Evoluzione normativa e giurisprudenziale. I dettami della Corte Costituzionale
A cura dell’avv. Grazia Masi
Frequentemente è stato sollevato da più parti il problema dell’insufficienza della retribuzione del lavoratore-debitore il quale percepisce somme, anche al di sotto della soglia che la Corte Costituzionale ha individuato per i pensionati quale “minimo vitale” allorquando è colpito da un pignoramento, sebbene nei limiti del quinto stabilito per legge.
Di recente la questione ha assunto uno spiccato interesse atteso che le numerose pronunce della Corte Costituzionale in materia hanno orientato il legislatore ad operare delle modifiche secondo i principi di diritto espressi dal Giudice delle Leggi, che, sebbene tese a tutelare in maniera ancora più efficace chi percepisce una fonte di reddito facilmente aggredibile come uno stipendio o una pensione, hanno contemperato equilibratamente gli interessi del creditore ad avvalersi della garanzia patrimoniale del debitore ex art. 2740 c.c. con quelli del debitore a non vedersi sottratti tutti i mezzi di sussistenza.
Le più recenti sentenze della Corte Costituzionale n. 248 del 3.12.2015 e n. 70 del 5.4.2016, hanno sancito definitivamente l’orientamento, già espresso da qualche tempo, e oggi suggellato anche dall’evoluzione normativa, dell’impossibilità di equiparare il trattamento riservato alla pensione rispetto a quello riguardante la retribuzione lavorativa.
E’ stato da ultimo il Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, con diverse ordinanze, a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4 e 36, della Costituzione, nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita, e, in via subordinata, nella parte in cui non prevede le medesime limitazioni in materia di pignoramento di crediti[1] tributari.
La Corte Costituzionale ha risposto alle questioni sollevate dichiarando l’inammissibilità delle censure rivolte alla norma impugnata in riferimento agli artt. 1, 2 e 4 Cost. e ritenendo, invece, ammissibili le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., ma infondate.
Invero tali questioni risultano essere state affrontate frequentemente dal Giudice delle Leggi, anche in passato[2], ma, osserva il rimettente, tale orientamento sarebbe maturato in un contesto ben diverso da quello attuale, sia per quanto riguarda le modifiche normative introdotte sul regime delle pensioni e dei contratti di lavoro, sia per i mutamenti della giurisprudenza, più propensa a riconoscere identità di funzioni allo stipendio ed alla pensione, sia, infine, in ragione della grave crisi economica attuale, che determinerebbe un generalizzato impoverimento dei lavoratori dovuto alla esiguità degli stipendi, e dei salari minimi (per attività lavorative spesso precarie o svolte a tempo parziale), come sarebbe il caso dello stipendio percepito dai debitori nei singoli casi oggetto dei procedimenti di esecuzione forzata per i quali il G.E. ha ritenuto di rimettere la questione di Costituzionalità alla Corte.
Per tali motivi, secondo il giudice a quo, la previsione contenuta nel quarto comma dell’art. 545 cod. proc. civ., laddove consente il pignoramento dello stipendio seppur nel limite del quinto, non apparirebbe più frutto di un razionale contemperamento dell’interesse del creditore con quello del debitore che percepisca uno stipendio, allorquando questo sia destinato in modo essenziale ed imprescindibile a garantire la sopravvivenza del lavoratore e la sua possibilità di svolgere le sue prestazioni lavorative. Il rimettente ha ritenuto, quindi, necessario chiedere alla Corte Costituzionale un ripensamento, anche alla luce della nuova normativa in tema di pignoramenti per crediti tributari dello Stato[3].
Le vicende riguardano, infatti, debitori il cui stipendio mensile (al netto delle ritenute previste dalla legge, non superava quei parametri di riferimento (quali quelli dell’“assegno sociale” o il trattamento minimo di cui all’art. 38, commi 1 e 5, della legge 28 dicembre 2001, n. 448) che la sentenza della Corte costituzionale n. 506 del 2002 ha individuato come criteri per stabilire il “minimo vitale” sufficiente a garantirsi i mezzi di sopravvivenza, ovvero quella quota di retribuzione necessaria al mantenimento del debitore e della famiglia.
Secondo il Tribunale ordinario di Viterbo la novella introdotta nella materia dei pignoramenti per crediti aventi natura tributaria mostrerebbe la considerazione del legislatore per l’attuale congiuntura economica ed il diverso contesto normativo.
In effetti, non può essere negato che, sebbene dopo diversi anni, il predetto orientamento della Corte Costituzionale[4] per quel che riguarda gli emolumenti da pensione (secondo il quale, pur mantenendosi il limite del quinto del percepito, debba essere sottratta al regime generale di pignorabilità la parte necessaria a soddisfare le esigenze minime di vita del pensionato) sia stato recepito integralmente dal legislatore il quale, con la recente novella legislativa contenuta nel decreto legge 27 giugno 2015, n. 83[5], recante integrazioni agli artt. 545 e 546 cod. proc. civ. In particolare l’art. tredici, comma 1, lettera l), ha aggiunto all’art. 545 cod. proc. civ. la seguente prescrizione al comma 8: «Le somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza, non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà. La parte eccedente tale ammontare è pignorabile nei limiti previsti dal terzo, quarto e quinto comma nonché dalle speciali disposizioni di legge».
Lo stesso dicasi per quanto riguarda il principio affermato nella sentenza della stessa Corte Costituzionale del 15.5.2015, n. 85, che ha portato alla introduzione da parte dell’art. 13, comma 1, lettera l), del d.l. n. 83 del 2015, del comma 9 all’art. 545 cod. proc. civ. con una ulteriore prescrizione afferente alla pignorabilità delle somme su conto corrente bancario o postale intestato al debitore, così formulata: “Le somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione, o di assegni di quiescenza, nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore, possono essere pignorate, per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento; quando l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente, le predette somme possono essere pignorate nei limiti previsti dal terzo, quarto, quinto e settimo comma, nonché dalle speciali disposizioni di legge. Il pignoramento eseguito sulle somme di cui al presente articolo in violazione dei divieti e oltre i limiti previsti dallo stesso e dalle speciali disposizioni di legge è parzialmente inefficace. L’inefficacia è rilevata dal giudice anche d’ufficio”.
In questo caso, infatti, la Corte Costituzionale, pur ritenendo che la tutela dell’interesse costituzionalmente protetto dall’art. 38 Cost. non poteva ritenersi suscettibile di compressione in modo assoluto o comunque sproporzionato, per effetto della penalizzante combinazione delle regole giuridiche inerenti alla struttura del contratto di conto corrente bancario e della responsabilità patrimoniale, ha affermato che l’individuazione e le modalità di salvaguardia della parte di pensione necessaria ad assicurare al beneficiario mezzi adeguati alle sue esigenze di vita anche nel caso di pignoramento direttamente sul conto era da ritenersi riservata alla discrezionalità del legislatore, il quale, secondo la Corte “non avrebbe potuto sottrarsi al compito di razionalizzare il vigente quadro normativo in coerenza con i precetti dell’art. 38, secondo comma, Cost.”
Tanto è vero che una norma simile a quella auspicata era all’epoca già stata inserita proprio nel corpo del già richiamato art. 72 ter, quale comma 2 bis[6] la cui applicazione, tuttavia, era espressamente limitata alla riscossione coattiva dei tributi.
In tal modo, rilevava la Corte Costituzionale, il legislatore aveva determinato una situazione che pregiudicava la fruizione di un diritto sociale incomprimibile poiché i mezzi destinati a tal fine per la semplice confluenza nel conto corrente bancario o postale, perdevano il carattere di indisponibilità in relazione a misure cautelari ed espropriative, rendendo la precedente situazione normativa incompatibile con il precetto contenuto nell’art. 38, secondo comma, Cost. ed incompleto il sistema di tutela del pensionato.
Anche in quel caso, tuttavia, la Corte chiariva che nonostante il vulnus riscontrato e la necessità che l’ordinamento si dotasse (come poi è avvenuto) di un rimedio effettivo per assicurare condizioni di vita minime al pensionato, le questioni in quel caso sollevate restavano inammissibili e non pregiudicavano la «priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario»[7], imponendo, tuttavia, di sottolineare la necessità che lo stesso legislatore desse tempestiva soluzione al problema individuato nella detta pronuncia.
Tuttavia non va dimenticato che la medesima Corte, nell’affermare i principi costituzionali e nel formulare i doverosi inviti al legislatore, poi, accolti, aveva contestualmente già affermato la non assimilabilità del regime dei crediti pensionistici a quelli di lavoro, precisando che individuato il proprium del disposto dell’art. 38, secondo comma, Cost. nell’esigenza di garantire nei confronti di chiunque (con le sole eccezioni di crediti qualificati, tassativamente indicati dal legislatore) l’intangibilità della parte della pensione necessaria per assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita del pensionato, non ne discende automaticamente analoga conseguenza riguardo alle retribuzioni.
E cioè, già nel 2002 la Corte negava la sussistenza di una soglia d’impignorabilità assoluta.
Da un lato, infatti, l’art. 38, secondo comma, Cost., invocato dai giudici remittenti, enuncia un precetto che, quale espressione di un principio di solidarietà sociale, ha come destinatari anche (nei limiti di ragione) tutti i consociati; dall’altro, l’art. 36 Cost., non può essere invocato in favore della tesi della equiparazione tra pensione e retribuzione lavorativa, poiché secondo il Giudice delle Leggi, indica parametri ai quali, nei rapporti lavoratore – datore di lavoro, deve conformarsi l’entità della retribuzione, senza che ne scaturisca, quindi, vincolo alcuno per terzi estranei a tale rapporto, oltre quello – frutto di razionale “contemperamento dell’interesse del creditore con quello del debitore che percepisca uno stipendio – del limite del quinto della retribuzione quale possibile oggetto di pignoramento»[8].
* * *
Con la sentenza del 3.12.2015, quindi, con riguardo alla pretesa illegittimità dell’art. 545 c.p.c. perché inidonea a garantire al lavoratore i mezzi adeguati alle sue esigenze di vita, la Corte Costituzionale, ha precisato, per l’ennesima volta[9] che lo scopo dell’art. 545 cod. proc. civ. è quello di contemperare la protezione del credito con l’esigenza del lavoratore di avere, attraverso una retribuzione congrua, un’esistenza libera e dignitosa, per cui la facoltà di escutere il debitore non può essere sacrificata totalmente, anche se la privazione di una parte del salario è un sacrificio che può essere molto gravoso per il lavoratore scarsamente retribuito.
Con l’art. 545 cod. proc. civ. il legislatore, infatti, si è già dato carico di contemperare i contrapposti interessi “contenendo in limiti angusti la somma pignorabile [e graduando il sacrificio in misura proporzionale all’entità della retribuzione]: chi ha una retribuzione più bassa, infatti, è colpito in misura proporzionalmente minore”, non potendo, tuttavia parificare situazioni diverse.
Né la Corte ha ritenuto potesse qualificarsi arbitraria la norma impugnata sol perché non ha escluso gli stipendi e i salari più esigui[10].
Conseguentemente, è stato confermato l’orientamento consolidato che ha rigettato la questione di legittimità costituzionale, con riferimento all’art. 36 Cost., dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede l’impignorabilità della quota di retribuzione necessaria al mantenimento del debitore e della famiglia[11], sia con la sentenza del 3.12.2015 e sia, da ultimo con la pronuncia del 5.4.2016.
Sotto questo profilo, l’argomento del rimettente secondo cui l’incipiente crisi economica (per quanto socialmente doloroso) e l’evoluzione normativa e giurisprudenziale, comporterebbero il superamento della costante giurisprudenza della Corte in detta materia, non dà luogo di per sé all’illegittimità costituzionale della normativa de qua[12] proprio in ragione della esigenza di non vanificare la garanzia del credito.
Si deve considerare, infatti, che, come chiarito dalla stessa Corte Costituzionale con una pronuncia del 1989, la ratio della limitazione posta all’espropriabilità dei crediti da lavoro dipendente prevista nell’art. 545 cod. proc. civ. – che, come tale, costituisce un limite legislativo alla generale responsabilità patrimoniale del debitore inadempiente prevista dall’art. 2740 del codice civile – trova il suo fondamento nel fatto che nella generalità dei casi il lavoratore dipendente trae i mezzi ordinari di sostentamento per le necessità della vita da un’unica fonte, facilmente aggredibile, «con ciò intendendo però stabilire soltanto dei limiti ad un particolare mezzo di esecuzione ma non certo introdurre una deroga al principio della responsabilità patrimoniale, la quale resta pertanto piena ed illimitata»[13].
Perciò non esiste un parallelismo tra la pignorabilità delle retribuzioni e quella delle pensioni, anche con riferimento al rischio paventato dal rimettente che l’aggressione – seppur limitata – dei redditi “esigui” possa compromettere irrimediabilmente la loro capacità di consentire il reperimento dei mezzi minimi indispensabili per vivere.
A conferma di quanto sopra la Corte ha affermato, in un caso ancor più significativo, in cui l’art. 545 cod. proc. civ. era stato impugnato in riferimento all’art. 32, primo comma, Cost. (nella parte in cui predetermina la pignorabilità dello stipendio o salario nella misura di un quinto e non ne affida, invece, l’importo alla discrezionalità del giudice), che «il diritto alla salute del singolo e le particolari esigenze individuali devono essere assicurate ai non abbienti, o comunque ai soggetti bisognosi di cure o di prestazioni di particolare onere, attraverso gli istituti e gli strumenti dello specifico settore dell’assistenza sanitaria o attraverso quelli dell’assistenza generale e non possono essere addossati, come obbligo Costituzionalmente vincolante, a carico del generico creditore, portatore di un diritto ad una prestazione pecuniaria, giurisdizionalmente accertato attraverso un titolo esecutivo»[14], statuendo definitivamente la diversa configurazione della tutela prevista dall’art. 38 rispetto a quella dell’art. 36 Cost.
A tal proposito non è rilevante la richiamata sopravvenienza del d.l. n. 83 del 2015, il quale assimila la pignorabilità di stipendi e pensioni nel solo caso di somme accreditate su conto corrente bancario o postale, né la Corte ritiene possa costituire tertium comparationis l’art. 72 ter del D.P.R. n. 602 del 1973 nella vigente formulazione, il quale riguarda l’ancor più eterogenea fattispecie inerente alla riscossione coattiva delle imposte sul reddito.
Bisogna prendere atto, comunque, che il legislatore, accogliendo l’orientamento della Corte come sopra sommariamente ricapitolato, sta esercitando la sua discrezionalità in modo articolato, valorizzando gli elementi peculiari delle singole situazioni giuridiche piuttosto che una riconduzione a parametri uniformi, attesa la disomogeneità delle situazioni che ha determinato un contesto normativo differenziato in continua evoluzione.
Calcolo effettivo del quinto cedibile. Dipendenti pubblici e privati. Disparità.
L’argomento affrontato dalla Corte Costituzionale a proposito del limite di pignorabilità delle retribuzioni dei lavoratori, si collega strettamente alla diversa disciplina oggi prevista per i lavoratori dipendenti del settore pubblico e per quelli del settore privato.
Anche in ordine a tale diversità di disciplina è stata sollevata la questione di costituzionalità per illegittima discriminazione, per un verso, dei lavoratori del settore pubblico, e per altro verso, dei lavoratori del settore privato[15].
Ed infatti, da un lato l’art. 545 c.p.c. per i dipendenti privati:
a) non prevede alcun limite nel caso di pignoramento in forza di crediti alimentari, rimettendo la sua determinazione “nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o da un giudice da lui delegato”;
b) prevede il limite del 1/5 per la pignorabilità della retribuzione mensile nel caso di pignoramento per tributi dovuti allo Stato, Province, Regioni ed in eguale misura per ogni altro credito (crediti di natura ordinaria);
c) in caso di concorso delle precedenti cause (crediti alimentari + crediti di natura tributaria + crediti di natura ordinaria) il limite di 1/5 è elevato sino alla metà.
Per i dipendenti pubblici, invece, vi è una disciplina diversa, e cioè:
a) nel caso di crediti di natura alimentare la retribuzione è pignorabile sino al limite di 1/3;
b) nel caso di crediti di natura tributaria dovuti allo Stato, Provincie e Regioni (legati al rapporto di lavoro e/o facenti carico all’impiegato sin dall’origine) il limite è quello di 1/5;
c) nel caso, infine, di concorso delle cause di cui al punto b) (crediti di natura tributaria legate al rapporto di impiego + quelle facenti carico all’impiegato sin dall’origine) il limite resta quello di 1/5, che si eleva alla metà, solo laddove i crediti di natura tributaria siano in concorso con crediti di natura alimentare (a+b)[16].
Invero pare di rinvenire una disparità di trattamento laddove, in particolare l’art. 2, primo comma, numero 3), del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, nella disciplina per i dipendenti pubblici non prevede che il pignoramento dello stipendio possa avvenire nella misura di un quinto oltre che per i crediti di natura tributaria[17] anche per quelli di natura ordinaria[18] e laddove, anche il secondo comma del medesimo art. 2, del citato Testo Unico, a differenza di quanto previsto dall’art. 545, quinto comma, cod. proc. civ. non prevede per i lavoratori dipendenti del settore pubblico che nel caso di simultaneo concorso di pignoramenti eseguiti per il soddisfacimento di più crediti tributari il limite della metà, statuendo espressamente la limitazione sino al 1/5 dello stipendio, con una disciplina estremamente più favorevole rispetto a quelle dei dipendenti privati.
A tali eccezioni si aggiunge il fatto che l’art. 2 T.U. non prevede nemmeno “uno specifico pignoramento del quinto per i crediti di natura tributaria, separato e distinto dal pignoramento eseguito per i crediti di altra natura”. Tale trattamento è stato ritenuto dal Tribunale di Como[19] del tutto ingiustificato tanto da costituire una violazione dell’art. 3 della Costituzione.
D’altro canto l’art. 68 del medesimo Testo Unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche Amministrazioni, prevede, all’inverso, una disciplina più gravosa per i dipendenti pubblici laddove stabilisce che “qualora i sequestri o i pignoramenti abbiano luogo dopo una cessione perfezionata e debitamente notificata, non si può sequestrare o pignorare se non la differenza fra la metà dello stipendio o salario valutati al netto di ritenute e la quota ceduta, fermi restando i limiti di cui all’art. 2”.
Anche tale discrasia è stata posta all’attenzione della Corte Costituzionale, “nella parte in cui non prevede che il pignoramento dello stipendio dei pubblici dipendenti possa avvenire nei limiti di cui all’art. 2 sullo stipendio residuo, al netto della trattenuta operata per la precedente cessione”.
Nel caso di cui all’art. 68, contrariamente a quanto avviene per l’art. 2, la disciplina dei dipendenti pubblici, appare invero, meno favorevole, rispetto a quelle dei dipendenti privati, atteso che[20] per i dipendenti privati, la cessione di parte dello stipendio perfezionata prima del pignoramento, determina a norma dell’art. 2914, primo comma, numero 2), cod. civ. la riduzione della base di calcolo del quinto pignorabile, in conseguenza della diminuzione dell’importo dello stipendio opponibile al creditore pignorante.
E cioè nel caso di precedente cessione volontaria di un quinto, la base di calcolo dello stipendio pignorabile del dipendente privato è ridotta a 4/5 dell’intero, dei quali sarebbe concretamente pignorabile solo 1/5, e cioè 4/25 dell’intero; nel caso di dipendente pubblico, invece, la quota pignorabile si calcola sottraendo la quota ceduta alla metà dell’importo della retribuzione e calcolando, quindi, il 1/5 sulla base dell’intero stipendio. In sostanza la quota pignorabile resta il quinto dell’intera retribuzione, ma non deve superare la metà della retribuzione totale, al netto della quota ceduta.
Ebbene, tanto evidenziato, vi è da dire che la discrasia eccepita ad oggi permane atteso che la Corte adita ha ritenuto che le eccezioni sollevate dal giudice remittente si sarebbero risolte nel chiedere al Giudice delle Leggi, “una pronuncia volta a creare, manipolando più norme, un nuovo equilibrio (con una parificazione assoluta) rispetto a quello realizzato in modo di certo non manifestamente irragionevole dal legislatore con il prevedere un sistema che, a fronte di un trattamento più favorevole per il pubblico dipendente quanto al cumulo di pignoramenti, contempla un trattamento meno favorevole quanto al concorso di pignoramenti con precedenti cessioni del credito“.
La Corte ha concluso, quindi, affermando che l’ordinanza di rimessione abbia prospettato profili identici a quelli già considerati con l’ordinanza n.359 del 2004, che in precedenza aveva dichiarato la manifesta inammissibilità delle dette questioni (sollevate dal medesimo giudice).
Tuttavia, non ne ha dichiarato l’inammissibilità né la manifesta infondatezza, in quanto nel caso di specie ha ritenuto di restituire al giudice ‘a quo’ gli atti relativi alle questioni di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 2, primo comma, numero 3), del d.P.R. 5/1/1950, n. 180, dell’art. 2, secondo comma, nonché, nel caso dell’art. 68, secondo comma, del d.P.R. n. 180 del 1950, affinché ne valutasse la rilevanza sul giudizio ‘a quo’ dello ‘jus superveniens’ costituito dall’art. 1, comma 137, della legge 30/12/2004, n. 311[21].
Invero, tale ultima norma nulla ha aggiunto né ha tolto alle questioni sollevate, che ad oggi rimangono, comunque, irrisolte, sebbene oggetto di forte interesse giuridico e sociale.
Per concludere si ritiene utile far rilevare che, comunque, i rimborsi spese (forfetari o analitici) legati a missioni del lavoratore dipendente non sono pignorabili, mentre e’ pignorabile l’eventuale indennità di trasferta percepita dal lavoratore comandato ad operare, per conto dell’azienda, in luoghi lontani dall’abituale sede.
[1] Introdotte dall’art. 3, comma 5, lettera b), del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamente e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44, che ha introdotto l’art. 72 ter (Limiti di pignorabilità) nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito).
[2] Si richiamano ex plurimis le sentenze n. 434 del 1997, n. 209 del 1975, n. 102 del 1974, n. 38 del 1970, n. 20 del 1968 e le ordinanze n. 491 del 1987, n. 260 del 1987 e n. 12 del 1977
[3] Art. 72 ter del D.P.R. n. 602 del 1973: “1. Le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate dall’agente della riscossione in misura pari ad un decimo per importi fino a 2.500 euro ed in misura pari ad un settimo per importi superiori a 2.500 euro e non superiori a 5.000 euro. 2. Resta ferma la misura di cui all’articolo 545, quarto comma, del codice di procedura civile, se le somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennita’ relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, superano i cinquemila euro. 2bis. Nel caso di accredito delle somme di cui ai commi 1 e 2 sul conto corrente intestato al debitore, gli obblighi del terzo pignorato non si estendono all’ultimo emolumento accreditato allo stesso titolo”.
[4] Corte Costituzionale n. 506 del 2002.
[5] Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2015, n. 132.
[6] Comma inserito dall’art. 52, comma 1, lettera f), del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia) – convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98. Vedi sopra nota n. 2.
[7] Cort. Cost. sentenza n. 23 del 2013
[8] Cort. Cost. sentenza n. 506 del 2002.
[9] Cort. Cost. sentenza n. 20 del 1968.
[10] Cfr. sentenza n. 20 del 1968; in seguito, anche sentenze n. 102 del 1974 e n. 209 del 1975, nonché ordinanze n. 12 del 1977 e n. 260 del 1987.
[11] Cfr. sentenze n. 434 del 1997, n. 209 del 1975, n. 102 del 1974, n. 38 del 1970, n. 20 del 1968 e ordinanze n. 491 del 1987, n. 260 del 1987 e n. 12 del 1977).
[12] Cfr. sentenza Corte Cost. n. 102 del 1974.
[13] Cfr. sentenza Cort. Cost. n. 580 del 1989.
[14] Cfr. ordinanza n. 225 del 2002.
[15] Cort. Costituzionale n. 10.3.2005 N. 101
[16] Art. 2, del d.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180 (Testo Unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione di salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni)
[17] Quelli dovuti allo Stato, alle Province e ai Comuni.
[18] Cfr. l’art. 545 c.p.c. IV comma “ed in eguale misura per ogni altro credito”.
[19] il Tribunale di Como è il giudice remittente nel procedimento di esecuzione promosso da Ri. s.p.a.. contro Co.Is. ed altro, iscritta al n. 900 del registro ordinanze 2004, che ha porovocato la pronuncia della Corte Costituzionale del 10.3.2005 n. 101 sull’argomento.
[20] Il contrasto con l’ art. 3 della Costituzione scaturirebbe dalla più favorevole disciplina dettata, nell’analoga fattispecie prevista dall’art. 545 V comma c.p.c.
[21] Legge 30 dicembre 2004, n. 311(Gazzetta Ufficiale Repubblica Italiana 31 dicembre 2004, n. 306 – Supplemento Ordinario, n. 192) Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005). Articolo 1 /1034 Comma 137-138 [Modifica alla disciplina su sequestro, pignoramento e cessione degli stipendi]; 137. Al testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 1, primo comma, dopo le parole: “di comunicazione o di trasporto” sono inserite le seguenti: “nonché le aziende private”; b) la rubrica del titolo III è sostituita dalla seguente: “Della cessione degli stipendi e salari dei dipendenti dello Stato non garantiti dal Fondo, degli impiegati e dei salariati non dipendenti dallo Stato e dei dipendenti di soggetti privati”; c) l’articolo 34 è abrogato; d) al primo comma dell’articolo 54 le parole: “a norma del presente titolo” sono sostituite dalle seguenti: “a norma del titolo II e del presente titolo”.