bretagna sviluppò un suo progetto sugli effetti delle spore di antrace e sul loro raggio di diffusione quando lanciate con una bomba convenzionale. L’isola Gruinard, al largo delle coste della Scozia, fu scelta come luogo degli esperimenti e i dati ottenuti furono utilizzati sia dalla Gran Bretagna sia dagli USA.

Subito dopo la prima guerra mondiale si cominciò a riflettere sulla pericolosità delle armi biologiche concepite dalla mente umana, tale riflessione si palesò in tentativi diplomatici volti a limitare la proliferazione incondizionata e l’uso di armi di distruzione di massa..

Tuttavia nel 1931, durante l’occupazione della Manciuria da parte del Giappone, i nipponici utilizzarono i prigionieri di guerra come cavie da laboratorio. Inoltre sono documentate dettagliatamente almeno cinque incursioni sulla Cina da parte di aerei giapponesi con lo scopo di spargere la peste bubbonica che risalgono al 1941.

Nel 1956 l’Unione Sovietica accusò gli USA di aver usato armi biologiche in Corea. Dalla fine degli anni ’60 le armi batteriologiche hanno assunto un’importanza sempre più marginale: le continue ricerche di carattere microbiologico, hanno, infatti, finito per limitare fortemente il numero dei microrganismi “segreti”, cioè quelli sconosciuti, contro cui il nemico non ha alcuna difesa

Finalmente, nel 1972, è stata concepita una necessaria risposta legislativa al problema: un trattato internazionale, firmato da 160 Paesi e ratificato da 140, ha messo al bando tutte le armi batteriologiche (Biological and Toxin Weapons Convention). Nonostante questo divieto, verso la metà degli anni ’80 del secolo scorso, la corsa alle armi batteriologiche è ripresa con nuovo vigore, continuando progressivamente fino ai tempi attuali. Da allora la storia dei trattati va di pari passo con quella degli esperimenti che continuano in molti paesi. Mentre nel passato le armi biologiche erano pensate e costruite soprattutto per sfiancare, aggredire e decimare gli eserciti nemici, oggi è purtroppo la popolazione civile ad essere bersaglio delle azioni bio-terroristiche.

Pensiamo ad un ipotetico caso concreto. In caso di attacco bio-terroristico, le risposte immediate devono arrivare dalla polizia, dai vigili del fuoco e dal personale medico più vicino. È chiaro che nei momenti immediatamente successivi all’incidente non si conosce la natura dell’agente infettante, per cui è importante coinvolgere, nei piani di emergenza, anche esperti microbiologi (da inviare eventualmente sul campo per i rilevamenti o i campionamenti del caso) che possano fornire risposte più precise nel minor tempo possibile.

Anche Al Qaeda ha abbracciato questa forma di terrorismo, tentando, fortunatamente senza successo, di produrre armi biologiche in laboratori ubicati nelle città afghane di Jalalabad e Kandahar.

Tuttavia occorre sottolineare che, rispetto all’ampia risonanza pubblica che questa minaccia ha storicamente avuto, si conoscono, fortunatamente, pochi tentativi di azioni da parte di gruppi terroristici, contro la popolazione civile mediante l’impiego di agenti CBRN (chimici, biologici, radioattivi e nucleari). Nell’ambito di questa considerazione fanno eccezione dei diversi attentati commessi dall’Aum Shinri Kyo in Giappone, con l’uso di agenti chimici e biologici, che nel 1995  hanno provocato la morte di 17 persone e il ricovero di 1200 tra Matsumoto e Tokio.

Nell’agosto del 2005, le rivelazioni che una cellula di Al Qaeda stava progettando un attentato con gas sarin contro la Camera dei Comuni britannica e il lancio di profilattici pieni di una polvere viola contro il Primo ministro Tony Blair, durante l’ora delle interrogazioni, avvenuto nel maggio dell’anno precedente, hanno fatto emergere l’alto grado di vulnerabilità dei parlamenti nazionali e l’evidente deficit previsionale e di preparazione nel gestire casi di questo tipo. Come reazione a questi eventi, su entrambe le sponde dell’Atlantico sono state promosse misure volte a individuare metodi adeguati ed efficaci per la rilevazione di eventuali attacchi del genere. Gli USA hanno mostrato l’impegno maggiore con un’iniziativa globale denominata “Biodefense for the 21st Century”, lanciata nell’aprile 2004 dal Presidente Bush. Secondo uno studio, dopo l’11 settembre, i fondi di bilancio complessivamente stanziati per  questa causa sono aumentati di sedici volte, da 305 milioni di dollari nell’esercizio 2001 a circa 5 miliardi di dollari per gli esercizi 2004, 2005 e 2006. L’incremento dei finanziamenti destinati alla ricerca nel settore della difesa da agenti biologici del National Institute of Health è ancora più sorprendente: essi sono aumentati di 34 volte dal 2001 al 2006. Il governo britannico ha stanziato, nel 2003, 260 milioni di sterline per lo stesso scopo. Finanziamenti e ricerca che sono diminuiti proporzionalmente alla frequenza  degli attentati e soprattutto alla visibilità conferita agli eventi accaduti secondo dinamiche che riguardano la percezione della sicurezza da parte una popolazione.

Tuttavia oltre ad agenti biologici, anche agenti chimici o radioattivi possono essere usati come arma di bioterrorismo. Il CDC classifica gli agenti chimici in base alla attività da essi esplicata sulla pelle, nei polmoni, nel tratto gastrointestinale e sul sistema nervoso.

Gli agenti radioattivi invece sono incolori, inodori ed invisibili. La contaminazione di cibo, acqua, oggetti o la mera esposizione a tali agenti può causare gravi inabilità fino alla morte ed è difficile da evidenziare. I sintomi di tale esposizione alle radiazioni possono includere nausea, vomito, diarrea e, a seconda del grado di esposizione, gengive sanguinanti, epistassi, ecchimosi, e perdita di capelli. Un esempio di un agente radioattivo è il polonio 210 che, nel 2006, è stato la causa della morte del dissidente russo, Alexander Litvinenko.

Il colonnello Edward Eitzen, capo dell’Istituto di ricerche mediche sulle malattie infettive dell’esercito americano, ammise in un’intervista il timore di attentati perpetrati attraverso la diffusione di agenti biologici come il botulino o l’antrace rivelando testualmente: “Se qualcuno liberasse nell’atmosfera il batterio dell’antrace nei pressi di una città di 500 mila abitanti, potrebbe causare la morte di oltre 90 mila persone entro una settimana”.

Pochi anni fa in Gran Bretagna sei presunti terroristi islamici furono arrestati mentre stavano preparando una strage nella metropolitana di Londra con un assalto a base del tristemente famoso gas Sarin.

Il genetista Matthew Meselson, professore all’ Università di Harvard, ha dichiarato che oltre ad un nuovo impegno nella ricerca scientifica per combattere le  bio-armi occorre sollecitare la creazione di strumenti legislativi internazionali, che operino su un duplice campo: preventivo e repressivo.

Grazie ad un semplice aerosol in cui sono disperse le spore di un batterio killer si possono infettare città, aeroporti, ospedali, stadi e sistemi di trasporto come la metropolitana. Il problema principale appare evidente: a differenza dei bombardamenti, gli attacchi con le armi biologiche sono silenziosi e l’epidemie possono essere subdole, riscontrabili solo dopo tempo e, purtroppo, dopo un elevato numero di casi o di sintomi insoliti. È ormai assodato che, in caso di attacco, il primo problema è quello di individuare nel minor tempo possibile il tipo di virus utilizzato per salvare il maggior numero di vite nel caso di fenomeni epidemici.

Insomma appare chiaro e drammaticamente urgente iniziare un’intensa attività sinergica di ricerca scientifica e soprattutto di prevenzione, che veda coinvolti mondo scientifico e istituzionale per poter combattere un nemico, il bioterrorismo, tanto subdolo quanto distruttivo. Un attività che coinvolga tutti, educhi le popolazioni stesse a quelle misure necessarie volte a reagire ad un attacco bio-terroristico, e soprattutto renda questo mostro dei nostri tempi più debole e  sempre meno invisibile.

Bibliografia

1. W.Barnaby, L’incubo dell’untore, guerra e terrorismo biologico, Fazi, Roma 2003.

2. C. Botrè,F. Botrè, Veleni di guerra in tempo di pace. Armi chimiche e biologiche a fini bellici e terroristici, Franco Angeli, Roma 2003.

3. R. Hutchinson, Le armi di distruzione di massa. Gli arsenali nucleari, biologici e chimici oggi a disposizione non solo degli “Stati canaglia” ma di ricchi criminali e terroristi, Newton Compton, Roma 2003.

4. F. Locurcio, Gli uffici d’intelligence in Italia: cooperazione internazionale nella lotta la terrorismo, La Sapienza Editrice, Roma 2005.

5. M.F. Jacobitti, “Terrorismo islamico. Origini, eventi e strategie”, &Mybook, Roma 2010.

6. L.Bonanate, Terrorismo internazionale, Giunti, Roma 2002.

 

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