NESSO DI CAUSALITA’ MATERIALE E RESPONSABILITA’ APPALTATORE

Cassazione Civile, Sezione III, sentenza 17 settembre- 22 ottobre 2013 n. 23915

a cura della Dott. ssa Gabriella Longo

Massima

 

Non si configura  responsabilità dell’appaltatore per l’ipotesi di danno intervenuto ad opera non ancora ultimata.

Nell’ipotesi di appalto che non implichi il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile nel quale deve essere eseguita l’opera appaltata, non viene meno, per il committente, il dovere di custodia e di vigilanza.

In tema di illecito aquiliano, perché rilevi il nesso di causalità tra antecedente ed evento lesivo, deve ricorrere la duplice condizione che si tratti di antecedente necessario dell’evento e che esso non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l’evento stesso.

 

Sintesi del caso

 

Il Tribunale di Frosinone respinge la domanda con cui i committenti avevano convenuto in giudizio gli appaltatori per ottenere risarcimento danni materiali, fisici e morali a causa del malfunzionamento di un impianto di riscaldamento installato dai convenuti.

Questi ultimi eccepiscono che l’impianto non era stato ultimato, assumendo la segnalazione dell’assenza del foro di aerazione a parte attrice.

La Corte d’appello di Roma conferma la sentenza di primo grado sostenendo che ben ha fatto il primo giudice a ritenere non provata la responsabilità dei convenuti  poichè l’impianto non era stato completato e non erano state effettuate operazioni di collaudo nè la consegna dell’opera.

Parte attrice soccombente propone ricorso per Cassazione con sei motivi più memoria.

Parte convenuta vittoriosa resiste con controricorso più memoria.

 

La materia del contendere

Sussistenza di una responsabilità dell’appaltatore ex 2043 c.c. per i danni derivanti da opera non ancora ultimata e diritto al risarcimento ex 1655 c.c.

 

Quaestio iuris

 

Quali sono i criteri di individuazione del nesso di causalità materiale in diritto civile? Quali eventi interrompono il nesso causale? Si può configurare la responsabilità extracontrattuale dell’appaltatore nella peculiare ipotesi di opera non ancora ultimata?

 

Normativa di riferimento

 

Art. 2043 c.c., art. 2050 c.c., art. 2051 c.c., art. 40 c.p., art. 41 c.p.

 

Nota esplicativa

 

Nella sentenza in esame la Cassazione coglie l’occasione per affrontare nuovamente la questione sul nesso di causalità materiale in diritto civile, in questo caso in materia di appalti, e fornire ulteriori chiarimenti.

Nel codice civile non riscontriamo una disposizione che, expressis verbis, fornisca una definizione del nesso di causalità materiale.

Al riguardo dottrina e giurisprudenza richiamano l’art. 40 c.p. secondo il quale “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.

Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

Il riferimento, seppur non nei medesimi termini è ravvisato nell’art. 2043 c.c. laddove il verbo “cagionare” evoca, seppur in via implicita, il nesso di causalità.

L’art. 40 c.p. va letto in combinato disposto con l’art. 41 c.p., il quale, quanto al concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra la azione od omissione e l’evento.

Esse valgono ad interrompere il rapporto di causalità solo nell’ipotesi in cui siano state da sole sufficienti a determinare l’evento.

In via preliminare è opportuno precisare che va distinto il nesso di causalità materiale, ovvero il nesso condotta evento, dal nesso di causalità giuridica, ovvero il nesso tra evento e danno.

Nel sistema della responsabilità civile, la causalità rappresenta, allo stesso tempo, criterio di imputazione del fatto illecito e  parametro per la verifica dell’entità delle conseguenze pregiudizievoli.

La causalità materiale comporta un giudizio sull’illecito volto ad accertare il legame tra comportamento ed evento perchè possa configurarsi una responsabilità “strutturale” (l’an).

La causalità giuridica si incentra in un giudizio sul danno finalizzato  a rilevare le singole conseguenze dannose per precisare i confini della responsabilità risarcitoria (il quantum).

Quest’ultima presuppone a monte l’esistenza del nesso di causalità materiale, come, va ribadito, il risarcimento presuppone l’esistenza di una responsabilità.

Di qui l’importanza che assume la sussistenza del nesso di causalità materiale ai fini della responsabilità, strumentale al riconoscimento del risarcimento del danno.

Mentre per la causalità giuridica vi è una compiuta definizione all’art. 1223 c.c. e, per uno specifico caso all’art. 1227 co. 2 c.c., per il nesso di causalità materiale la dottrina e la giurisprudenza di Cassazione hanno ritenuto di dover ricorrere al settore penalistico, con alcune modifiche.

Del resto seppur l’art. 1227 co. 1 si riferisca allla causalità materiale esso, di per se stesso, non è sufficiente a parametrare una nozione dai confini più ampi rispetto a quelli propri dell’art. 1227 c.c.

Sono stati individuati nel corso degli anni una serie di criteri  e correttivi al fine di delineare, anche in ambito civilistico una nozione di causalità materiale rispondente al sistema civile.

In base alla teoria della condicio sine qua non, il giudice accerta il nesso causale laddove il fatto è causa dell’effetto.

In base a questo assunto la causa è ogni singola condizione dell’evento, ogni antecedente, senza il quale l’evento non si può verificare, cosicchè tutte le condizioni necessarie e sufficienti a produrre l’evento sono cause equivalenti dello stesso.

Da sè solo considerato il principio della condicio sine qua non è insufficiente a delimitare le cause da sole sufficienti a provocare l’evento, generando un regresso all’infinito (c.d. “teoria della madre” in base alla quale la madre sarebbe responsabile di aver generato il figlio che ha commesso un omicidio).

In conseguenza di ciò, come è avvenuto nel campo penalistico, anche in civile si sono apportati i correttivi della causalità efficiente, umana ed adeguata.

Secondo il criterio della “causalità efficiente” il fatto deve essere stato causa efficiente dell’effetto, onde esso non si sarebbe prodotto a prescindere da quel comportamento.

La teoria della “causalità umana” considera il potere di signoria dell’uomo sugli eventi quale discrimen tra risultati che egli ha effettivamente causato e gli eventi eccezionali che sfuggono al suo dominio.

In ultimo il “criterio della causalità adeguata” opera attraverso un giudizio di prognosi postuma ex ante, in virtù del quale l’evento è imputabile alla condotta umana solo se  ne è conseguenza normale, sviluppo probabile, prevedibile, o, secondo taluni, non improbabile.

La differenza tra il diritto penale e civile risiede principalmente nel quantum della verifica del rapporto di causalità.

In ambito penalistico si richiede “l’oltre ogni ragionevole dubbio”, o “elevato grado di credibilità razionale”, diversamente  in civile, applicando la teoria della distribuzione del rischio”, ci si limita al “more probably that not” , ovvero “più probabile che non” (vedi in tal senso, da ultimo, Cass., sez. III civ., sent. 27 marzo 2014 n. 7195;  Cass., sez. III civ., sent. 25 febbraio 2014 n. 4439; Cass., sez. III civ., sent. 29 novembre 2013 n. 26788; Cass., sez. III civ., sent. 17 settembre 2013 n. 21255; Cass. sez. III civ. sent. 22 ottobre 2013 n. 23933 ).

Nell’ipotesi di specie, facendo applicazione dei criteri suddetti, i giudici di legittimità hanno ritenuto che l’intervento operato da un soggetto estraneo all’appaltatore abbia interrotto il nesso di causalità materiale che poneva a carico di quest’ultimo la responsabilità per i danni da esalazioni.

A sostegno si richiama la giurisprudenza consolidata della Corte in tema di illecito aquiliano, secondo la quale affinchè rilevi il nesso di causalità tra un antecedente ed evento lesivo, deve ricorrere la duplice condizione che si tratti di  antecedente necessario dell’evento che non sia poi neutralizzato dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l’evento stesso (ex multis Cass., sez. III civ., sent. 16 ottobre 2007 n. 21619, Cass., sez. III civ., sent. 18 aprile 2005 n. 7997, confermate recentemente da Cass. sez. III civ. sent. 23 maggio 2014 n. 11532).

Nel caso specifico l’iniziativa di un soggetto terzo  ha interrotto il nesso di causalità tra il comportamento di costoro e il danno subito dagli attuali ricorrenti, risultando da solo idoneo a determinare il danno stesso.

Inoltre i giudici del Palazzaccio escludono possa configurarsi nella fattispecie in esame una responsabilità ex art. 2050 c.c., in conformità al d.m. 37/2008 in materia.

Seppur in presenza di attività pericolosa, la normativa richiamata dagli attori concerne solo le tecniche specifiche da seguire nella realizzazione dell’impianto di riscaldamento, mentre la responsabilità extracontrattuale è collegata all’accensione, non imputabile agli appaltatori.

Dall’esame degli atti della decisione della Corte d’Appello, emerge, infatti, che l’accensione fu iniziativa del fratello del ricorrente, che agì pur conoscendo la mancata messa in opera della canna fumaria.

Non può essere parimenti rilevata la violazione degli obblighi di custodia, ex art. 2051 c.c., poichè gli appaltatori non avevano alcuna possibilità di controllo concreta sull’uso dell’impianto.
Già in precedenza la giurisprudenza di legittimità (Cass. 18 luglio 2011, n. 15734) aveva sostenuto, in materia di responsabilità dell’appaltatore, che, nell’ipotesi di appalto non implicante il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile (nel quale deve essere eseguita l’opera appaltata), non veniva meno, per il committente, il dovere di custodia e di vigilanza.

Nel caso in oggetto tale dovere gravava sugli attuali ricorrenti che avevano il potere di accedere nell’appartamento dove si trovava l’impianto di riscaldamento.

Alla luce di tali considerazioni la Corte rigetta il ricorso con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di Cassazione.

 

Bibliografia

 

F. Caringella – L. Buffoni, Manuale di diritto civile, III edizione, Trento 2011;

G. Chinè, M. Fratini, A. Zoppini, Manuale di diritto civile, V edizione, Roma 2014;

F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, XIII edizione, Napoli 2007;

 

 

Testo sentenza

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

 

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 17 settembre – 22 ottobre 2013, n. 23915

(Presidente Massera – Relatore D’Amico)

Svolgimento del processo

M.T. e D.C. convennero in giudizio, dinanzi al Tribunale di Frosinone, P.A. e V.S. per sentirli condannare al pagamento della somma di L. 20.000.000 a favore del T. e della somma di L. 35.000.000 in favore della C., a titolo di risarcimento dei danni materiali, fisici e morali che assumevano di aver subito a causa del malfunzionamento di un impianto di riscaldamento installato dagli stessi convenuti.
Esponevano gli attori che Massimo T. nel 1983 aveva affidato a questi ultimi l’installazione del suddetto impianto nella sua abitazione e che lo stesso era stato completato e consegnato al committente nel mese di marzo 1986.
Dichiaravano altresì gli attori che il 6 aprile 1986 il fratello di M.T. aveva acceso l’impianto e che essi, dopo averlo spento, si erano recati a dormire. Il giorno seguente la madre di M.T. aveva trovato il figlio e la nuora intossicati a causa delle esalazioni di tale impianto.

Per questa ragione il T. e la C. erano stati trasportati in ospedale.
Si costituirono A.P. e S.V. eccependo che il suddetto impianto non era stato completato e che la mancanza del foro di aerazione era stata segnalata all’attore ed a suo fratello Silvio il giorno precedente all’accensione.
In via riconvenzionale chiedevano condannarsi gli attori al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. e comunque T.M. al pagamento della somma dovuta per i lavori da loro effettuati.

Il Tribunale di Frosinone respinse sia la domanda attrice che la domanda riconvenzionale.

Proposero appello M.T. e D.C.

La Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale dichiarando che correttamente il primo giudice aveva ritenuto non provata la responsabilità dei convenuti perché l’impianto non era stato ultimato e non risultava essere stata effettuata alcuna operazione di collaudo, né la consegna dell’opera.
Propongono ricorso per cassazione M.T. e C.D. con sei motivi più memoria.
Resistono con controricorso A.P. e S.V. Anch’essi presentano memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano “Insufficiente ed illogica motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio – (art. 360 comma I n. 5 cpc). Violazione dell’art. 116 c.p.c. (art. 360 n. 3 cpc)”.
Secondo i ricorrenti la Corte d’appello ha omesso di esaminare sia la testimonianza di S.T.; sia la testimonianza di P.V., dipendente e fratello del convenuto A.P.

Quanto alla testimonianza del teste Pr. i ricorrenti segnalano poi che lo stesso era un ausiliare degli appaltatori e che all’udienza del 27 giugno 1994 egli aveva rilasciato dichiarazioni inverosimili per esonerare i convenuti dalla responsabilità loro contestata.

Il giudice d’appello, ad avviso dei ricorrenti: 1) ha fatto proprie in maniera assolutamente generica le argomentazioni del primo giudice, senza esprimere le ragioni della conferma di tale pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti; 2) non ha fatto alcun riferimento alla sentenza penale emessa dal Pretore a conclusione del processo instaurato a carico dei convenuti per il reato di cui all’art. 590 c.p.c. con la quale è stato dichiarato estinto il reato ascritto per effetto del decreto di amnistia di cui al DPR 865/86.

Il motivo è infondato.

I ricorrenti sviluppano infatti solo argomentazioni attinenti al merito della vicenda, mentre il Tribunale, nella sua motivazione, prendendo in esame le varie risultanze processuali, ha correttamente indicato le ragioni per cui ha ritenuto non provata la responsabilità di A.P. e V.S.

In particolare la sentenza impugnata, sulla scorta della ctu, ha accertato che l’impianto non era stato ultimato e che non era stata eseguita alcuna operazione di collaudo e consegna dello stesso prima dell’accensione, effettuata da S..T. al di fuori di ogni intervento e controllo degli appaltatori.

In tal senso il Tribunale ha ritenuto attendibile la testimonianza del Pr. secondo il quale l’incontro fra l’appaltatore e gli appellanti avvenne per trattare il pagamento dei lavori da ultimare.

Per le ragioni esposte deve ritenersi che la decisione del Tribunale si fonda su una valutazione discrezionale delle prove e che la stessa, proprio in quanto correttamente motivata ed immune da vizi logici o giuridici, è insindacabile in sede di legittimità.

Per contro, le argomentazioni del ricorrente si sostanziano nella critica, sotto un profilo di merito, del contenuto decisorio della sentenza impugnata e non possono quindi essere prese in considerazione in questa sede.

Per quanto riguarda poi il rapporto fra giudizio penale e giudizio civile in caso di amnistia va rilevato che, in tema di giudicato, la disposizione di cui all’art. 652 c.p.p., cosi come quelle degli artt. 651, 653 e 654 dello stesso codice, costituisce un’eccezione al principio dell’autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile e non è pertanto applicabile, in via analogica, oltre i casi espressamente previsti. Ne consegue che soltanto la sentenza penale irrevocabile di assoluzione (per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima), pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre le sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non hanno alcuna efficacia extrapenale, a nulla rilevando che il giudice penale, per pronunciare la sentenza di proscioglimento, abbia dovuto accertare i fatti e valutarli giuridicamente; ne consegue altresì che, nel caso da ultimo indicato, il giudice civile, pur tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione (Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2011, n. 1768).

Con il secondo motivo si denuncia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 1173 – 1176 – 1177 cc 1655 2050 e 2051 cc (art. 360 n. 3 cpc)”.

Sostengono i ricorrenti che la decisione della Corte d’appello, la quale ha ritenuto non sussistere la responsabilità contrattuale dei convenuti perché l’opera non era stata completata e consegnata come funzionante, è errata per i seguenti motivi:
a) perché nel contratto di appalto, quale quello stipulato fra le parti, l’appaltatore è tenuto a realizzare l’opera a regola d’arte, osservando la diligenza qualificata ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c.;

b) perché durante tutto il tempo dell’esecuzione dell’opera, e fino alla consegna all’appaltante, il dovere di custodia e di vigilanza sulla cosa da consegnare passa dal committente all’appaltatore il quale è tenuto per contratto sia ad impedire che la cosa sia distrutta o si deteriori, sia che essa possa causare danni al committente. L’obbligo di custodire l’impianto è infatti incluso in quello di riconsegna e la diligenza del buon padre di famiglia che qualifica l’adempimento della obbligazione di custodire la cosa del terzo da parte del custode è del tutto uguale a quella richiesta all’appaltatore a cui carico è posta, ope legis, l’obbligazione di consegnare la cosa che sta realizzando, trattandosi di obbligazione accessoria e funzionale al contratto.

Con il terzo motivo si denuncia “Nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 112 cpc in relazione all’art. 360 n. 4 cpc omesso esame di un motivo di appello.

Violazione degli art.li 2050 – 2969 cc. Dm 7.6.1973 n 724800 (Approvazione e pubblicazione delle tabelle Uni Gig di cui alla legge 6.12.1971 n 1083) Art. 1 della legge 6.12.71 n. 1086 e dell’art. 1176 cc”.

Sostengo i ricorrenti che il giudice d’appello è incorso in violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto non si è pronunciato sulla responsabilità dei convenuti ai sensi dell’art. 2050 cc, sollevata in appello, perché l’installazione di un impianto di riscaldamento a gas deve considerarsi attività pericolosa.
Con il quarto motivo si denuncia “Nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 112 cpc in relazione all’art. 360 n. 4 cpc – Omessa pronuncia sui motivi di appello.

Violazione dell’art. 1655 – 2051 e 2043 cc in relazione all’art. 360 n. 3 cpc”.
Sostengono i ricorrenti che il giudice del gravame è incorso in violazione dell’art. 112 c.p.c., per non essersi pronunciato sulla questione dell’applicabilità dell’art. 2051 cc, nonostante gli appellanti avessero censurato la sentenza di primo grado per aver implicitamente ritenuto non sussistere la responsabilità degli appaltatori ai sensi di tale disposizione.

Nel caso di specie, ad avviso di T. e C., gli appaltatori S. e P., titolari dell’effettivo potere di signoria e di ingerenza sulla res, erano obbligati, ai sensi della suddetta disposizione, a controllare lo stato dell’impianto e ad impedire che quest’ultimo, completo dell’allaccio del gas e dell’accensione elettrica ma privo dei tubi di scarico, potesse, per effetto di intrinseco dinamismo proprio, ovvero per la insorgenza di prevedibili agenti causali esterni, arrecare danno a terzi.
I tre motivi, che per la stretta connessione devono essere congiuntamente esaminati, sono infondati.

In particolare, quanto al profilo della dedotta responsabilità dell’appaltatore, si deve osservare che, nell’ipotesi di appalto che non implichi, come nel caso di specie, il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile nel quale deve essere eseguita l’opera appaltata, non viene meno, per il committente, il dovere di custodia e di vigilanza (Cass., 18 luglio 2011, n. 15734).

Nella fattispecie de qua tale dovere gravava quindi sugli attuali ricorrenti che avevano il potere di accedere nell’appartamento dove si trovava l’impianto di riscaldamento.
Deve poi escludersi che sussista una responsabilità ai sensi dell’art. 2050 c.c.
Infatti, se è vero che l’installazione di un impianto di riscaldamento può considerarsi attività pericolosa, è anche vero che la normativa richiamata dai ricorrenti si riferisce solo alle specifiche tecniche da seguire per la realizzazione dello stesso, mentre la responsabilità extracontrattuale è correttamente ricollegata dalla Corte d’appello al fatto dell’accensione, alla quale gli appaltatori sono rimasti estranei.

Emerge al riguardo dalla decisione della Corte d’appello che l’intempestiva accensione dell’impianto fu dovuta all’iniziativa di S.T., fratello del ricorrente, il quale agì pur essendo a conoscenza della mancata messa in opera della canna fumaria e al di fuori di ogni intervento e controllo degli appaltatori.
A questi ultimi non può pertanto essere imputata alcuna responsabilità per essere rimasti estranei al fatto dell’accensione.

Né si rileva alcuna violazione dell’art. 2051 c.c. in quanto gli appaltatori non avevano alcuna possibilità concreta di controllo sull’uso dell’impianto, essendo lo stesso collocato all’interno dell’appartamento dei coniugi del quale essi avevano l’esclusiva disponibilità.

Deve peraltro rilevarsi che i quesiti formulati da parte ricorrente a conclusione dei motivi esaminati sono meramente valutativi, mentre non sussiste omessa pronuncia in quanto la violazione delle richiamate disposizioni deve ritenersi implicitamente disattesa.

Con il quinto motivo si denuncia “Violazione e falsa applicazione degli art. 40 e 41 c.p. e dell’art. 2043 cc (art. 360 n. 3 cpc)”.

Sostengono i ricorrenti che il convincimento della Corte d’appello, secondo la quale non sussiste la responsabilità extracontrattuale degli appaltatori perché gli stessi sono rimasti estranei al fatto dell’accensione, è in contrasto con gli artt. 2043 c.c. e 40 e 41 c.p.

In specie, secondo i ricorrenti, la Corte d’appello, per stabilire se sussistesse il nesso di causalità materiale di cui all’art. 2043 c.c. fra comportamento e danno, non ha correttamente applicato, alla luce del pacifico orientamento della Suprema Corte, il principio della conditio sine qua non, temperato da quello della regolarità causale di cui agli artt. 40 e 41 c.p.

Ad avviso di T. e C. la condotta omissiva degli appaltatori è stata la causa dell’evento ai sensi dell’art. 40 c.p. in quanto se questi ultimi avessero disattivato l’impianto la successiva accensione da parte di S..T. non avrebbe causato alcun danno.
Il motivo è infondato.

È infatti giurisprudenza consolidata di questa Corte che, in tema di illecito aquiliano, perché rilevi il nesso di causalità tra un antecedente e l’evento lesivo, deve ricorrere la duplice condizione che si tratti di un antecedente necessario dell’evento e che l’antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l’evento stesso.

Nella specie l’iniziativa di S.T. ha interrotto il nesso di causalità tra il comportamento degli appaltatori e il danno subito dagli attuali ricorrenti, risultando da solo idoneo a determinare il danno stesso.

Con il sesto motivo si denuncia “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia (art. 360 n. 5 cpc).
Violazione dell’art. 116 cpc (art. 360 n. 3 cpc)”.

Sostengono i ricorrenti che i giudici di secondo grado non hanno adeguatamente motivato né hanno fatto buon uso del loro potere di valutazione della prova e di libero convincimento. Nella specie la mera accensione dell’impianto da parte di T.S. non costituisce, a loro avviso, né un atto eccezionale, né un atto imprevedibile e la stessa non sarebbe stata da sola sufficiente a determinare l’evento se non vi fosse stata la condotta omissiva degli appaltatori.

Per tale motivo i ricorrenti ritengono illogica la motivazione laddove afferma che l’accensione dell’impianto sarebbe avvenuta fuori dal controllo degli appaltatori.

Il motivo ripropone argomenti già sollevati nei precedenti e pertanto non si può che rinviare alle risposte elaborate in relazione agli stessi, sottolineando comunque che le critiche formulate da parte ricorrente nei confronti dell’impugnata sentenza non vertono su questioni di diritto ma su accertamenti di fatto dei quali si richiede una nuova valutazione nel merito, più favorevole agli stessi T. e C.
Ne risente la formulazione dei quesiti che risultano essenzialmente valutativi.
Per tutte le ragioni che precedono il ricorso deve essere rigettato con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.

 

 

Lascia un commento

Help-Desk