Nota a Sentenza Cassazione Penale, sez. VI, 19 aprile 2024, n. 16659
Avv. Fabio A. G. Cupani
1.INQUADRAMENTO GENERALE DELLA PROBLEMATICA
1.1. LA RISERVA DI LEGGE NEL NOSTRO ORDINAMENTO: CENNI.
Com’è noto, la riserva di legge, il cui fondamento risiede nella Grundnorm o in altra legge costituzionale, consiste nell’attribuzione alle fonti di rango primario della competenza a regolare una determinata materia.
Se la riserva è assoluta la legge detta la disciplina per intero, viceversa se la riserva è relativa è ammesso il concorso di norme di livello inferiore, per gli aspetti di dettaglio e nei limiti dei principi fissati in via legislativa.
Secondo un’autorevole interpretazione costituiscono riserve relative, ad es., quelle previste dagli artt.23 e 97 Cost., rispettivamente in materia di prestazioni patrimoniali coatte e di organizzazione dei pubblici uffici, quest’ultima estesa anche all’attività autoritativa della pubblica amministrazione, ossia all’esercizio delle funzioni che incidono su posizioni di interesse legittimo.
In altri casi la riserva è rinforzata, ossia il contenuto della legge è predeterminato, ad es. l’art.16 Cost. ammette limitazioni alla libertà di circolazione e soggiorno, purchè fondate su motivi di sicurezza pubblica o sanità ed introdotte in via generale, ossia riferimento all’intera collettività o a ben individuate categorie di soggetti, non a singoli individui (cf. Corte Cost. 201/2021).
Specularmente, in altre ipotesi la dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto configurabile una riserva relativa necessaria, caratterizzata per il fatto che la disciplina di dettaglio è doverosamente demandata a norme gerarchicamente inferiori, seppur all’interno della cornice da questa delineata.
1.2.IL PRINCIPIO DI LEGALITA’ IN MATERIA PENALE.
Dalla riserva di legge scaturisce uno dei cardini dello stato di diritto, ossia il principio di legalità, secondo cui ogni provvedimento della pubblica autorità diretto ad incidere nella sfera degli individui deve trovare fondamento nella legge o in altra fonte ad essa equiparata, cui spetta fissare i presupposti dell’esercizio del potere e determinare il contenuto dell’atto da adottare, quanto meno nei suoi elementi essenziali.
Detto principio ha una particolare pregnanza in materia penale, vale a dire nell’attività di repressione dei crimini che cagiona restrizioni delle libertà individuali garantite dalla Costituzione.
In alcuni ordinamenti, in cui prevalgono le istanze di difesa sociale, la legalità è intesa in senso sostanziale, per cui l’azione penale è caratterizzata da un amplissimo margine di discrezionalità, potendo essere esercitata avverso qualsiasi fatto ritenuto socialmente pericoloso, a prescindere dal fatto che lo stesso sia previsto o meno dalla legge come reato.
Nel nostro sistema, invece, è stato adottato un sistema di legalità formale, esplicitato nell’art.25 comma 2 Cost., secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso, pertanto le ipotesi criminose sono rigorosamente tipizzate e l’azione penale è obbligatoria (art. 112 Cost.).
In tal guisa si attua il contemperamento tra la finalità retributiva della pena e la tutela delle liberatà fondamentali, in primo luogo quella personale ex art.13 Cost., la quale può subire le limitazioni tassativamente previste alla duplice condizione che venga rispettata la doppia riserva di legge e di giurisdizione.
In seconda battuta, la predeterminazione dei reati e la doverosità dell’azione penale consentono di delimitare la discrezionalità del potere giudiziario, anche perché gli atti con forza di legge sono soggetti a controllo di costituzionalità (art.134 Cost.) e vanno disapplicati quando contrastanti norme dell’UE direttamente applicabili, così come può essere adita in via pregiudiziale la CGUE.
In attuazione del dettato costituzionale l’art.1 cp dispone che i reati e le pene devono essere espressamente previsti dalla legge, mentre ai sensi dell’art.2 comma 1 nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la disciplina in vigore nel momento in cui è stato commesso, non costituiva reato, quindi viene ricalcato il principio costituzionale dell’irretroattività.
A livello sovranazionale gli artt.7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – 15 del Patto Internazionale di New York sui diritti civili e politici del 1966- 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE dispongono:
“nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale, nè può essere inflitta una pena più severa di quella applicabile al momento del reato”.
Gli artt.15 e 49 cit., inoltre, aggiungono che se una legge entrata in vigore successivamente alla commissione del fatto prevede una sanzione più lieve il colpevole deve beneficiarne.
Secondo l’ART.6 COMMI 1 -2 TRATTATO DELL’UE l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
L’Unione aderisce alla CEDU, senza alcuna modifica delle competenze dell’Unione definite nei trattati ed i diritti fondamentali, garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.
Fino all’entrata in vigore della L. Cost. 3/2001, avente ad oggetto la modifica del Titolo V, parte II della Costituzione, l’adeguamento alle norme internazionali e comunitarie avveniva in base ai meccanismi di cui agli artt.10-11 Cost..
Secondo l’art.117 comma 1 Cost., come riformulato nel 2001, invece, il potere legislativo statale e regionale è esercitato nel rispetto degli obblighi internazionali e dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’UE, i quali sono divenuti parametri interposti di costituzionalità.
Le disposizioni adottate in spregio agli obblighi sovranazionali, dunque, oltre ad esporre lo Stato alle responsabilità previste per il mancato rispetto dei propri impegni, sono destinate ad essere caducate in quanto illegittime, fatto salvo il potere – dovere di disapplicazione delle norme anticomunitarie, di cui si è già detto.
Costituiscono controlimiti alla primazia del diritto dell’UE, tuttavia, i diritti inviolabili della persona ed i principi fondamentali dell’ordinamento, come la riserva di legge in materia penale in favore degli stati membri, poiché le limitazioni di sovranità ammesse dall’art.11 Cost. devono essere circoscritte alle specifiche finalità indicate nella medesima norma, non compromettere valori essenziali.
Qualora detti controlimiti non fossero rispettati le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati comunitari potrebbero essere sottoposte a sindacato di legittimità ex art.134 Cost.. (Corte Cost. sent.183/1973 – CGUE sent. Taricco).
1.3. I PRINCIPI DI TASSATIVITA’ E DI DETERMINATEZZA
Secondo il criterio della tassatività le norme penali devono essere interpretate in modo restrittivo e non possono essere applicate per analogia a casi non contemplati, come si desume dall’art.25 comma 2 Cost. e dall’art.14 prel. del codice civile.
Secondo l’orientamento dominante, tuttavia, la tassatività non va intesa in senso assoluto ma è ispirata al favor libertatis, pertanto il divieto di interpretazione analogica deve intendersi riferito alle sole norme incriminatrici e a quelle da cui possono derivare conseguenze sfavorevoli per il reo (analogia in malam partem).
È ritenuto legittimo, di contro, il procedimento analogico in bonam partem, avente ad oggetto previsioni la cui applicazione può elidere l’antigiuridicità o escludere la punibilità della condotta, ovvero determinare la mitigazione della pena o produrre altri effetti vantaggiosi per l’agente.
Secondo il principio della determinatezza, per altro verso, la fattispecie deve essere descritta in maniera sufficientemente precisa e deve consistere in un fatto suscettibile di accertamento secondo le conoscenze scientifiche ed empiriche disponibili al momento in cui è commesso
La tassatività e la determinatezza consentono di stabilire una netta demarcazione tra le condotte lecite e quelle penalmente rilevanti, in modo che il soggetto possa liberamente orientare la propria condotta, valutando le conseguenze giuridiche conoscibili e prevedibili della stessa, nel pieno rispetto del principio di colpevolezza e della funzione rieducativa della pena (art.27 Cost.).
1.4. L’ETEROINTEGRAZIONE DELLE NORME INCRIMINATRICI.
Il principio di determinatezza soffre di taluni temperamenti dovuti al fatto che non sempre il legislatore è in grado di descrivere compiutamente la fattispecie, essendo necessario rinviare ad altre fonti di pari o inferiore grado per la definizione di taluni elementi, in funzione integrativa del precetto.
Gli elementi naturalistici, più precisamente, sono descritti mediante l’utilizzo delle comuni conoscenze, come ad es. i concetti di vita, incolumità fisica, patrimonio, ed elementi normativi, qualificati da norme esterne, le quali ne definiscono il significato.
Gli elementi normativi giuridici, di contro, fanno riferimento a norme di diritto, come ad es. l’altruità della cosa nel furto o nell’appropriazione indebita, che deve essere accertata secondo la disciplina sulla circolazione della proprietà, oppure i reati presupposto nei delitti di calunnia, ricettazione, riciclaggio o nella responsabilità amministrativa delle persone giuridiche dipendente da reato, regolata dal dlg.231/2002.
Gli elementi extragiuridici, invece, sono definiti mediante rinvio a regole o principi di carattere morale o sociale, come ad es. la definizione di atti osceni o contrari alla pubblica decenza, ovvero il concetto di pubblico scandalo quale evento del delitto di incesto.
Sui limiti entro cui può essere ammessa l’eterointegrazione della norma penale e sulle modalità con cui può avvenire si illustrano gli orientamenti principali.
Un primo indirizzo afferma il carattere assoluto della riserva di legge in materia, quindi mentre è pienamente legittimo l’intervento di altre norme primarie, viceversa le fonti di livello inferiore dovrebbero limitarsi a mere specificazioni tecniche del contenuto del precetto.
Sarebbe ammissibile, altresì, il rinvio a provvedimenti individuali e concreti, poiché questi, non essendo caratterizzati da generalità ed astrattezza, non innovano l’ordinamento e, quindi, non vi sarebbe alcuna delega in favore di norme secondarie, se non per gli aspetti che non richiedono valutazioni riservate al legislatore.
Detta interpretazione sarebbe preferibile per un’altra ragione, ossia al fine di evitare l’elusione del controllo di legittimità costituzionale, cui sono soggetti gli atti con forza di legge, mentre i regolamenti dovrebbero essere impugnati dinanzi al giudice amministrativo, ma solo se dotati di immediata efficacia lesiva ovvero unitamente agli atti applicativi.
Si aggiunge che il sindacato di costituzionalità in via incidentale può essere esercitato senza limiti di tempo, viceversa l’impugnazione dinanzi al G.A. va proposta entro 60 giorni dalla pubblicazione, notificazione o avvenuta conoscenza dell’atto, ovvero entro 30 giorni se l’interessato intende proporre un ricorso amministrativo.
Una contrapposta corrente, invece, propende per il carattere relativo della riserva ex art.25 comma 2 Cost, in quanto, come precedentemente accennato, taluni elementi normativi non possono essere predeterminati in modo completo dal legislatore e richiedono l’intervento di altre fonti, ad integrazione o a completamento.
Ciò accade spesso in materie caratterizzate da elevato tecnicismo, soggette a frequenti aggiornamenti con l’apporto di conoscenze specialistiche, come es. il contrasto del traffico di sostanze stupefacenti e dopanti, enumerate in elenchi approvati dal Governo sulla base studi in campo medico -farmacologico, ferma restando la portata essenziale del precetto, determinata dal DPR 309/1990 (Corte Cost. sent.282/90).
Poiché il nucleo del fatto tipico, come detto, rimarrebbe attratto nell’orbita della riserva di legge, sarebbe preservato il monopolio parlamentare delle scelte di politica criminale ed al contempo la definizione della fattispecie interamente in via normativa evita che tale compito venga assolto dal giudice, con inevitabili oscillazioni interpretative pregiudizievoli per la certezza del diritto.
Tra le diverse interpretazioni è prevalente la teoria della riserva tendenzialmente assoluta, che ammette l’integrazione limitatamente alla specificazione degli aspetti tecnici e secondo criteri fissati dalla legge.
Un indirizzo più elastico ammette la determinazione del precetto interamente in via extrapenale, pur nel rispetto di taluni parametri fissati dalla norma incriminatrice, ed una terza opinione asserisce che il legislatore possa rimettere alla totale discrezionalità della pubblica amministrazione la definizione del comando o del divieto, ma si tratta di opinioni isolate.
Minori problemi sor di determinatezza, invece, ha ad oggetto a provvedimenti individuali e concreti, poiché gli stessi non integrano il precetto e l’illecito consiste nella violazione del contenuto di un atto rientrante in una delle classi previste dalla norma, purchè ne siano sufficientemente specificati i presupposti di tali atti, il carattere, il contenuto ed i limiti.
La fattispecie assunta a riferimento per esplicare tale concetto è quella prevista dall’art.650 cp., che, si perfeziona quando non viene ottemperato quanto disposto tramite atti della pubblica autorità adottati per ragioni di ordine, sicurezza pubblica, igiene e sanità (cfr. Corte Cost. Sent. 282/1990).
Parte della dottrina, tuttavia, dubita della conformità costituzionale della predetta norma, poiché la specificazione dei predetti elementi potrebbe dirsi compiutamente effettuata solo per gli atti motivati da ragioni di igiene.
Un differente indirizzo, invece, non condivide i dubbi di legittimità, mettendo in evidenza, in primo luogo, la necessità di un’interpretazione restrittiva, in secondo luogo la previsione non si applica quando sussistono gli estremi di un differente reato e, secondo un’opinione minoritaria, in tutte le ipotesi in cui sia configurabile un qualsiasi differente illecito penale, procedurale o amministrativo.
È fatta salva la facoltà, da parte del giudice, di sindacare la validità dell’atto presupposto, per lo meno nelle ipotesi in cui la legittimità sia un espresso requisito del medesimo, come nella menzionata fattispecie ex art.650 cp, che si configura quando sono commesse violazioni di “provvedimenti legittimamente dati”.
Secondo un primo indirizzo, detto controllo avverrebbe per mezzo del sindacato incidentale ex art.5 L. 2248/1865, all’esito del quale l’atto può essere dichiarato legittimo oppure illegittimo ed in tale ultima ipotesi dovrebbe essere disapplicato, con effetti limitati al giudizio in corso.
Il potere ex art.5 cit., tuttavia, è stato attribuito al giudice ordinario a tutela dei diritti soggettivi, al fine di evitare che il tradizionale divieto di annullamento degli atti amministrativi da parte del GO si traducesse in un vuoto di tutela per il cittadino leso.
In materia penale, invece, il giudice non adotta alcuna misura idonea ad incidere sugli effetti dell’atto presupposto, ma si limita ad accertarne la legittimità quale elemento costitutivo della fattispecie.
Il rimedio ex art.5 LAC, in tutti i casi, potrebbe essere attivato solo in bonam partem, ossia in guisa da escludere la responsabilità del reo oppure a determinare l’applicazione di un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto dalla disciplina vigente al momento del reato.
Il rinvio può avere ad oggetto non solo norme o provvedimenti di futura emanazione, ma anche atti preesistenti, suscettibili di successiva modifica o abrogazione, come nell’ipotesi esaminata dalla Corte Costituzionale con la menzionata sentenza n.282/1990, in materia di prevenzione antincendio.
La Corte si è pronunciata sulla legittimità del combinato disposto degli artt.1 comma 1 e 5 L.818/84, i quali prevedono, rispettivamente, l’obbligo di richiedere il rilascio o il rinnovo della certificazione antincendio per tutti i soggetti indicati in un decreto del Ministro dell’Interno del 16 febbraio 1982, nonché una sanzione penale per il mancato adempimento di tale obbligo.
L’art. 1 comma 1 cit., dunque, demanda alla fonte regolamentare l’individuazione dei soggetti attivi del reato.
L’art.4 primo comma L. 966/1965, quindi una norma antecedente ma rimasta in vigore, ha disposto che “i depositi e le industrie pericolose soggette alle visite ed ai controlli di prevenzione incendi, nonché alla periodicità delle visite, sono determinati con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro per l’industria e commercio, in relazione alle esigenze di sicurezza degli impianti“
A giudizio della Corte il rinvio al regolamento del 16.02.82 ha carattere rigido e storicamente definito, avendo ad oggetto uno specifico decreto ministeriale e non in genere i decreti emanati ai sensi del menzionato art. 4 primo comma L.966/1965, per cui parrebbe garantita la predeterminazione legale del contenuto del reato.
La pubblica amministrazione, tuttavia, preserva la facoltà di revocare o modificare l’atto oggetto del rinvio avvalendosi del potere attribuito dall’art. 4 cit., il quale, come già osservato, non è stato espressamente abrogato né può ritenersi tacitamente abolito, sebbene gli artt.1 – 5 L.818 non contengano alcun riferimento alla predetta norma.
L’art. 1 del DM del 27 marzo 1985, per l’appunto, ha riformulato il DM del 1982, producendo l’effetto paradossale di estinguere, per un verso, l’obbligo amministrativo per determinati soggetti ma non quello penale e la relativa sanzione ex art.5 cit., in forza del rinvio fisso o formale al DM del 1982.
Specularmente, coloro che il DM del 1985 ha individuato come obbligati sul piano amministrativo non incorrono in alcuna responsabilità penale, poiché non vi è alcun rinvio al DM del 1985, con smarrimento dell’effetto della tutela penale e mancato soddisfacimento delle esigenze di determinatezza.
Secondo la Corte, inoltre, si tratta di reato proprio, caratterizzato da un nesso funzionale tra la qualifica soggettiva richiesta ed il bene tutelato, verso il quale sussiste uno speciale obbligo di protezione, pertanto a maggior ragione l’individuazione dei soggetti attivi avrebbe dovuto essere effettuata dalla legge.
A giudizio della Corte, ancora, la norma penale in oggetto non consente di differenziare gli elementi costituenti sufficiente determinazione del fatto tipico da quelli meramente integrativi e anche qualora detta distinzione vi fosse la stessa non avrebbe rilevanza.
Il potere di introdurre modifiche ex art.4 L.966/65 consente di identificare nuovi soggetti obbligati sul piano amministrativo e, quindi, di intervenire sul nucleo essenziale della fattispecie, ma soprattutto il totale rinvio al regolamento contrasta con l’art. 25 comma 2 Cost.
Secondo la Corte affiora il tentativo di riduzione degli illeciti penali in attuazione del principio di frammentarietà, secondo cui la tutela penale costituisce un’extrema ratio (cfr. sentenze di questa Corte n. 364 del 1988 e n. 487/del 1989).
2.1. L’EFFICACIA DELLA LEGGE NEL TEMPO ED IL REGIME INTERTEMPORALE DELLE NORME PENALI – LA RILEVANZA DELLA VACATIO LEGIS.
Un altro aspetto importante è l’efficacia della legge nel tempo, in particolare ai sensi gli artt.73 comma 3 Cost. – 10 prel. cc., le leggi ed i regolamenti diventano efficaci decorsi 15 giorni dalla loro pubblicazione, salvo che sia altrimenti disposto, potendo essere previsto un termine differente, anche più breve.
Un’altra eccezione è costituita dai decreti – legge, i quali entrano in vigore il giorno in cui sono pubblicati in quanto fondati su ragioni d’urgenza, del resto secondo l’art.15 L.400/88 gli stessi contengono misure di immediata attuazione e le modifiche apportate in sede di conversione sono efficaci dal giorno successivo alla pubblicazione della legge medesima.
La pubblicazione ed il decorso del termine di vacatio, nei casi in cui il medesimo è previsto, assicurano la conoscibilità del testo normativo, di cui non è possibile eccepire la mancata o inesatta conoscenza al fine di sottrarsi ai relativi effetti.
In particolare, in materia di fatti illeciti, l’errore di diritto, meglio definito come errore sul precetto, pur essendo frutto di un’inesatta percezione non esclude il dolo, come si evince dall’art.5 cp., altrimenti l’ignorantia legis potrebbe essere facilmente invocata come esimente, con l’effetto di svilire la forza imperativa della legge e di incoraggiare gli individui a disinteressarsi delle norme.
In materia penale, con sentenza interpretativa di rigetto n.364/1988 è stata adottata un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.5 cp. in relazione all’art.27 Cost., il quale statuisce la personalità della responsabilità penale, intesa come rimproverabilità del reo e come possibilità di attribuire il fatto al suo autore, anche al fine di attuare la finalità rieducativa della sanzione.
Secondo la Corte un fatto può essere definito proprio colpevole se, al momento in cui è commesso, l’agente aveva contezza o poteva conoscere, secondo l’ordinaria diligenza e tenuto conto delle proprie specifiche competenze, il contenuto della norma punitiva, mentre il dolo va escluso se l’ignoranza è inevitabile.
Tornando al tema dell’efficacia della legge nel tempo, secondo l’art.11 prel. cc. di norma essa dispone per il futuro e non retroagisce, a meno che non sia diversamente disposto, purchè la previsione della retroattività non generi alcun contrasto con la Costituzione ed in particolar modo con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza.
Sono generalmente retroattive, ad es., le leggi di interpretazione autentica, le quali non devono avere carattere innovativo avendo il solo scopo di risolvere un’oggettiva incertezza in merito al significato da attribuire ad una o più disposizioni.
Dette leggi, tuttavia, devono essere adeguate al canone della ragionevolezza, corollario dell’art.3 Cost., devono rispettare il principio del legittimo affidamento e le prerogative di altri organi costituzionali.
In materia penale, invece, abbiamo già visto che secondo gli artt.25 comma 2 Cost – 2 cp una norma incriminatrice o modificativa del trattamento in senso sfavorevole deve entrare in vigore prima che venga commesso un fatto da essa previsto come reato o relativamente al quale sono state apportate modifiche.
La ratio è evidente, in quanto interventi normativi contra reum retroattivi questi potrebbero essere strumentalizzati per fini persecutori, per restringere le libertà fondamentali o per reprimere il dissenso ideologico, in violazione degli artt.3 Cost, 13 ss. Cost., 21 Cost..
L’impossibilità di prevedere con ragionevole certezza le conseguenze delle proprie condotte e, segnatamente, il rischio di vedersi inflitta sanzioni introdotte o incrementate da norme che potrebbero essere emanate in futuro, indurrebbe gli individui a limitare l’esercizio dei propri diritti e delle proprie libertà.
Per quanto concerne le norme penali d’interpretazione autentica, secondo un primo indirizzo esse retroagiscono senza distinzione tra effetti favorevoli e sfavorevoli, avendo carattere non innovativo, mentre secondo una diversa impostazione tale strumento ermeneutico non può costituire un mezzo per eludere le garanzie in materia penale.
Secondo un terzo orientamento, l’incidenza negativa di tali norme sulla posizione del reo potrebbe essere neutralizzata spostando l’indagine sull’elemento psicologico, poiché se il significato attribuito alla norma incriminatrice era imprevedibile al momento del fatto può configurarsi un errore sul precetto scusabile ex art.5 cc., con conseguente difetto di colpevolezza.
Un importante intervento d’interpretazione autentica è l’art.1 DL 394/00, secondo cui i fini dell’applicazione dell’art. 644 cp e dell’art. 1815 secondo comma cc si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento.
Esaminando nel dettaglio il regime intertemporale delle norme penali, l’art.2 cp comma 1 cp statuisce, lo si ribadisce, la non punibilità di una condotta che secondo la legge in vigore al momento in cui è stata commessa non costituiva reato.
È esclusa la punibilità, parimenti, se il fatto non è più considerato illecito da una norma entrata in vigore successivamente alla data di consumazione, ossia se è stata disposta un’abolitio criminis, mentre se è intervenuta una sentenza di condanna irrevocabile cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali.
Più precisamente, secondo l’art.673 cpp il giudice dell’esecuzione dispone la revoca della sentenza o del decreto penale di condanna, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato ed adotta i provvedimenti conseguenti, anche nelle ipotesi di proscioglimento o non luogo a procedere per estinzione del reato o non imputabilità.
L’art.2 comma 2 cp costituisce una particolare ipotesi di abrogazione della legge, che secondo l’art.15 prel cc. può essere disposta solo da una legge successiva e può avvenire per dichiarazione esplicita del legislatore oppure in maniera implicita, ossia per effetto dell’incompatibilità tra le due norme susseguitesi ovvero se quella più recente regola interamente la materia già disciplinata da quella anteriore.
Particolare rilievo riveste, ai fini ricostruttivi, l’abolitio parziale, che può essere attuata in modo espresso, ossia espungendo una o più sotto – fattispecie determinate, oppure tacitamente, mediante l’introduzione di elementi di specialità in guisa da ritagliare le ipotesi destinate a mantenere rilevanza penale e quelle che, di contro, vengono abrogate.
Basti pensare, ad es., al reato di omesso versamento di ritenute certificate ex art. 10-bis d.lgs. 74/2000, la cui soglia di punibilità è stata elevata da 50.000 euro a 150.000 euro per ciascun periodo d’imposta ai sensi del dlg. 158/2015.
Secondo autorevole giurisprudenza le soglie punitive nei reati tributari sono elementi costitutivi, in quanto incidono sul disvalore del fatto tipico, pertanto l’innalzamento delle stesse determina un effetto abolitivo relativamente a tutte le fattispecie in cui, in astratto, si verifica il superamento della soglia originaria ma non di quella incrementata.
In relazione alla fattispecie ex art.10 bis. Cit rimangono punibili, in quanto ricomprese sia nella precedente che nella nuova ipotesi astratta, le condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore delle modifiche ma nelle quali viene oltrepassato l’importo di €.150.000,00.
In sostanza, il superamento del nuovo limite rientrava già nella previsione originaria, ai sensi della quale era sufficiente oltrepassare la soglia di €.50.000,00, mentre attraverso la riforma dell’art.10 bis la punibilità è stata limitata ai mancati versamenti che superano €.150.000,00.
Un’altra ipotesi è quella del delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali operate a carico dei lavoratori dipendenti, di cui all’art.2 L.463/83, norma riformulata dal dlg. 8/2016 mediante l’inserimento del limite minimo di €.10.000,00 in ragione d’anno, al di sotto del quale la condotta costituisce un illecito amministrativo.
Anche in questo caso le condotte compiute anteriormente al dlg. 8/2016, nelle quali non sia riscontrato il superamento del predetto importo annuo, devono ritenersi non più illecite penalmente.
In altre ipotesi, ancora, l’abrogazione di una norma può determinare l’abolitio di talune sotto – fattispecie e contestualmente l’innesto di una o più nuove figure criminose, ossia l’ampliamento della fattispecie originaria.
Per quanto concerne le vicende successorie di cui ai commi 3-4 dell’art.2 cp, nella sua formulazione il comma 3 statuiva che qualora la legge in vigore al momento del fatto ed un’altra entrata in vigore successivamente fossero state differenti avrebbe dovuto essere applicata quella più favorevole al reo, purchè non fosse intervenuta una sentenza irrevocabile.
A seguito dell’entrata in vigore dell’art.14 della L.85/2006 detta disciplina è confluita nel nuovo comma 4, mentre il comma 3 dispone che la pena detentiva applicata con una precedente condanna è immediatamente convertita in pena pecuniaria ragguagliata ex art. 135 cp., anche in deroga al giudicato formale, qualora una legge successiva al fatto preveda la sola sanzione pecuniaria.
Nella fattispecie ex comma 4, dunque, muta la disciplina del reato, ad es. possono essere variati il genere, la specie o la misura della pena, possono essere introdotte, eliminate o modificate condizioni obiettive di punibilità, esimenti o scriminanti, condizioni di procedibilità etc..
Il trattamento di maggior favore, dunque, va individuato secondo una valutazione globale, ad es una delle due discipline potrebbe prevedere la procedibilità d’ufficio, anziché a querela, ma al contempo contemplare delle attenuanti, per cui potrebbe essere ritenuta più vantaggiosa nel suo complesso.
L’ipotesi regolata dal comma 3, invece, riveste carattere speciale rispetto a quella di cui al comma 4 ma potrebbe anche essere definita sui generis, vista l’immediatezza della conversione anche dopo la condanna, secondo uno schema del tutto analogo a quello delineato al comma 2, di cui condivide la medesima esigenza egualitaria, a fronte della scelta legislativa di sopprimere una pena detentiva.
Come già detto, la retroattività della lex mitior non è esplicitamente prevista dalla Costituzione, per cui si è discusso in merito al suo fondamento ed alla sua compatibilità con la legge fondamentale.
Secondo un primo indirizzo il principio ex art. 25 comma 2 Cost. ha carattere assoluto e riguarda ogni disposizione penale, quale garanzia della certezza giuridica, con la conseguenza che i commi 2 – 3- 4 dell’art.2 cp dovrebbero essere dichiarati incostituzionali.
principi generali vigenti in tema di non retroattività delle sanzioni penali più sfavorevoli al reo, desumibili
dagli artt. 25, secondo comma, della Costituzione, e 2 del codice penale, impedirebbero in ogni caso che una eventuale sentenza, anche se di accoglimento, possa produrre un effetto pregiudizievole per l’imputato nel processo penale pendente innanzi al giudice a quo» (sentenza n. 85 del 1976).
Abbiamo già evidenziato, tuttavia, che secondo l’opinione prevalente il principio di legalità ed il divieto di retroattività sono funzionali prevalentemente alla tutela del favor libertatis contro interventi legislativi che potrebbero trarre origine da finalità persecutorie o repressive del dissenso ideologico.
Secondo un contrapposto indirizzo, invece, il principio di eguaglianza formale ex art.3 Cost. impone di riservare un trattamento uniforme a tutti i soggetti, indipendentemente dalla circostanza che abbiano agito prima o dopo l’entrata in vigore della norma abolitrice o modificatrice.
Sarebbe contrario all’art.3, infatti, continuare a punire fatti che il legislatore ritiene non più meritevoli di pena ed allo stesso modo sarebbe discriminatorio seguitare ad applicare a tali fatti le disposizioni più svantaggiose previgenti, basate su un giudizio di disvalore mitigato dalla nuova norma.
Per le stesse ragioni di cui sopra, sarebbero compromesse la finalità rieducativa e quella preventiva della pena, la quale non potrebbe alcuna efficacia deterrente se fossero puniti comportamenti ritenuti non più riprovevoli oppure ritenuti meritevoli di un trattamento meno severo.
Nelle più recenti evoluzioni giurisprudenziali l’applicazione della lex mitior ha trovato una base sempre più ampia, ad la C.G.U.E. con sentenza del 03 maggio 2005 ha ricondotto detto principio alle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri, quindi lo stesso è parte integrante dei principi generali dell’UE.
Si è fatto riferimento, altresì, all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, secondo cui se una legge entrata in vigore successivamente alla commissione del fatto prevede una sanzione più lieve il colpevole deve beneficiarne.
Nella sentenza della Grande Camera della CEDU del 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, ancora, il principale riferimento normativo è l’art.7 della Convenzione Europea, nel quale deve ritenersi implicitamente inclusa della disciplina più favorevole tra quella in vigore al momento del fatto e quella successiva, purchè non sia intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna.
Secondo la Corte occorre un approccio dinamico ed evolutivo della Convenzione, al fine di offrire garanzie concrete ed effettive tra cui il riconoscimento del favor rei, principio fondamentale in materia penale, che oggi va riagganciato anche all’art.117 comma 1 Cost., poiché l’adesione alla CEDU, ratificata con legge, ha fatto sorgere un obbligo internazionale cui deve uniformarsi il legislatore.
Un aspetto esaminato da recente giurisprudenza è l’operatività retroattiva di una norma abolitiva o più favorevole quando non è ancora decorso il termine di vacatio legis, in particolare l’art. 2 comma 1 lett. B dlg. 150/2022, che avrebbe dovuto acquisire vigenza il 01 novembre 2022, il quale ha introdotto la procedibilità a querela per una serie di reato.
Il decreto – legge 162 del 31 ottobre 2022, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 31 ottobre 2022 ed entrato in vigore lo stesso giorno, ha differito l’entrata in vigore del predetto art.2 al 30 dicembre 2022, per cui si è posto il problema dell’applicabilità della norma nei giudizi pendenti.
Un primo indirizzo è favorevole alla soluzione positiva, poiché se per un verso l’intero decorso del periodo di vacatio serve a garantire la conoscibilità della norma, oltre al controllo dell’opinione pubblica, il giudice non può essere obbligato a continuare ad applicare una norma abrogata da una successiva già valida.
La Suprema Corte con sent. N.45104/2022 ha aderito ad un differente orientamento, secondo cui la vacatio è il punto di riferimento essenziale per l’entrata in vigore della legge, che non può ritenersi obbligatoria se non allo scadere del predetto termine.
Fino a quando la vacatio non è conclusa, peraltro, il legislatore può intervenire, come accaduto nel caso in esame con il DL 162, il quale ha differito l’entrata in vigore dell’art.2 del dlg.150/2022.
Una vicenda analoga ha riguardato l’art. 18 comma 1 lett. B del dlg. 27/2021, che sarebbe dovuto entrare in vigore il 26 marzo 2021, il quale aveva abrogato la legge n. 283 del 1962 in materia di reati alimentari.
È successivamente, intervenuto il DL n. 42/2021, emanato il 22 marzo 2021 e divenuto efficace il 25 marzo 2021, ossia il giorno successivo alla sua pubblicazione ed un giorno prima del dlg. 27/21, il quale ha sostituito nell’art.18 alle parole “fatte salve le disposizioni di cui agli artt. 7, 10 e 22” le parole «fatte salve le disposizioni di cui agli artt. 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 12-bis, 13, 17, 18, 19 e 22».
Secondo la giurisprudenza tra i due provvedimenti legislativi non si è verificata alcuna successione, proprio per il fatto che il DL. 42/2021, come detto, è entrato in vigore prima del dlg.27/21 mantenendo la condotta di commercio di alimenti in cattivo stato di conservazione nell’area dell’illiceità penale.
2.2. IL CONTROLLO DI COSTITUZIONALITA’ SULLE NORME DI FAVORE E LA RAGIONEVOLEZZA QUALE LIMITE AL FAVOR REI.
La più tradizionale impostazione attribuiva carattere assoluto al favor rei, in quanto corollario del divieto di retroattività sfavorevole dell’art.25 comma 2 Cost., pertanto una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto norme di tale tipologia avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza.
Una pronuncia di accoglimento, infatti, non avrebbe potuto influire sull’esito del giudizio a quo, il quale avrebbe essere definito sempre sulla base delle stesse previsioni impugnate, anche se viziate (Corte Cost.sent. n. 85 del 1976), altrimenti l’applicazione di disposizioni diverse e meno vantaggiose rispetto a quelle vigenti al momento del fatto sarebbe stata contraria all’art.25 comma 2 Cost..
Va segnalato, all’interno dell’orientamento principale, un indirizzo secondo cui la questione di legittimità sarebbe rilevante rispetto al modo di decidere il giudizio a quo, ossia rispetto all’iter motivazionale seguito dal magistrato, il quale deve fare riferimento, al fine di giustificarne l’applicazione, non solo alle norme impugnate ma anche al favor rei.
Successive pronunce della Corte hanno sovvertito detto orientamento, mettendo in evidenza la necessità di esercitare il controllo ex art.134 Cost. anche in malam partem, al fine di non istituire zone franche non previste dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile” (sent. n. 148 del 1983 – 394 del 2006), oltre che contraria al principio di eguaglianza formale.
Il sindacato, va precisato, deve essere esercitato nel rispetto della riserva di legge, quindi, non può essere utilizzato al fine di creare nuove fattispecie criminose o estendere quelle esistenti a casi non previsti, ovvero di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (sentenza n. 394 del 2006; ordinanze n. 204, n. 66 e n. 5 del 2009)» (ordinanza n. 285 del 2012).
Con la citata sentenza n. 394 del 2006, tuttavia, sono state ritenute ammissibili declaratorie di illegittimità di norme che accordavano a determinati gruppi di soggetti o di condotte un trattamento più benevolo rispetto a quello previsto da una disposizione comune o generale, che in tal guisa avrebbe ipso iure riacquistato la propria originaria portata applicativa (vedi anche sent. n. 148 del 1983).
Talvolta la norma di favore è vigente al momento del fatto e deroga ad un’altra disposizione coesistente, tuttavia ciò non preclude una sindacato sulla lex mitior, ad es. per eccesso di delega ex art.76 Cost., senza che ciò comporti alcuna ingerenza nella sfera riservata al potere legislativo, al contrario il controllo della Corte garantisce il rispetto della legge – delega (cfr. Corte Cost. sent. 5/2014).
Un altro limite al favor rei è la sua derogabilità a tutela di interessi di pari o superiore rilievo, nei limiti della ragionevolezza, in particolare con la sentenza n.393/2006 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.10 comma 3 lett.a L.251/2005, il quale ha escluso l’applicazione della riforma della prescrizione del reato ai giudizi per i quali è stata dichiarata l’apertura del dibattimento.
Secondo la Consulta, detta limitazione non era ragionevole poiché, generalmente, nella fase che precede quella dibattimentale non vengono compiute attività processuali suscettibili essere vanificate.
Con sentenza n.72/2008, relative alle lettere b – c dell’art.10 L.251, le quali limitano l’operatività della disciplina in materia di prescrizione ai procedimenti che non siano pendenti in grado d’appello o dinanzi alla Corte di Cassazione, la Corte ha dichiarato infondate le questioni.
La scelta del legislatore espressa nelle citate disposizioni, difatti, non è irragionevole in quanto motivata dall’esigenza di evitare la dispersione di attività processuali già compiute nei precedenti gradi di giudizio, a tutela di interessi di rilievo costituzionale come l’efficienza del giudizio e la salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale.
2.3. ABOLITIO CRIMINIS E ABROGATIO SINE ABOLITIONE
Uno degli aspetti più controversi è da sempre la fissazione di criteri discretivi tra abolizione e successione ex art.2 comma 4 cp, poiché frequentemente l’incriminazione viene riformulata o sostituita integralmente da un’altra disposizione, senza essere formalmente abrogata, ovvero viene affiancata da una nuova previsione che regolare le stesse ipotesi, senza che vengano chiariti i rapporti tra le due norme.
Si illustrano brevemente gli orientamenti più significativi.
Secondo una prima teoria, ossia quella della doppia punibilità in concreto, si configura una vicenda modificativa quando un medesimo fatto è sussumibile in due o più disposizioni, pur se non è ravvisabile un’omogeneità strutturale tra le ipotesi astratte.
In sostanza, è sufficiente la presenza degli elementi costitutivi della vecchia e della più recente fattispecie, ma questa potrebbe contenere alcuni elementi aggiuntivi non compresi nella precedente, idonei a delineare una nuova incriminazione, la cui estensione ai fatti pregressi contrasterebbe con gli artt.25 comma 2 Cost – 2 comma 1 cp.
Poiché il suddetto criterio, inoltre, è sganciato da parametri astratti, sarebbe trasgredito anche il principio di determinatezza, non essendo possibile delineare in modo preciso il confine tra le attività lecite e quelle illecite.
Secondo la teoria della continuità del tipo di illecito, invece, la successione è determinata dall’identità del bene tutelato e delle modalità di aggressione del medesimo, quindi si applica l’art.2 comma 4 cp se rimane immutato il disvalore del fatto, in caso contrario si assiste ad un’abrogazione e contestualmente alla comparsa di una nuova ipotesi illecita.
Anche la predetta impostazione è stata criticata, analogamente ad altre interpretazioni ispirate all’obiettività giuridica, per il fatto che i contorni di questa non sono sempre ben definiti, quindi la decisione di applicare il comma 2 o il comma 4 è legata ad inevitabili oscillazioni giurisprudenziali contrarie alle esigenze di determinatezza.
È stato osservato, inoltre, che lo stesso bene può accomunare fattispecie eterogenee sotto il profilo strutturale, come il furto, l’estorsione e la truffa, viceversa in altre ipotesi in cui si ravvia un rapporto di specialità gli interessi possono essere differenti, come ad es. il peculato e l’appropriazione indebita, l’ingiuria e l’oltraggio a pubblico ufficiale, il sequestro di persona con finalità di eversione e quello a scopo di estorsione.
La tesi più accreditata, recepita da un’importante sentenza delle Sezioni Unite, è quella del confronto astratto logico – strutturale, dal quale può emergere una totale eterogeneità delle fattispecie, con conseguente effetto abrogativo totale per il passato e contestuale creazione di una nuova figura illecita.
Se, invece, vi sono delle analogie strutturali si può configurare un rapporto specialità per specificazione in cui l’ipotesi speciale, contraddistinta per la presenza di uno o più elementi specializzanti, è una sotto-fattispecie di quella generale in cui è interamente contenuta.
In sostanza, all’interno della figura generale vengono ritagliate alcune ipotesi con l’effetto di restringere, se la norma speciale è successiva, o di rendere più ampia, se detta norma precede quella generale, l’area dell’incriminazione.
Nel primo caso si realizza una successione per la parte del fatto tipico che non ha subito variazioni e vengono abolite le rimanenti ipotesi non sussumibili nella nuova figura, in quanto carenti di taluni elementi.
Il delitto di abuso d’ufficio, ad es., secondo l’attuale formulazione dell’art.323 cp si configura solo quando vengono violate specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, senza che residui alcun margine di discrezionalità, con esclusione, quindi, delle violazioni di regolamenti e del vizio di eccesso di potere.
Se, di contro, ad una disposizione speciale ne segue una generale non si verifica alcuna abolitio, in quanto la prima è inglobata nella seconda e mantiene rilevanza penale per intero, tuttavia vengono introdotte ulteriori ipotesi pro futuro, quindi nel doveroso rispetto dei limiti di cui all’art.2 comma 1 cp..
Nella specialità per aggiunta, invece, si registra un’inversione del rapporto di continenza poiché è la fattispecie speciale a contenere quella generale, oltre agli elementi aggiuntivi estranei alla seconda.
Basti pensare, ad es., al sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art.630 cp., che contiene gli stessi elementi costitutivi dell’ipotesi ex art.605 cp, ma a differenza di questa nel delitto ex art.630 cp è necessario il dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto come prezzo della liberazione.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale, nelle ipotesi di specialità per aggiunta occorre verificare se gli elementi aggiuntivi sono idonei ad incidere sul disvalore complessivo, per cui si avrà un’abolizione totale, ad es., se la nuova fattispecie ha un significato lesivo del tutto diverso rispetto alla precedente.
Viceversa, non vi sarà alcun effetto abrogativo se la carica offensiva rimane invariata (cfr. Cass. Pen, Sez. V, sent. del 08.10.2002, Tosetti), mentre un orientamento intermedio ha affermato la necessità di combinare i criteri logico – strutturali con quelli valutativi (Cass. SSUU De Mauro).
Secondo la sentenza a SSUU n.25887/2003 (Giordano), di segno contrario, quando si ravvisa un rapporto di specialità, e quindi di omogeneità strutturale, vi è comunque una limitata continuità tra le fattispecie, dovendo ritenersi ancora punibili i fatti commessi anteriormente nei quali sono presenti i tratti di specialità e non più sanzionabili quelli che ne sono privi.
Nel primo caso si tratta, come già detto, di sotto- fattispecie precedentemente previste come reato, per cui l’estensione della nuova norma non contrasta con il divieto di retroattività in malam partem, mentre le ipotesi del secondo tipo devono ritenersi travolte dall’abolizione, poiché in esse difettano profili di coincidenza con la nuova fattispecie.
Quando ricorre la specialità per aggiunta, pertanto, escludere del tutto l’abolitio nei casi in cui si ritiene che sia rimasto immutato il nucleo di disvalore, secondo i principi dalla sentenza Tosetti, vorrebbe dire considerare penalmente illeciti tutti i fatti posti in essere prima della modifica, inclusi quelli in cui sono assenti gli elementi aggiuntivi, in violazione dell’art. 2 comma 1 cp..
Specularmente, quando il giudizio valoristico conduce a risultati diversi, ma una parte dei fatti pregressi coincide con la nuova fattispecie, imporre l’abolitio senza distinzione alcuna, anziché riconoscere una limitata continuità laddove persistano i profili di specialità, costituirebbe una violazione del principio di eguaglianza e darebbe luogo ad un’amnistia dissimulata, al di fuori dei casi e dei limiti dell’art. 79 Cost.
È fatta salva una diversa previsione legislativa in ordine al regime intertemporale ed a tal proposito la sentenza Giordano, in merito all’opportunità, sostenuta dalla pronuncia De Mauro, di coniugare il confronto strutturale con un complementare giudizio di valore, ritiene che tale esigenza sorga nella sola ipotesi in cui il legislatore abbia esplicitato un’intenzione abolitiva.
La pronuncia del 16 giugno 2003, inoltre, prospetta l’ipotesi di norme incriminatrici vigenti in periodi di emergenza sociale, politica, economica o militare, pertanto il venir meno di tali particolari ragioni o esigenze legittimerebbe un intervento abolitivo generalizzato.
Una conferma, del resto, potrebbe essere tratta dall’art.2 cp comma 5, il quale sottrae le leggi temporanee ed eccezionali al regime intertemporale generale, quindi le stesse, ad es., resistono a successive modifiche ed abrogazioni.
Un’ultima ipotesi da esaminare è l’abolizione di una figura criminosa speciale, a seguito della quale diventa nuovamente applicabile un’altra previsione generale, ad es. a seguito dell’soppressione dell’art.341 cp in tema di oltraggio a pubblico ufficiale, prima della reintroduzione della fattispecie nell’art.341 bis cp. le condotte offensive sono divenute sussumibili nell’art.594 cp come ipotesi di ingiuria.
A questa si aggiunge la circostanza aggravante ex art.62 n.11, trattandosi di fatti commessi nei confronti di un pubblico ufficiale a causa o nell’esercizio delle proprie funzioni.
Secondo l’orientamento prevalente non cozza con il divieto di retroattività sfavorevole la riespansione della norma generale, poiché la stessa era già in vigore al momento del fatto ma era derogata da quella speciale.
Un autorevole indirizzo giurisprudenziale (Cass. SSUU 29023/01), esclude la riconducibilità della riespansione all’art.2 cp ed in particolare al comma 4, in quanto detta norma disciplina i rapporti tra norme con una differente collocazione cronologica, mentre in questo caso si tratta di un’abolizione vera e propria.
2.4. LA RILEVANZA DELLE MODIFICHE MEDIATE.
Nel paragrafo 1.4. si è parlato della tecnica dell’eterointegrazione partendo dal carattere tendenzialmente assoluta della riserva di legge e dalla distinzione tra elementi fattuali, da un lato, ed elementi normativi dall’altro, i quali, a differenza, dei primi sono qualificati da una norma, giuridica o extragiuridica, cui la disposizione incriminatrice fa esplicito o implicito rinvio.
Sono stati precisati, in particolare, i confini della funzione di completamento delle fonti secondarie, che devono limitarsi alla specificazione degli aspetti tecnici attenendosi ai parametri prefissati dalla legge, in modo da garantire il rispetto dei principi di legalità e gerarchico.
Si definiscono modifiche mediate, invece, le modificazioni e le abrogazioni che interessano norme extra – penali, anche di rango primario, le quali possono influire sulla portata applicativa delle disposizioni incriminatrici, come ad es. l’abolizione del reato presupposto nella calunnia, nella ricettazione o nel riciclaggio, ovvero di uno dei delitti scopo nell’associazione a delinquere.
Una prima osservazione che si potrebbe fare è che l’art.2 cp. si riferisce alle sole norme penali, mentre tutte le rimanenti disposizioni dovrebbero ritenersi soggette al principio tempus regit actum di cui all’art.11 prel., inoltre l’art.25 comma 2 e le norme internazionali, anche nelle parti in cui statuiscono la retroattività in senso favorevole, non contengono alcun riferimento a fonti diverse da quella legislativa.
Abbiamo parlato, a tal proposito, della tecnica del rinvio fisso, avente ad oggetto una norma ben determinata vigente in un determinato momento storico, e di quello mobile, che tiene conto anche delle modifiche, delle abrogazioni o integrazioni della disposizione richiamata.
Con sentenza n.282-90, la Corte Costituzionale ha cassato gli artt.1-5 L.818/1984 per difformità dall’art.25 comma 2 Cost., in quanto se per un verso l’art.1 L.818 contiene un rinvio fisso ad un DM per l’individuazione dei destinatari di un obbligo amministrativo, penalmente sanzionato, dall’altro lato è preservato il potere ministeriale di modificare, integrare, abrogare e di sostituire il predetto decreto.
In tal guisa, dunque, l’art.1 ha sostanzialmente delegato ad una fonte regolamentare l’individuazione dei soggetti attivi, mentre secondo il criterio della determinatezza spetta alla legge descrivere la fattispecie in maniera sufficientemente precisa.
Per quanto concerne le posizioni della dottrina, si illustrano brevemente gli orientamenti principali in materia.
Un primo indirizzo ha applicato la già menzionata teoria della doppia punibilità in concreto, in base alla quale, si rammenta, si configura la successione ex art.2 comma 4 cp quando il fatto concreto è punibile in base alla disciplina vigente al momento del reato e a quella successivamente entrata in vigore.
Secondo tale tesi, qualunque norma che contribuisca a delineare il fatto tipico integra la disposizione incriminatrice, per cui qualsiasi modifica di tali elementi normativi implica un mutamento della legge penale soggetto all’art.2 cp.
Tale ricostruzione, tuttavia, contrasta con il dato normativo, in particolare il codice distingue l’errore sul precetto, che rileva sul piano della colpevolezza solo se è inevitabile (art.5 cp), e l’errore ricadente su norma extra – penale, il quale esclude il dolo quando da esso origina un errore sul fatto, con salvezza delle ipotesi di responsabilità colposa espressamente previste dalla legge (art. 47 comma 3 cp).
L’art. 47 comma 3 cp, ove venisse accolta detta interpretazione, in tal guisa verrebbe sostanzialmente abrogato e qualsiasi ipotesi di errore di diritto sarebbe attratto nell’orbita dell’art.5 cp., per effetto della compenetrazione nel precetto.
Un’altra corrente dottrinale si aggancia alla tesi della continuità del tipo di illecito, secondo cui è necessario appurare se la modifica mediata è in grado di incidere sulla portata lesiva del fatto ovvero se questa rimane inalterata, ma anche in tal caso valgono le stesse obiezioni sollevate avverso la teoria della continuità.
Secondo la tesi più accreditata, ossia quella del confronto logico – strutturale, argomentando dall’art.47 comma 3 cp occorre distinguere le norme extra-penali integratrici da quelle che non hanno tale funzione, poichè solo le prime contribuiscono a definire il nucleo essenziale della fattispecie e a variarlo in caso di modifica o abrogazione delle medesime.
Sono state considerate integratrici, in primo luogo, le disposizioni riempitive di norme penali in bianco, come ad es. l’art.650 cp o l’art.5 L.818/84, il quale sanzionava la violazione degli obblighi amministrativi di cui all’art.1.
Un altro caso è quello delle norme definitorie, le quali, per l’appunto, definiscono il significato di uno o più elementi del fatto tipico, concorrendo a delinearla, mentre sono state considerate non integrative le disposizioni richiamate da elementi normativi, le quali hanno il solo scopo di qualificare detti elementi.
Un aspetto degno di nota sono le modifiche che interessano i soggetti attivi dei reati propri, come quelli in cui occorre la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio.
In particolare, secondo l’art.358 cp si definisce pubblico servizio un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale.
Una delle pronunce di maggior rilievo si è occupata del delitto di peculato commesso dagli operatori bancari in qualità di incaricati di un pubblico servizio e degli eventuali effetti abolitivi che sarebbero potuti scaturire dalla perdita di tale qualifica, successivamente all’entrata in vigore del DPR 350/1985, che ha attribuito carattere d’impresa all’attività di raccolta del risparmio e di esercizio del credito.
La sentenza delle Sezioni Unite Tuzet ha sostenuto l’intervenuta abolitio criminis dei citati delitti di peculato, anzitutto in considerazione della natura integratrice delle disposizioni inerenti la qualifica soggettiva, in secondo luogo la Corte prestato adesione alla teoria del fatto concreto.
È all’accadimento storico e non all’ipotesi astratta che occorre fare riferimento per decidere se applicare il comma 2 o il comma 4 dell’art.2 cp, per cui se un fatto, illecito nel momento in cui è stato perpetrato, non è più punibile in base ad una legge successiva in quanto non più riconducibile al tipo si configura una vicenda abolitiva.
In particolare, la Corte ha rilevato che la perdita della qualifica di incaricati di un pubblico servizio da parte dei dipendenti bancari ha reso concretamente inapplicabile l’art.314 cp., con le conseguenze di cui all’art.2 comma 2 cp.
Di segno opposto, invece, tra diverse altre, le recenti sentenze della Cassazione nn.36317/2020 – 9213/2022, sempre in materia di peculato, delle quali si riportano alcuni passaggi essenziali.
Come sappiamo, gli artt.14 comma 16 lett.e del DL 78/2010 – 4 comma 1 del dlg. 23/2011 hanno istituito, rispettivamente, il contributo e l’imposta di soggiorno, che devono essere corrisposti dagli ospiti di strutture alberghiere ai comuni.
Secondo la Suprema Corte, ai sensi della disciplina originariamente vigente, soggetti attivi e passivi dei tributi erano gli enti territoriali, da un lato, e gli occupanti delle strutture recettive, dall’altro, mentre gli albergatori, incaricati della riscossione e del versamento, rivestivano la qualifica di agenti contabili.
L’ente creditore, dunque, diveniva proprietario delle somme a partire dal momento dell’incasso, quindi la ritenzione delle stesse da parte dei gestori degli alberghi integrava una condotta di appropriazione di cose mobili altrui, temporaneamente detenute per ragioni di servizio o d’ufficio, sanzionabile ex art.314 cp..
È stata ritenuta sussumibile nell’art.314 cp, altresì, ogni imputazione delle somme alla copertura di voci di altra natura, esulanti dal fine pubblico per il quale sono state versate e ricevute.
L’art.180 comma 3 del DL 34/2020, convertito in legge 77/2020, in vigore dal 19 maggio 2020, ha inserito nell’art.4 del dlg.23/11 il comma 1 ter, secondo cui il gestore della struttura e’ responsabile del pagamento dei suddetti tributi, con diritto di rivalsa sui soggetti passivi, della presentazione della dichiarazione e degli ulteriori adempimenti previsti dalla legge e dal regolamento comunale.
Gli obblighi di cui all’art.4 comma 1 ter sono riconducibili a quelli del responsabile d’imposta di cui all’art.64 DPR 602/73, il quale è obbligato in solido con altri per atti o fatti esclusivamente a questi riferibili e con diritto di rivalsa.
Secondo la riforma, dunque, l’albergatore non è più incaricato del pubblico servizio di riscossione dei tributi in questione, bensì è contitolare del rapporto impositivo e risponde del versamento solidalmente con gli obbligati principali.
In caso di omessa o infedele dichiarazione è comminata una sanzione amministrativa da un minimo del 100% ad un massimo del 200% dei tributi non versati, mentre in caso di mancato, ritardato o parziale versamento si applica la sanzione amministrativa di cui all’art.13 dlg.471/1997, con conseguente esclusione qualsiasi forma di responsabilità penale per tutti i fatti successivi al 19 maggio 2020.
In assenza di norme transitorie si è discusso se le condotte anteriori al 19 maggio 2020 siano ancora punibili, in quanto secondo una prima tesi esse non costituiscono più reato e la volontà abolitiva sarebbe palesata proprio dalla comminatoria di una sanzione non penale, peraltro ritenuta inapplicabile retroattivamente in forza dell’art.1 L.689/81.
Per un contrapposto indirizzo, invece, l’art. 180 comma 3 cit. non ha modificato la nozione ex art.358 cp, limitandosi ad eliminare le condizioni che consentivano di qualificare il singolo albergatore come incaricato di pubblico servizio, quindi non essendo stati variati i contorni della fattispecie astratta è stata esclusa la riconducibilità all’art.2 comma 2 cp delle condotte pregresse.
Un’importante novità è stata l’entrata in vigore dell’art.5 quinquies del DL 146/2021, convertito in L. n.215/2021, ai sensi del quale l’art. 4 comma 1 ter dlg.23/2011, come sostituito dall’art.180, si intende applicabile anche ai fatti posti in essere prima del 19 maggio 2020, quindi parrebbe trattarsi di un intervento d’interpretazione autentica.
Come sappiamo, tali norme hanno l’esclusiva finalità di determinare, in maniera vincolante, il significato da attribuire a previsioni oggettivamente oscure, contraddittorie o aperte ad una pluralità di interpretazioni, quindi la norma esegetica e quella interpretata coesistono e determinano il precetto, pur potendo essere abrogate o modificate separatamente (vedi Cass. 9213/2022).
La sentenza della Cassazione 9213/2022, invece, attribuisce all’art.5 quinquies carattere innovativo, difatti esso estende retroattivamente la responsabilità dell’albergatore e le relative sanzioni ex art. 4 comma 1 ter., in deroga all’art.1 L.689/81, al fine di eliminare un’illogica disparità di trattamento tra fatti commessi prima e dopo il 19 maggio 2020.
L’estensione della qualifica di responsabile d’imposta alle condotte antecedenti, quindi, ha cagionato il venir meno di un presupposto applicativo essenziale del delitto ex art.314 cp., ossia la qualifica di incaricato di un pubblico servizio, per cui la condotta non rientra più nella fattispecie e si determina un effetto abolitivo.
2.5. LE MODIFICHE MEDIATE NEL DELITTO DI ABUSO D’UFFICIO
Occorre soffermarsi, adesso, sul delitto di abuso d’ufficio, punito dall’art. 323 cp, il quale nel testo riformulato dalla L.234 /1997 disponeva:
Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità».
Si riporta, di seguito, l’art.323 cp come modificato dal D.L. n. 76 del 2020:
Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni*.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità.
I succitati interventi di riforma, a partire dal 1997 in poi, evidenziano l’esigenza del legislatore di definire il fatto tipico in maniera sempre più dettagliata, al fine di attuare il criterio della determinatezza ma anche il principio di frammentarietà della tutela penale, tenuto conto anche della clausola di riserva qualora siano ravvisabili più gravi ipotesi criminose.
L’espunzione delle violazioni di regolamento, con conseguente parziale abolitio criminis (Cass. Pen. 32174/2020), non esclude che le fonti secondarie possano rilevare come norme interposte, tuttavia nel rispetto dei canoni di tipicità e tassatività, come già precisato a proposito dell’eterointegrazione, dette devono limitarsi a mere specificazioni tecniche di un precetto già definito (Cass. Pen. 33240/2021).
Per quanto concerne i doveri d’astensione, in tal caso sarebbe stato superfluo pretendere una previsione di legge essendo gli stessi puntualmente definiti dalla norma incriminatrice, mentre un eventuale rinvio ad una fonte subordinata sarebbe ammissibile solo per gli obblighi di astensione nei rimanenti casi previsti (Cass. Pen.32174/2020).
Occorre analizzare, adesso, la questione oggetto della pronuncia della Cassazione n.16659/2024, ossia quella dell’illiceità degli affidamenti diretti di contratti pubblici aventi importi inferiori alle soglie comunitarie ex art.35 dlg. 50/2016 ma non rispettosi dei limiti di cui all’art.36 dlg. 50, nonchè il problema della rilevanza ex art.2 comma 2 cp di successive variazioni dei predetti limiti.
L’art.36 comma 2, in particolare, autorizzava gli affidamenti diretti per importo inferiore a 40.000 euro anche senza previa consultazione di due o più operatori economici, quindi il superamento di tale soglia avrebbe costituito una violazione di legge rilevante ex art.323 cp.
L’art. 1 comma 2 del DL 76/2020 (conv. in L.120/2020), tuttavia, ha incrementato i predetti limiti ad €.150.000,00 per i lavori e ad €.139.000,00 per i servizi e per le forniture, a condizione che le procedure fossero avviate entro il 30 giugno 2023 e ferma restando la facoltà di utilizzare procedure aperte o ristrette, allo scopo di testare il mercato e/o attivare la concorrenza.
L’art.50 del dlg. 36/2023 ha recepito in via definitiva l’aumento di €.150.000,00 per i lavori e quello €.140.000,00 per i servizi e per le forniture.
Si tratta di capire, a questo punto, se dette modifiche extrapenali sono idonee a determinare un effetto abolitivo con riferimento a precedenti affidamenti disposti in misura superiore ad €.40.000,00 ma inferiori ai limiti imposti da DL 76/2020 e dal dlg.36/2023.
La Suprema Corte ha premesso che nessuna abolitio può essere avvenuta in conseguenza dell’entrata in vigore dell’art.1 comma 2 del DL 76/2020, trattandosi di una norma temporanea ed eccezionale sottratta al regime successorio in forza dell’art.2 comma 5 cp.
Per quanto concerne, invece, l’incidenza dell’art.50 del dlg.36/2023 la risposta è stata affermativa, essendo l’art. 323 cod. pen. è una norma prevalentemente in bianco, quindi il precetto è definito soltanto mediante il riferimento alla violazione di leggi concernenti il comparto della PA, aventi funzione integratrice.
La Corte aderisce alla tesi del confronto astratto e ripudia la teoria della doppia punibilità in concreto, sicché non basta accertare che oggi il fatto non costituirebbe più reato, ma occorre appurare se la fattispecie risultante dal collegamento tra la norma incriminatrice quella extra-penale sia cambiata e in parte non sia più prevista come reato.
Qualche perplessità potrebbe derivare dal fatto che la nozione di affidamento diretto non è stata modificata, bensì introducendo soglie più elevate determinate condotte sono state rese concretamente non sussumibili alla fattispecie, essendo venuti meno alcuni presupposti applicativi.
Le conclusioni della Corte, invece, potrebbero essere più agevolmente condivise se i limiti ex art.36 cit. fossero considerati non condizioni obiettive di punibilità ex art.44 cp bensì elementi costitutivi del fatto tipico, la cui variazione altera i contorni della fattispecie astratta.
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SPUNTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI:
GAROFOLI R., Manuale di diritto penale, Parte Generale, edizione 2021-2022, Neldiritto Editore;
GAMBARDELLA M., Nessuna abolitio criminis nella vicenda dei reati alimentari, in Sistema Penale, fascicolo n.4/2021 (ricerca libera sul web).
Sentenza Corte Costituzionale n.282/1990 ;
Sentenza Corte di Cassazione Penale 36317/2020, in Sistema Penale ;
Sentenza Corte di Cassazione Penale – 9213/2022, in Sistema Penale.
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