Le clausole dell’assicurazione: così tante…così illecite
A cura del dott. Mario Sessa
Aprendo i commentari di giurisprudenza può rinvenirsi un’ampia gamma di clausole che vengono inserite nel contratto di assicurazione. Certo non può negarsi che l’autonomia contrattuale sia uno dei principi basilari del nostro ordinamento civile, in quanto con esso le parti possono adattare il contenuto dei contratti agli interessi che in concreto si vogliono perseguire. Ogni eccesso, però, non può essere salutato con favore se si rammenta che il diritto dei contratti è governato da talune regole tipiche che non possono essere derogate. Si pensi, a titolo di mero esempio, che un commentario di giurisprudenza ha solo una finalità di mera elencazione. Se risulta che già un commento si presenta eccessivamente prolisso, come può sperarsi di raggiungere il tanto agognato fine di semplificazione negoziale? Il contratto di assicurazione si presta, dunque, ad essere trasfigurato nella sua morfologia legale, in modo tale da farne risultare un tipo del tutto avulso dal suo disegno originario. Lo stesso commentario sostiene che vi sono: clausole di indivisibilità del premio, di delimitazione del rischio, di inversione dell’evento, di regolazione del premio. A queste si aggiungono i patti di minimo scoperto, di franchigia, di valore a nuovo o a primo rischio. Non contenta di ciò che si è già escogitato, la giurisprudenza sostiene la validità delle clausole di claims made pure ed impure, di delimitazione della responsabilità e di rischio putativo; per non parlare delle pattuizioni di appendice, delle polizze link’d, di “maldestro” e di guida. L’interprete a questo punto sarà disorientato da cotanta creatività! Al fine di raggiungere una migliore chiarezza concettuale è opportuno chiarire che il contratto di assicurazione rappresenta un contratto tipico previsto dalla legge. Ad esso viene assegnata una funzione legale di copertura dei sinistri che possono essere trasferiti dall’assicurato all’assicuratore in via subordinata al pagamento di un premio che il primo deve corrispondere al secondo. Il rischio, dal canto suo, deve avere una funzione di indennità. Sembrano ormai lontani i tempi in cui la dottrina sosteneva la stretta tipicità formale e sostanziale del contratto in questione. Questa affermazione si basava sulla funzione sociale dell’assicurazione che era riconducibile immediatamente all’assunzione di un rischio altrui comportante una funzione previdenziale e sociale. La legge tutela e valorizza la finalità di sostentamento e di promozione sociale della collettività, promuovendo ogni istituto indispensabile ad assicurare un’equa ripartizione fra i consociati del rischio che si verifichino taluni eventi spesso disastrosi per l’equilibrio economico e sociale di un Paese. Così sostenendo, i contraenti di una polizza vita non potevano certo modificare gli elementi strutturali del contratto in esame, in quanto ogni pattuizione derogativa del tipo si poneva in insanabile contrasto con le norme imperative, cagionando la nullità delle clausole accessorie. La giurisprudenza sosteneva che la nullità della singola pattuizione non poteva riverberarsi sull’invalidità dell’intero contratto, in quanto la legge prevedeva la sostituzione automatica della clausola nulla con la norma imperativa violata, in modo da mantenere ferma la validità del contratto. Questa argomentazione si basava sull’asserto che il privato poteva esser leso dalla caducazione del contratto più di quanto non poteva scaturirne dall’illiceità del singolo accessorio. Oggi si afferma che anche l’assicurazione si adatta al principio di autonomia negoziale. Questo postulato si riconduce all’art.1322 cc. La disposizione de quo sostiene che le parti possono creare nuovi tipi contrattuali non previsti dal diritto positivo. Allo stesso modo, essi possono modificare taluni elementi dei contratti tipici o inserire condizioni e modi che astraggono la causa dal tipo se ciò serve per realizzare taluni interessi ritenuti meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico. Inoltre non può discriminarsi la meritevolezza degli interessi a seconda che essi perseguono un interesse personale, meramente patrimoniale o morale dei contraenti. La giurisprudenza ritiene che il controllo di meritevolezza, da cui discende l’atipicità dei contratti, è altra cosa rispetto alla liceità del tipo negoziale. La prima si riferisce infatti al contenuto concreto in cui si sintetizzano gli interessi essenziali di ambo i due contraenti. La liceità, invece, si riferisce alla validità estrinseca del contratto di riferimento, in quanto viene valutata soltanto la conformità del normo-tipo ai principi fondamentali tutelati dalla Costituzione. I contratti tipici sono sottoposti soltanto al giudizio di meritevolezza, in quanto la liceità è già presente ed effettuata a monte dal legislatore allorchè ha deciso di inserire taluni contratti all’interno del diritto positivo. Il contratto atipico, viceversa, deve essere sottoposto ad un duplice controllo, oggettivo e soggettivo, al fine di eliminare ogni dubbio in ordine alla pretesa validità del vinculum iuris. La medesima giurisprudenza spesso manifesta un certo imbarazzo nel sostenere la validità della causa in concreto. Ciò deriva dal fatto che la causa è cosa diversa dal motivo del contratto. Quest’ultimo solitamente è irrilevante all’interno dei contratti di diritto privato. Nondimeno, può assumere rilevanza se esso costituisce lo scopo comune perseguito dalle parti in maniera determinante. A questo punto sembra emergere una nozione di causa che si identifica più con lo scopo fine del singolo contratto stipulato, anziché con la causa astratta dello stesso. Ritornando alle clausole assicurative, non deve dimenticarsi che gli elementi essenziali del contratto di assicurazione sono costituiti dal rischio e dal premio, che costituiscono l’oggetto del negozio de quo e non si identificano con la causa di riferimento. Questi sono posti in rapporto di sinallagmaticità e non possono essere disgiunti in quanto l’inadempimento o l’eccessiva onerosità sopravvenuta dell’uno travolge anche l’altro, comportandone la pratica inutilità. Il primo descrive l’eventualità che un determinato evento si verifichi, penalizzando la persona o il patrimonio dell’assicurato su cui in concreto esso va ad incidere. La previsione di questo evento è fatta in termini puramente matematico-probabilistici, in quanto le compagnie di assicurazione devono preventivare con sufficiente certezza la percentuale di eventualità che si verificano più eventi dello stesso tipo al fine di ordinare in maniera razionale la politica complessiva dei gruppi d’impresa. Per un verso ciò è funzionale a determinare il quantum del premio richiesto al privato per il singolo contratto concluso. Per altro verso questa previsione serve a calcolare, in un’ottica macroeconomica, l’ammontare complessivo di indennizzi e premi che dovranno corrispondersi e percepirsi entro un determinato arco temporale. Le compagnie di assicurazione sono fornite di cospicui patrimoni ed ingenti risorse alimentate dai premi riscossi dagli assicurati, autofinanziando il rischio dei sinistri coperti per mezzo degli aiuti statali e dei rischi d’impresa. Esse sono disposte a rischiare di più, essendo il contraente forte, mentre l’assicurato costituisce il contraente debole dell’asset contrattuale, ed è ad esso che bisogna guardare per valutare la meritevolezza delle clausole predisposte. In primo luogo, queste sono inserite in moduli e formulari che spesso sono firmati dall’assicurato “in piena ignoranza”. In seconda istanza, l’assicurato non è a conoscenza dei mutamenti probabilistici del sinistro tramite i quali la compagnia potrebbe arricchirsi a danno del medesimo soggetto. Più nel dettaglio, le clausole di delimitazione del rischio riducono il quantum o il tipo di eventi che l’assicuratore è disposto ad accollarsi, Quest’ultimo, infatti, può lasciare all’assicurato un certo margine di “danno”, così come può delimitare l’oggetto dell’assicurazione a tutto detrimento del privato. In nuce, si ricordi che l’assicurazione presume un massimale di copertura, che indica il tetto estremo di indennizzo che l’assicuratore è disposto a liquidare in dipendenza dell’avvento del sinistro. In più, questo massimale può avere un margine di clausola “salvo o franco determinato”, che ne modifica il margine di fluttuazione. La giurisprudenza ha sostenuto più volte che questi patti non delimitano la responsabilità della compagnia, in quanto esse incidono soltanto sull’oggetto del contratto. Non è chiaro, tuttavia, come può distinguersi quest’ultimo dalle clausole con cui l’assicuratore modifica in via surrettizia il quantum di responsabilità, specie se si considera che la firma avviene ex ante. Il normo-tipo esclude solo che l’assicurazione possa coprire il rischio putativo, il rischio preesistente e quello cagionato colposamente dal “sinistrato”.Ed ancora, si pensi alle clausole di cd.claims made (loss occurrance, act commicted, insurence and freight), con cui si inseriscono nel contratto rischi accettati ed occorsi in un periodo antecedente a quello di copertura assicurativa. Molti di questi rischi fanno retroagire il periodo di polizza in presenza di eventi già accaduti che vengono semplicemente denunziati ex post e posti a fondamento del contratto stipulato. Come può sostenersi la meritevolezza di un contratto in cui la traslazione del rischio avvenga dopo il suo verificarsi?Per quanto concerne le clausole di delega (anche dette patti di delega o di inferenza), con esse una compagnia assume l’incarico di gestire o liquidare gli indennizzi di tutte le compagnia che conferiscono ad essa l’incarico di gestire ed assumere la direzione unitaria della politica di assicurazione. Non è chiaro se la prescrizione o la mora accipiendi notificata ad una di esse può estendersi o meno anche alle altre, nonché se la revoca o il fallimento della mandataria incide sulla validità della singola clausola piuttosto che sul vigore dell’intero contratto. Certo, imputare all’assicuratore collettivo la sorte di un contratto dotato di un rilievo sociale sembra davvero troppo per uno Stato di diritto. A ciò si aggiungano le clausole di regolazione del premio. La discussione dei giudici prende le mosse dagli obblighi di buona fede, tanto in voga nei tribunali, e ricondotti all’art.2 Costituzione. La struttura di queste pattuizioni è costituita da una parte fissa, di consolidazione, che è corrisposta dal privato al momento della stipula della polizza di assicurazione tenendo conto del margine certo di sinistro presente all’atto della stipulazione. Ad essa si aggiunge una parte variabile, di caricamento “a voltura”, che gli è richiesta in presenza di un aggravamento del rischio. L’assicurato è tenuto a denunciare periodicamente ogni fattore che può incidere sul rischio di verificazione dell’evento. Come può giustificarsi la sospensione della copertura assicurativa dinanzi al rifiuto opposto dal privato? Ebbene, la giurisprudenza ha spesso riflettuto sui riflessi pratici che queste clausole apportano al contratto di assicurazione. Si è sostenuto infatti che il premio non può salire oltre un determinato ammontare, mentre il rischio non può essere escluso al di sotto di un certo importo. Com’è noto, la causa del contratto di assicurazione è data dall’alea, necessariamente bilaterale, che non si identifica con il rischio economico assicurato. I contratti aleatori costituiscono un genus di negozi bilaterali che si contrappongono ai contratti commutativi. Al loro interno si apprezza una corrispettività di prestazione certa, di solito attuale, rispetto ad una prestazione incerta, quantomeno nel quando o nel quantum di sua verificazione. Questo elemento tipico del contratto di assicurazione non può essere di certo alterato sulla base dell’autonomia negoziale. In sostanza, non può eliminarsi il rischio, così come non può massimizzarsi il premio. In entrambi i casi la sanzione è la nullità per mancanza di un suo elemento essenziale cui potrebbe aggiungersi una responsabilità pre-extracontrattuale della compagnia di assicurazione per violazione degli obblighi di salvataggio. La medesima giurisprudenza creativa, che dimostra tanta bontà nelle definizioni date alle clausole, non si rivela altrettanto geniale nel descrivere le conseguenze che derivano dalla loro mancanza. Un’assicurazione priva della funzione indennitaria di certo non può essere idonea ad assicurare la copertura dei rischi. Si è sostenuto che questo contratto sarebbe altro dal tipo descritto sin qui, avvicinando le clausole atipiche ad un contratto di capitalizzazione, ad un gioco, ovvero ad un prestito “a tutto rischio”. Ciò che la giurisprudenza trascura di argomentare risiede nel fatto che questi contratti non sono nemmeno tutti descritti dal legislatore nazionale. La capitalizzazione è rinvenibile nel caso delle clausole link’d, ma questo contratto è tipizzato soltanto nel codice delle assicurazioni private, anziché nel codice civile. Il gioco dal canto suo può essere un contratto tipizzato, ovvero un’obbligazione naturale. Quest’ultima è sicuramente meritevole di tutela entro determinati limiti, ma non può porsi in contrasto con la vigenza delle norme imperative. Il prestito a tutto rischio, infine, non è altro che una vendita aleatoria comune, in cui la sinallagmaticità fra la cosa ed il prezzo viene spezzata ed assunta scientemente da parte dei privati contraenti. Una parte della dottrina sosteneva che la negoziazione del rischio non è ammissibile nel nostro ordinamento, in quanto non può approfittarsi del gioco fra le parti per imporre condizioni che il tempo rileverà gravemente inique per i contraenti. Un conto è negoziare l’alea, un conto è negare la sua rilevanza. I contratti aleatori possono essere atipici solo entro certi limiti, e tali sono quelli segnati dal legislatore. Si pensi all’insegnamento di un autorevole giurista,moderno ed essenziale nel suo approccio al diritto dei contratti. Costui afferma che i negozi aleatori atipici celano un contratto gratuito o un’obbligazione naturale. L’atipicità può essere creata postergando l’indennizzo al premio. Purchè ciò non si traduca in un lucro dell’assicuratore. Allo stesso modo può rinunciarsi o limitarsi la proponibilità di talune eccezioni di debito o di responsabilità, purchè ciò non sottenda un intento speculativo del proponente la polizza di rischio. La materia a questo punto diventa molto incerta, per cui è compito dello studioso trovare i capisaldi del contratto di assicurazione. Questi ultimi non potranno derogarsi, il resto è lasciato ai privati.
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