Nota a Cass. Pen. S.U. – 20 novembre 2012 n. 45246

A cura dell’avv. Domenico Di Leo

            Con la pronuncia in esame, le S.U. della S.C. sono intervenute per dirimere un contrasto interpretativo attinente il tema delle c.d. contestazioni a catena e il decorso del termine per l’applicazione della misura cautelare in concreto irrogata al soggetto. L’oggetto del contrasto giurisprudenziale è rappresentato dal fatto che, nel caso di contestazioni a catena, la retrodatazione del termine di custodia cautelare possa essere dedotta nel procedimento di riesame o se, invece, debba essere formulata un’istanza di revoca della misura ex art. 299 c.p.p.

Prima di tratteggiare la soluzione fornita dalle Sezioni Unite, pare opportuno premettere cenni sull’istituto della contestazione a catena, onde cogliere l’apporto ermeneutico fornito dal supremo consesso.

Ogni misura cautelare, di tipo custodiale e di tipo non custodiale, è sottoposta ad un termine di durata massima che, per il giudice, rappresenta un limite non superabile. Se entro il termine – che varia a seconda della fase processuale – non è adottato un determinato provvedimento – il rinvio a giudizio, la sentenza di primo e così via – la misura originariamente irrogata perde efficacia. Fra tutte le misure cautelare, quella della custodia cautelare, sia carceraria che domiciliare, è disciplinata con maggiore attenzione dal codice di procedura penale in quanto è la misura più afflittiva e maggiormente incidente sulla sfera dell’individuo in quanto ne comprime quel valore costituzionalmente difeso e garantito che è la libertà personale. Da ciò emerge la necessità di bilanciare le esigenze di libertà dell’indagato e la presunzione di innocenza che lo assiste ai sensi dell’art. 27 Cost. con le esigenze cautelari indicate dall’art. 274 c.p.p.: tale bilanciamento si rende ancor più urgente se si considera, da un lato, la correlazione fra la fase processuale o il grado di giudizio e, dall’altro, il progressivo allungamento dei tempi della carcerazione cautelare. L’obiettivo cui aspira il legislatore è quello di evitare che un imputato subisca una misura custodiale a tempo indeterminato fino a che giunga la sentenza definitiva, ammettendo la compressione della libertà personale in un periodo di tempo ragionevole che tenga in considerazione la gravità del reato e le esigenze cautelari, cui tutte le misure sono finalizzate.

La caducazione della misura cautelare custodiale per decorrenza dei termini massimi di durata (art. 303 c.p.p.) è modellata a seconda del segmento processuale nel quale interviene: in proposito si parla di termini di fase suddivisi in indagini preliminari (compresa l’udienza preliminare), giudizio di primo grado, giudizio di appello, passaggio in giudicato della sentenza[1]. A ciascuno dei predetti segmenti processuali corrisponde un periodo di durata massima della carcerazione preventiva entro il cui termine deve intervenire un determinato provvedimento, come il rinvio a giudizio o la sentenza di primo grado. Nel caso in cui non intervenga alcun provvedimento entro il termine di fase, così come individuato, la misura inflitta perde efficacia e l’imputato deve essere liberato.

A maggior garanzia dell’imputato, affinchè non venga inutilmente e illegalmente compressa la sua libertà, è previsto un limite massimo c.d. omnicomprensivo, previsto per tutte le fasi e i gradi, per la durata complessiva della custodia cautelare, la cui durata è compresa tra due anni e sei anni[2] [3].

Per la modalità di calcolo dei termini massimi di custodia cautelare, la legge fa riferimento alla pena edittale o a quella prevista in astratto per il reato, secondo le disposizioni dell’art. 278 c.p.p. Se, tuttavia, ricorrono più circostanze aggravanti ad effetto speciale, si procede all’aumento di un terzo della pena edittale e non ad una pluralità di aumenti[4]. Quando il computo dei termini di custodia cautelare fa riferimento alla pena irrogata con la condanna, se questa è stata pronunciata per un reato continuato, la pena inflitta va intesa come pena dell’intero reato continuato[5].

La misura cautelare decorre a partire dal giorno dell’esecuzione della misura o dal giorno della notifica della misura (nel caso di imputato detenuto). Non è pacifica la modalità di calcolo del termine: in base ad un primo orientamento maggioritario, in ossequio al disposto dell’art. 172 co 2 c.p.p., non andrebbe conteggiato il giorno della decorrenza della misura[6]; altro orientamento minoritario afferma che anche il giorno di inizio della misura cautelare va computato[7].

Nel momento in cui l’imputato è attino dalla misura cautelare, i termini iniziano a decorrere dall’esecuzione della stessa e cioè dal momento della cattura, dell’arresto o del fermo (art. 297 c.p.p.). Può tuttavia accadere che l’imputato sia destinatario, in momenti successivi, di più misure cautelari, a causa di altri procedimenti pendenti non collegati fra di essi: in tal caso, l’imputato sarà assoggettato a molteplici misure cautelari custodiali le quali, in parte, potrebbero sovrapporsi.

Può ancora accadere che l’imputato sia destinatario di plurime ordinanze di custodia cautelare, in tempi successivi, in relazione allo stesso procedimento o per  procedimenti diversi, aventi ad oggetto il medesimo fatto o fatti fra di essi connessi. È il caso della c.d. contestazione a catena. In questi casi, il rischio che il legislatore ha voluto evitare è quello che gli inquirenti – e per essi il P.M. – possa contestare una molteplicità addebiti nei confronti dello stesso soggetto in modo saltuario, per prolungare la custodia preventiva dello stesso in vista della scarcerazione, proprio alla scadenza della misura già in atto. In questo modo, si ottiene un risultato pregiudizievole delle ragioni dell’imputato, in quanto in prossimità della scadenza di una misura cautelare, gli si notifica una nuova ordinanza per un diverso reato che però poteva essere contestato anteriormente. L’art. 297 c.p.p. analizza puntualmente la disciplina della contestazione a catena, prevedendo che l’imputato destinatario di molteplici ordinanze che dispongono la carcerazione preventiva non dovrà scontare tutte le ordinanze notificategli ma una sola carcerazione i cui termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave. La retrodatazione della misura cautelare disposta con l’ultima ordinanza in ordine di tempo alla data della prima ordinanza permette all’imputato di ottenere il risultato garantista che il lasso di tempo delle misure cautelari non sia indeterminato o artatamente prolungato col sistema delle contestazioni frazionate. La disciplina è contenuta nel co. 3 dell’art. 297 c.p.p.

Quando la misura cautelare è comminata per un medesimo fatto, anche se diversamente circostanziato o qualificato, o per fatti diversi commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza, per i quali sussiste connessione teleologica, concorso formale o continuazione, ai sensi dell’art. 12co. 1 lett. b) e c) c.p.p., i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave. Inoltre, l’art. 297 c.p.p. precisa, nell’ultimo periodo del comma 3, che non ha luogo la retrodatazione in relazione alle ordinanze emesse per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto di reato in ordine al quale sussiste la connessione. Perché abbia luogo la retrodatazione, occorre la sussistenza concorrente di quattro presupposti: il nesso soggettivo, il nesso oggettivo, la medesima tipologia di misura cautelare e l’anteriorità cronologica tra i fatti di reato. Brevemente, il primo requisito sussiste quando le ordinanze colpiscono lo stesso individuo; il secondo sussiste quando si tratti di un medesimo fatto storico o sussista la connessione teleologica, il concorso formale di reati o la continuazione fra di essi; il terzo requisito è soddisfatto anche quando le misure custodiali abbiano un’intensità diversa e quindi sussiste anche nel caso di due misure custodiali di cui una carceraria e una domiciliare; infine, l’ultimo requisito richiede che i fatti successivamente contestati fossero desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto col quale sussiste connessione.

Con la sentenza n. 233 del 2011[8], la Corte costituzionale è intervenuta per dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 297 c.p.p. nella parte in cui – con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi – non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura. La Corte cost. ritiene che precludere l’applicazione del meccanismo di retrodatazione dei termini, connessa alla formazione del giudicato sui fatti contestati nella prima ordinanza cautelare in data anteriore a quella di adozione della seconda ordinanza, determina una ingiustificata disparità di trattamento fra imputati che si trovano nelle stesse condizioni. Infatti, i coimputati dei medesimi reati vedrebbero negato o riconosciuto il diritto alla scarcerazione a seconda che nei loro confronti si sia formato o meno il giudicato sui fatti oggetto della prima ordinanza cautelare col risultato di penalizzare coloro che abbiano aderito ai riti alternativi e omesso di impugnare la sentenza di condanna.

L’interpretazione del comma 3 dell’art. 297 c.p.p., in relazione all’ipotesi più complessa relativa all’adozione di una pluralità di misure per fatti diversi, è stata oggetto di molteplici interventi, sia delle S.U. della Cassazione[9] che della Corte costituzionale[10]. Alla luce della complessa opera ermeneutica risultante dalla copiosa giurisprudenza, di legittimità e costituzionale che si è sviluppata sul controverso tema, possono individuarsi tre ipotesi:

  1. la prima ipotesi ricorre quando nei confronti di un imputato, nel medesimo procedimento, sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura cautelare per fatti diversi, commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza, legati da concorso formale, da continuazione o da connessione teleologica (c.d. connessione qualificata): in questa situazione, la retrodatazione della decorrenza dei termini delle misure disposte con le ordinanze successive opera indipendentemente dalla possibilità, al momento dell’emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l’esistenza dei fatti oggetto delle ordinanze successive e, a maggior ragione, indipendentemente dalla possibilità di desumere dagli atti l’esistenza degli elementi idonei a giustificare le relative misure. Affermando tale principio, le S.U. hanno precisato che non si tratta di una presunzione di conoscenza dell’esistenza di tali condizioni ma si tratta di una regola diretta a far decorrere gli effetti della custodia cautelare in carcere dal momento della cattura anche per fatti connessi ex art. 297 co. 3 c.p.p., a prescindere che essi fossero conosciuti o meno dal P.M. o che esistessero o meno anche rispetto a questi le condizioni per l’emissione della misura cautelare. La ratio della norma, come affermato dal Giudice delle leggi[11], è quella di mantenere la durata della misura cautelare nei limiti stabiliti dalla legge, anche quando emergono nel corso delle indagini fatti diversi legati ai sensi degli artt. 12 e 297 c.p.p.;
  2. la seconda ipotesi ricorre quando nei confronti di un imputato, in procedimenti diversi, sono emesse più ordinanze cautelari per fatti diversi, in relazione ai quali esiste una connessione qualificata: in casi simili, la retrodatazione opera, anche ei riguardi dei fatti oggetto di un procedimento diverso, se questi erano desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio per il fatto o per i fatti oggetto della prima ordinanza. La Cassazione a S.U. ha affermato, nell’occasione, che il caso previsto dall’art. 297 c.p.p. è l’unico caso in cui la retrodatazione opera per fatti oggetto di procedimenti diversi;
  3. ha luogo la terza ipotesi nel caso in cui più ordinanze vengano emesse nei confronti di un imputato, nello stesso procedimento, le quali dispongono la stessa misura cautelare per fatti diversi, non avvinti dalla connessione qualificata prevista dall’art. 297 co. 3 c.p.p.; in questo caso, i termini delle misure cautelari disposte con ordinanze successive decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima se al momento dell’emissione di questa erano desumibili dagli atti gli elementi che hanno giustificato le ordinanze successive. Le Sezioni Unite hanno precisato che la retrodatazione non avviene nel caso in cui le misure cautelari vengono disposte in procedimenti diversi.

Con la retrodatazione, in caso di contestazioni a catena, la decorrenza iniziale del termine si determina dalla data di effettiva esecuzione o notifica dell’ordinanza più risalente e ciò stabilisce anche l’unicità dei termini di durata della misura: infatti, molteplici ordinanze vengono considerate un’unica ordinanza con valenza di un unico termine di durata della misura cautelare, sia per i termini di fase che per quello omnicomprensivo. Questa regola consente di evitare la frammentazione dei termini di decorrenza delle misure, partendo da ciascuna delle misure cautelari irrogate; inoltre, l’effetto di parcellizzazione è evitato anche in riferimento ai vari reati contestati, poiché il computo dei termini di durata si rapporta al reato più grave.

Nella pronuncia in esame, le S.U. della Corte di Cassazione hanno dato una possibile spiegazione al contrasto giurisprudenziale già sorto da tempo, e cioè se nel caso della c.d. contestazione a catena la retrodatazione di decorrenza del termine di custodia cautelare possa essere dedotta nel procedimento di riesame, o se debba piuttosto essere formulata una istanza di revoca della misura ai sensi dell’art. 299 c.p.p. L’occasione per riflettere sul punto è stata fornita da due ordinanze ex art. 618 c.p.p. (rispettivamente deliberate il 2 e il 4 maggio 2012) della IV sezione penale la quale, preso atto che, nei casi sottoposti al suo esame, al momento dell’emissione della seconda misura cautelare era decorso per intero il termine di fase a far data dalla emissione della prima ordinanza, si è posta d’ufficio il problema preliminare della deducibilità della questione in sede di riesame: problema che, in quanto attinente alla competenza funzionale del giudice, assimilabile alla competenza per materia, è tale da determinare, in caso di violazione della regola, una nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento[12]. La vicenda umana posta alla base della sentenza delle S.U. riguarda la cessione continuata di sostanze stupefacenti, con una conseguente istanza di riesame nella quale gli interessati avevano dedotto la perdita di efficacia della custodia cautelare per effetto della retrodatazione del termine di decorrenza; il tribunale di riesame ha accolto l’istanza mentre il P.M. ha proposto ricorso per cassazione.

Il contrasto giurisprudenziale era sorto nella giurisprudenza di legittimità della S.C. sin da tempo e due erano gli orientamenti che si contendevano il campo: un primo orientamento maggioritario, traendo linfa dalla decisione delle Sezioni Unite n. 26 del 5 luglio 1995, riteneva che le cause determinanti la caducazione degli effetti dell’ordinanza impositiva della misura cautelare, tra cui l’ipotesi ex art. 297 co. 3 c.p.p., generano vizi processuali che non incidono sulla legittimità dell’ordinanza ma agiscono sul piano della caducazione della misura. Pertanto, quelle cause devono essere dichiarate nell’ambito di un apposito procedimento promosso con istanza di revoca della misura cautelare ex art. 306 c.p.p., alla luce del fatto che la decisione scaturente è suscettibile di appello e di ricorso per cassazione: tale orientamento escludeva senz’altro la possibilità che di far valere queste cause attraverso lo strumento del riesame. L’orientamento minoritario affermava, di contro, che l’applicazione della regola della retrodatazione dei termini della custodia cautelare, nel caso della c.d. contestazione a catena, poteva essere validamente dedotta in sede di riesame se, al momento dell’emissione della misura cautelare, i termini stessi siano già scaduti per effetto della retrodatazione medesima. Secondo tale decisione[13], occorrerebbe distinguere l’ipotesi nella quale sia stato dedotto che già al momento della emissione dell’ordinanza di custodia cautelare i termini erano scaduti per l’ipotizzata retrodatazione da quella in cui si faccia questione di inefficacia sopravvenuta o sopravveniente del titolo (per il prossimo maturare dei termini): solo nella prima ipotesi la questione può essere posta in sede di riesame, mentre, quando si tratti di inefficacia “non originaria” della misura, essa va proposta in sede di istanza di revoca.

La soluzione proposta dalle S.U. nella sentenza in commento prende le mosse da molto lontano, per giunger gradualmente all’affermazione, sia pur condizionata, di ciò che sembrava essere negato in via definitiva.

Infatti, la S.C., sollecitata sulla sopravvenuta estinzione della misura cautelare conseguente alla nullità dell’interrogatorio previsto dall’art. 294 c.p.p., aveva pronunciato un principio di ordine generale in base al quale «essendo il riesame preordinato a verificare soltanto i presupposti legittimanti l’avvenuta adozione della misura cautelare e non anche quelli incidenti sulla sua persistenza, non è consentito dedurre, nel corso di detto procedimento, la successiva perdita di efficacia di tale misura, derivata dalla mancanza o dalla invalidità di successivi provvedimenti»[14]. Chiamata a decidere se l’inosservanza dei termini previsti dall’art. 309 co. 5 c.p.p. e la conseguente perdita di efficacia dell’ordinanza coercitiva possano essere rilevate nel giudizio per cassazione instaurato avverso la decisione del riesame anche d’ufficio ai sensi dell’art. 609 co. 2 c.p.p. o dedotte come motivi nuovi, la S.C. aveva ritenuto che il soggetto che ha diritto a riacquistare la libertà può chiedere in ogni tempo – salvo il giudicato cautelare – al giudice del procedimento principale la dichiarazione di sopravvenuta estinzione della misura ma può anche agire, nel corso del procedimento di riesame, dinanzi a questo giudice per far valere l’automatica perdita di efficacia dell’ordinanza di custodia cautelare per l’inosservanza dei termini della medesima procedura richiamati dall’art. 309 co. 10 c.p.p.[15]. Vero è che in quelle occasioni le Sezioni unite si occupavano di casi nei quali ricorrevano cause sopravvenute di inefficacia della misura coercitiva e che, invece, nel presente caso si trattava di cause in grado di incidere sin ab origine sul potere cautelare, paralizzandone l’esercizio, per essersi esso già consumato (quando, appunto, per effetto della retrodatazione di decorrenza del termine, quest’ultimo debba considerarsi già spirato prima dell’emissione della ulteriore ordinanza cautelare). Ma la circostanza non viene ignorata e offre anzi al Collegio l’occasione per ribadire tutti i precedenti suoi insegnamenti  precisando, sul tema qui in discussione, che, qualora lo spirare del termine di durata della prima misura cautelare sopravvenga all’adozione di quella ulteriore, la questione non è deducibile dinanzi al tribunale del riesame, ma solo mediante istanza di revoca[16].

Sul tema oggetto della sentenza in commento, le S.U. della Corte di Cassazione hanno dovuto stabilire se l’estinzione dell’ulteriore misura cautelare disposta a termini già scaduti per effetto della loro asserita retrodatazione al momento dell’emissione di una precedente misura cautelare possa essere addotta come motivo di riesame dinanzi al competente tribunale. Facendo il punto della situazione, seguendo una strada tracciata di recente proprio dalla giurisprudenza di legittimità[17], le S.U. hanno ribadito che la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare opera:

1)- in caso di ordinanze assunte nello stesso procedimento,

a)- automaticamente nel caso di emissione di più ordinanze dispositive, nei confronti dell’imputato, di una misura cautelare personale per lo stesso fatto, anche se diversamente qualificato o circostanziato, o per fatti diversi, legati da continuazione, concorso formale o connessione teleologica, commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza;

b)- a condizione che al momento di emissione della prima ordinanza fossero desumibili dagli atti elementi idonei a giustificare le misure applicate con le ordinanze successive, qualora i provvedimenti cautelari riguardino fatti diversi, tra i quali non sussiste la connessione qualificata di cui all’art. 297, comma 3, c.p.p.;

2)- in caso di ordinanze assunte in diversi procedimenti,

a)- se si tratta di fatti diversi in relazione ai quali esiste connessione qualificata, per quelli desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stato emesso il primo provvedimento cautelare;

b)- se si tratta di fatti diversi in relazione ai quali non esiste connessione qualificata, solo se i diversi procedimenti pendono dinanzi alla stessa autorità giudiziaria e la loro separazione può essere frutto di una scelta del pubblico ministero, a condizione che gli elementi giustificativi dell’ordinanza ulteriore fossero già desumibili dagli atti al momento di emissione della prima.

Infine, le Sezioni Unite danno atto che, per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale in parte qua, dell’art. 297, comma 3, c.p.p., di cui alla sentenza 22 luglio 2011 n. 233 della Corte costituzionale, la regola di retrodatazione dei termini relativi a una misura disposta con ordinanza successiva opera anche quando, per i fatti di cui alla prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato prima dell’adozione della ulteriore misura.

Il catalogo delle condizioni di applicabilità dell’art. 297, comma 3, c.p.p. così minuziosamente elaborato consente alle Sezioni unite di definire la questione sottoposta al loro esame.

Premessa la specifica connotazione del procedimento di riesame, incompatibile con l’esercizio di poteri istruttori per la necessaria speditezza del suo svolgimento, e dato atto del rilievo che la deduzione di una ipotetica contestazione a catena può comportare l’introduzione, nel giudizio, di temi complessi e di non agevole accertamento, la Corte ha concluso nel senso che il tribunale del riesame può pronunciarsi sulla materia solo quando elementi incontrovertibili emergenti dall’ordinanza impugnata consentano di ritenere: 1) che tutti gli elementi richiesti per retrodatare i termini di decorrenza di essa risultino dal suo testo; 2) che i termini di durata della misura siano già spirati, per effetto della retrodatazione, al momento in cui essa è stata disposta.

A cura dell’avv. Domenico di Leo – RIPRODUZIONE RISERVATA

Bibliografia

Si vedano i riferimenti nelle note

Riferimenti normativi.

Art. 12 c.p.p.

Art. 172 c.p.p.

Art. 268 c.p.p.

Art. 274 c.p.p.

Art. 297 c.p.p.

Art. 294 c.p.p.

Art. 299 c.p.p.

Art. 303 c.p.p.

Art. 306 c.p.p.

Art. 309 c.p.p.

Art. 609 c.p.p.

Art. 618 c.p.p.

 

 

Segue il testo della sentenza oggetto della presente nota.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Sentenza 19 luglio – 20 novembre 2012, n. 45246

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza in data 6 novembre 2011 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Rimini applicava nei confronti di P.G. la misura della custodia in carcere, successivamente sostituita con quella degli arresti domiciliari, per due reati di cui all’art. 81 cod. pen. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 (capo B – commesso dall’anno (OMISSIS) sino all’anno (OMISSIS) e poi dal mese di (OMISSIS) fino al (OMISSIS); capo C – commesso dal mese di (OMISSIS) sino al mese di (OMISSIS)).

In esito a richiesta di riesame, con la quale il difensore dell’indagato deduceva la perdita di efficacia della misura ex art. 297 cod. proc. pen., nonchè l’insussistenza della gravità indiziaria e la carenza di esigenze cautelari, con ordinanza in data 14 novembre 2011, il Tribunale di Bologna dichiarava la perdita di efficacia per decorrenza del termine massimo di fase della misura cautelare degli arresti domiciliari in corso di esecuzione, ritenendo assorbite le ulteriori questioni proposte dalla difesa.

Il Tribunale osservava che il P. era stato sottoposto a restrizione carceraria per delitti in materia di sostanze stupefacenti commessi il (OMISSIS), con ordinanza emessa quello stesso giorno dal Tribunale di Rimini, e che dei fatti per i quali era sottoposto a misura cautelare in forza dell’ordinanza impugnata il Pubblico Ministero aveva avuto contezza sin dal (OMISSIS) con riguardo al delitto di cui al capo B e sin dal (OMISSIS) con riguardo al delitto di cui al capo C. Il Tribunale richiamava, con riferimento al capo B, la nota 28 febbraio 2010 degli operanti del NORM dei CC della Compagnia di Riccione ove, nella prima pagina, il P.M. aveva scritto sia il provvedimento datato 1 marzo 2010 contenente l’autorizzazione alla nomina di un interprete e all’esperimento delle indagini tecniche indicate dalla polizia giudiziaria, sia la disposizione, con in calce la data del 1 marzo 2010, di iscrizione della notizia di reato a carico di D.A.; con riferimento al capo C, la nota datata 31 maggio 2010 degli stessi CC, ove, nella prima pagina, era impresso un timbro riportante le diciture “pervenuto” e “Procura della Repubblica” nonchè la data “1 giugno 2010”.

Secondo il Tribunale, dai verbali di sommarie informazioni e da quelli di individuazione fotografica trasmessi al P.M. allegati alle anzidette note, emergeva in modo evidente la sussistenza di un grave quadro indiziario nei confronti del P. in relazione ai delitti per i quali egli era stato sottoposto a misura custodiale. Il Tribunale proseguiva affermando che i fatti contestati all’indagato risultavano avvinti da connessione qualificata con quelli per i quali il P. era stato sottoposto a misura custodiale il 24 luglio 2010, poichè le imputazioni riguardavano la continua attività di spaccio di sostanze stupefacenti al minuto che l’indagato aveva gestito ininterrottamente e con continuità nel periodo intercorrente tra il mese di dicembre dell’anno (OMISSIS) ed il successivo (OMISSIS); e, quindi, tutti i reati erano stati posti in essere in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, rappresentato dall’intendimento del P. di reperire le risorse necessarie per soddisfare la propria tossicodipendenza, dedicandosi in modo sistematico alla vendita di sostanze di genere proibito.

In definitiva, per il Tribunale ricorrevano le condizioni per la retrodatazione al 24 luglio 2010 della decorrenza della custodia cautelare, così che il termine massimo della custodia cautelare previsto per la fase delle indagini preliminari era già decorso alla data in cui era stata eseguita l’ordinanza impugnata. Alle stesse conclusioni, sempre secondo il Tribunale, si doveva ugualmente giungere anche nel caso in cui si escludesse che i delitti per i quali si procede e quelli di cui all’ordinanza del 24 luglio 2010 fossero espressione di un medesimo disegno criminoso, poichè i procedimenti nel cui ambito erano state adottate le due ordinanze pendevano entrambi davanti all’autorità giudiziaria di Rimini e la gravità indiziaria relativa ai delitti di cui all’ordinanza impugnata era desumibile dagli atti sin dal marzo 2010 (capo B) e dal giugno 2010 (capo C), sicchè il P.M. avrebbe dovuto disporre la riunione dei procedimenti.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rimini, deducendo violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione (artt. 311 e 606 cod. proc. pen.).

Il ricorrente sostiene che l’ordinanza impugnata si fonda sull’erronea considerazione che i distinti procedimenti, quello aperto a seguito dell’arresto in flagranza di reato del P. per un episodio di spaccio e detenzione di cocaina e il presente procedimento, pendessero nella medesima fase; mentre entrambi i procedimenti, pur pendendo innanzi all’Autorità giudiziaria di Rimini, si trovavano in stato e grado diversi e non ricorrevano i requisiti per procedere ad una eventuale riunione, non solo perchè tecnicamente non possibile, dal momento che per il distinto reato era stato celebrato il processo con rito direttissimo, ma anche perchè le indagini svolte dalla p.g. non erano, all’epoca, ancora concluse, in quanto il P.M., all’epoca dell’arresto del P., disponeva degli elementi esposti nelle note di indagine citate dal Tribunale del riesame, ma non conosceva le risultanze delle complessive ed articolate indagini riferite con la nota finale del 17 dicembre 2010, con particolare riferimento alla compiuta trascrizione ed al vaglio critico delle risultanze delle numerosissime captazioni, come si rilevava dalla stessa ordinanza del G.i.p. del Tribunale di Rimini, che, per ritenere la gravità indiziaria, aveva fatto ampi richiami al contenuto delle captazioni illustrate con la citata nota del 17 dicembre 2010, senza le quali il P.M. non avrebbe potuto formulare richieste cautelari calibrate in relazione all’esatta entità del traffico illecito svolto dal P. e dagli altri indagati.

In definitiva, secondo il P.M. ricorrente, le vicende da cui scaturiva l’apertura di due autonomi procedimenti penali non consentivano di ipotizzare alcun vincolo di connessione, nè di applicare la retrodatazione dei termini di custodia cautelare per le “contestazioni a catena”.

3. La Quarta Sezione penale, con ordinanza del 2 maggio 2012 (depositata il 4 giugno 2012), ha rimesso la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, rilevando, d’ufficio, in quanto afferisce alla competenza funzionale del giudice, l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla preliminare questione relativa alla deducibilità della regola della retrodatazione dei termini di custodia cautelare nei casi disciplinati dall’art. 297 c.p.p., comma 3 innanzi al tribunale del riesame.

L’ordinanza di rimessione osserva che un indirizzo giurisprudenziale ha affermato il principio che “l’applicazione della regola della retrodatazione dei termini della misura cautelare in caso di cosiddette contestazioni a catena può essere validamente dedotta davanti al tribunale in sede di riesame ove si prospetti che, già al momento dell’emissione dell’ordinanza cautelare, erano scaduti interamente, per effetto della retrodatazione, i termini di custodia”.

Secondo un altro orientamento, invece, la retrodatazione dei termini, in caso di contestazioni a catena, in nessun caso può essere dedotta nel giudizio di riesame, dovendo essere proposta dapprima al giudice che ha emesso il provvedimento custodiale e, solo successivamente, con l’appello (art. 310 cod. proc. pen.) innanzi al tribunale del riesame.

Al riguardo l’ordinanza rileva che anche le Sezioni Unite (sentenze n. 26/1995 e n. 7/1996) hanno affermato che “le cause che determinano la perdita di efficacia dell’ordinanza impositiva della misura cautelare si risolvono in vizi processuali che non intaccano l’intrinseca legittimità dell’ordinanza, ma agiscono sul diverso piano dell’efficacia della misura, per cui vanno fatte valere nell’ambito di un procedimento appositamente promosso con l’istanza di revoca ex art. 306 cod. proc. pen.” e non direttamente con la richiesta di riesame o addirittura con il ricorso per cassazione. La stessa ordinanza, peraltro, osserva che le Sezioni Unite, nelle fattispecie esaminate, avevano espressamente affrontato la tematica della non deducibilità nel procedimento di riesame della cause sopravvenute di inefficacia della misura privativa della libertà personale, ma non avevano esaminato la specifica questione della estensibilità del medesimo principio anche alle cause preesistenti in grado di incidere sulla perdita di efficacia della misura (come la retrodatazione dei termini per le contestazioni a catena).

Di conseguenza, le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla questione generale dei poteri di cognizione del tribunale del riesame, stabilendo se la non deducibilità della perdita di efficacia della misura valga in senso omnicomprensivo sia per le cause sopravvenute che per quelle preesistenti.

4. Il Primo Presidente, con decreto in data 7 giugno 2011, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissandone per la trattazione l’odierna udienza.

Motivi della decisione

1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite è la seguente: “Se, nel caso di contestazione a catena, la questione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare possa essere dedotta nel procedimento di riesame oppure soltanto con l’istanza di revoca ex art. 299 cod. proc. pen.”.

2. Secondo l’orientamento della prevalente giurisprudenza, l’imputato o l’indagato in stato di custodia cautelare, nei cui confronti siano stati adottati vari provvedimenti restrittivi della libertà personale, che assuma la sussistenza di un’ipotesi di cosiddetta contestazione a catena e, conseguentemente, del diritto alla scarcerazione per decorrenza dei termini, deve presentare apposita istanza di scarcerazione al giudice che ha la disponibilità del procedimento e, in caso di rifiuto, può impugnare con appello al Tribunale indicato nell’art. 309 c.p.p., comma 7, il provvedimento, ma non può impugnare direttamente davanti al Tribunale l’ulteriore ordinanza impositiva della misura cautelare ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., poichè la cosiddetta contestazione a catena non incide sul provvedimento in sè ma soltanto sulla decorrenza e sul computo dei termini di custodia cautelare (Sez. 1, n. 1785 del 15/04/1991, Falanga, Rv. 187387; Sez. 1, n. 1184 del 10/03/1994, Annis, Rv. 197209; Sez 1, n. 4776 del 09/07/1997, Surino, Rv. 208503; Sez. 6, n. 833 del 05/03/1999, Gozzi, Rv. 213682; Sez. 6, n. 31497 del 22/05/2003, Dzmaili, Rv. 226286; Sez. 1, n. 19905 del 04/03/2004, Russo, Rv. 228053; Sez. 2, n. 41044 del 13/10/2005, Guttadauro, Rv. 232697; Sez. 1, n. 35113 del 13/07/2007, Chiodo, Rv. 237632; Sez. 2, n. 35605 del 27/06/2007, Crisafulli, Rv. 237991; Sez. 6, n. 10325 del 23/01/2008, Zecchetti, Rv. 239016).

Secondo tale orientamento giurisprudenziale, le cause che determinano la perdita di efficacia dell’ordinanza impositiva della misura cautelare, tra le quali rientra quella prevista dall’art. 297 c.p.p., comma 3, si risolvono in vizi processuali che non intaccano l’intrinseca legittimità dell’ordinanza, ma agiscono sul diverso piano dell’efficacia della misura, per cui devono essere dichiarati nell’ambito di un procedimento appositamente promosso con l’istanza di revoca ex art. 306 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 3680 del 17/11/1998, Di Matteo, Rv. 212686); si aggiunge che la devoluzione al giudice del procedimento incidentale della questione relativa alla perdita di efficacia del provvedimento impugnato integrerebbe una violazione dell’art. 306 cod. proc. pen. che riserva unicamente al giudice del procedimento principale tale competenza e finirebbe con il privare la persona sottoposta alla misura cautelare della possibilità di promuovere, in ordine alla estinzione della stessa, tre gradi di giudizio (istanza di revoca, appello e ricorso per cassazione) (Sez. 6, n. 2033 del 02/06/1999, Lombardo, Rv. 214319).

3. La giurisprudenza ha espresso, però, anche un diverso orientamento, che trae origine da una sentenza della Sez. 3, n. 9946 del 09/02/2010, Chiaravalloti, Rv. 246237, in un caso in cui non risultava che l’indagato avesse dedotto davanti al Tribunale del riesame la questione della retrodatazione dei termini di custodia cautelare ex art. 297 cod. proc. pen., questione che era stata proposta con il ricorso per cassazione; ciò nonostante, la Corte ha ritenuto che il Tribunale fosse tenuto a rilevare d’ufficio la retrodatazione ove ne ricorressero i presupposti, poichè l’indagato aveva prospettato l’insussistenza delle esigenze cautelari e ciò determinava l’obbligo di pronunciarsi al riguardo: “atteso che: – comunque era stata chiesta la revoca della misura, e se essa fosse estinta per decorrenza dei termini di durata massima ex art. 303 c.p.p., comma 1, lett. a), n. 3, ciò prevarrebbe sulla sussistenza o meno delle esigenze cautelari; – ritenendo il contrario e non applicando tale principio sussisterebbe in caso di decorrenza di detti termini l’ingiusta carcerazione dell’inquisito; – tale argomento assorbe quello relativo all’avvenuta o meno deduzione sull’applicazione della retrodatazione”.

Tale sentenza è stata richiamata dalla Sez. 1, n. 24784 del 29/03/2011, Bonito, Rv. 249683, la quale convalida il ragionamento che la retrodatazione incide sulla configurabilità delle esigenze cautelari, ma, da un lato, non parla più di rilevabilità d’ufficio della questione della retrodatazione, dall’altro lato, afferma che occorre distinguere l’ipotesi in cui sia stato dedotto che già al momento della misura i termini erano scaduti per l’ipotizzata retrodatazione – ipotesi nella quale la questione della retrodatazione può essere posta in sede di riesame, poichè la misura non poteva essere emessa – dall’ipotesi in cui, invece, la dedotta retrodatazione si riferisce all’eventualità di una inefficacia sopravvenuta del titolo, nella quale la questione andava posta in sede di istanza di revoca, non incidendo sul titolo. Nel caso preso in esame dalla citata sentenza il ricorso viene rigettato, in quanto “le argomentazioni difensive appaiono generiche ed anche in contraddizione tra loro e con i documenti prodotti”; in tal modo, non solo si distingue tra scadenza dei termini sopravvenuta o preesistente, ma si richiede anche una puntuale deduzione in tal senso in sede di riesame. Nello stesso senso si esprimono Sez. 1, n. 30480 del 29/03/2011, La Posta, Rv. 251090, peraltro, in un caso in cui la questione della retrodatazione aveva formato oggetto di valutazione da parte del G.i.p., e Sez. 1, n. 1006 del 20/12/2011, dep. 2012, Stijepovic, Rv. 251687.

4. Al fine di risolvere la questione controversa è necessario ripercorrere la sviluppo della giurisprudenza sul tema dei rapporti tra procedimento di riesame e procedimento di revoca dell’ordinanza cautelare, che è stato oggetto di plurimi e complessi interventi delle Sezioni Unite.

5. La questione della diversità di natura e funzione del riesame rispetto alla revoca dell’ordinanza cautelare è stata affrontata per la prima volta dalle Sezioni Unite con la sentenza Buffa (n. 11 del 08/07/1994), la quale, proprio sulla base di tale diversità, affermò il principio secondo il quale la richiesta di riesame non è preclusa da quella di revoca della misura, e pertanto non può essere ritenuta inammissibile solo perchè proposta successivamente ad essa.

La sentenza Buffa chiarisce che mentre il riesame delle ordinanze che dispongono misure cautelari costituisce mezzo di impugnazione, ancorchè fornito di caratteristiche peculiari rispetto agli altri mezzi di impugnazione, tale natura giuridica non può essere riconosciuta alla richiesta di revoca di misura cautelare, che, tra l’altro, può essere disposta anche d’ufficio nelle ipotesi previste dall’art. 299 c.p.p., comma 3.

Per quanto concerne le funzioni, la stessa sentenza precisa che al Tribunale di riesame è attribuito in via esclusiva il controllo sulla validità dell’ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell’art. 292 cod. proc. pen., la cui carenza può essere dedotta soltanto con la richiesta di riesame. Inoltre, lo stesso Tribunale deve verificare, alla stregua degli artt. 273, 274, 275 e 280 cod. proc. pen., la legittimità dell’adozione della misura cautelare. A sua volta, l’ordinanza in tema di revoca della misura – che può essere adottata, senza l’osservanza di termini, in qualsiasi fase del procedimento, in cui se ne ravvisi la necessità e, come si è detto, non ha natura impugnatoria – mira a verificare la sussistenza attuale delle condizioni di applicabilità della misura prescritte dagli art. 273 e 274 cod. proc. pen. o di quelle relative alle singole misure, avendo riguardo sia ai fatti sopravvenuti, sia a quelli originari e coevi all’ordinanza impositiva, facendoli oggetto di una valutazione eventualmente diversa da quella prescelta dal giudice che ha applicato la misura. Tale conclusione poggia sia sul testo dell’art. 299 c.p.p., comma 1″, il quale, imponendo espressamente la valutazione “anche dei fatti sopravvenuti” la estende, di perciò stesso, anche ai fatti “originari”, sia sulla Relazione al progetto preliminare del codice. Quest’ultima, invero, qualifica la revoca come “quel fenomeno estintivo che presuppone una valutazione sulla sussistenza ex ante e sulla persistenza ex post delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari”.

Successivamente la sentenza Galletto (Sez. U, n. 26 del 05/07/1995), decidendo in merito al contrasto di giurisprudenza concernente la possibilità di condannare l’indagato soccombente al pagamento delle spese del procedimento incidentale di riesame, respinse preliminarmente, perchè inammissibile, la doglianza relativa alla sopravvenuta estinzione della misura cautelare conseguente alla nullità dell’interrogatorio di cui all’art. 294 cod. proc. pen., non potendo la relativa questione essere sollevata nel corso del procedimento di riesame, il quale è preordinato a verificare soltanto i presupposti legittimanti l’avvenuta adozione della misura cautelare e non anche quelli incidenti sulla sua persistenza, con la conseguenza che non è consentito dedurre, nel corso di detto procedimento, la successiva perdita di efficacia di tale misura, derivata dalla mancanza o dalla invalidità di successivi provvedimenti. Pertanto, la mancanza, la tardività e comunque l’invalidità dell’interrogatorio previsto dall’art. 294 cod. proc. pen. integrano vicende del tutto avulse dall’ordinanza cautelare, oggetto del riesame. Esse, infatti, si risolvono in vizi processuali, che non ne intaccano l’intrinseca legittimità, ma, agendo sul diverso piano della persistenza della misura, ne importano l’estinzione automatica, che deve essere disposta, nell’ambito di un distinto procedimento, con l’ordinanza specificamente prevista dall’art. 306 cod. proc. pen. e suscettibile di appello, a mente dell’art. 310 c.p.p.

La sentenza Moni, n. 7 del 17/04/1996, nel decidere la questione controversa se per il rispetto del termine fissato dall’art. 309 per la decisione dovesse essere depositata l’ordinanza comprensiva della motivazione, ebbe occasione di ribadire il principio della sentenza Galletto, nel punto in cui aveva affermato che la perdita di efficacia della misura cautelare deve essere fatta valere avanti al giudice di merito attraverso la richiesta di revoca prevista dall’art. 306 cod. proc. pen., con la puntualizzazione della vis attractiva del ricorso per cassazione, quando, come nel caso in esame, oltre che l’inefficacia, vengano prospettate questioni relative alla legittimità del provvedimento. La sentenza osserva, che, specialmente se l’assunto della perdita di efficacia del provvedimento è fondato, in tal modo non si ritarda ulteriormente una decisione che si sarebbe dovuto richiedere in altra sede subito dopo l’intervento della ordinanza del Tribunale.

A seguito della L. 8 agosto 1995, n. 332, che, modificando l’art. 309 cod. proc. pen., aveva introdotto la previsione della perdita di efficacia della misura coercitiva anche in caso di inosservanza del termine di trasmissione degli atti al Tribunale del riesame, la sentenza Alagni, Sez. U, n. 25 del 16/12/1998, dep. 1999, nel decidere in merito alla questione controversa circa la decorrenza del termine di cinque giorni per la trasmissione degli atti al Tribunale del riesame, ribadì il principio della sentenza Moni, affermando che se è vero che le cause che determinano la inefficacia della custodia cautelare, non agendo sul piano della legittimità della ordinanza applicativa della misura cautelare, debbono essere fatte valere attraverso la istanza di revoca di cui all’art. 306 cod. proc. pen. ed i rimedi dell’appello e del ricorso per cassazione, peraltro, qualora con il ricorso avverso la decisione sulla richiesta di riesame sia censurata, con la perdita di efficacia del provvedimento coercitivo, anche la legittimità originaria dello stesso, opera la vis attrattiva del proposto gravame e si radica la competenza del giudice di legittimità.

Le successive sentenze delle Sezioni Unite operano una ricostruzione sistematica della materia in esame, elaborando più precise regole sull’ordine delle competenze nei rapporti tra giudice del procedimento principale e giudice dell’impugnazione.

La sentenza Caridi, n. 1 del 15/01/1999, nello stabilire il principio di diritto secondo il quale la perdita d’efficacia dell’ordinanza coercitiva a norma dell’art. 309 c.p.p., commi 5 e 10, è deducibile dall’interessato e rilevabile d’ufficio nel giudizio di cassazione avverso la decisione del Tribunale del riesame, affronta in via pregiudiziale il problema della legittimazione del giudice del procedimento incidentale di impugnazione a dichiarare, nell’ipotesi considerata, la perdita automatica di efficacia dell’ordinanza coercitiva, e osserva che l’assenza di un obbligo di devoluzione della questione al giudice del procedimento principale risponde alla logica complessiva del sistema, secondo cui il giudice della procedura incidentale di impugnazione è giudice della propria competenza, della regolare instaurazione del contraddittorio e della validità di ogni suo atto, nonchè, a maggior ragione, del rispetto dei termini della procedura, dalla cui inosservanza discenda la perdita di efficacia dell’ordinanza coercitiva, logicamente pregiudiziale rispetto a ogni altra questione di legittimità o di merito.

La successiva sentenza Liddi, Sez. U, n. 2 del 15/01/1999, ad integrazione della sentenza Caridi, afferma il principio che nei casi in cui la custodia cautelare perde efficacia per inosservanza dei termini richiamati dall’art. 309 c.p.p., comma 10, l’immediata liberazione della persona sottoposta alla misura, quale effetto automatico di detta inosservanza, può essere chiesta anche al giudice del procedimento principale a norma dell’art. 306 c.p.p., salvo che la relativa richiesta sia già stata respinta nel procedimento incidentale di impugnazione (riesame o ricorso per cassazione), dal momento che in quest’ultima eventualità si determina la preclusione endoprocessuale derivante dalla formazione del cosiddetto “giudicato cautelare”.

Tali conclusioni sono rivisitate dalla sentenza Piscopo, Sez. U, n. 14 del 31/05/2000, la quale afferma che “l’omessa pronuncia della caducazione ex art. 309 c.p.p., comma 10, configurata come un vizio della decisione di riesame, rimanga sanata ove non dedotta nel giudizio di cassazione; e non possa essere perciò rilevata dal giudice del procedimento principale. Sarebbe infatti una palese contraddizione ammettere la rilevabilità nel procedimento principale di una questione che nel procedimento incidentale rimane preclusa se non dedotta con uno specifico motivo d’impugnazione. Sicchè si realizza in proposito una preclusione analoga a quella che impedisce al giudice del procedimento principale di rilevare le invalidità del provvedimento applicativo della misura, previste dall’art. 292 cod. proc. pen., non dedotte tempestivamente con una delle impugnazioni proponibili ex artt. 309 e 311 cod. proc. pen.(…). Sicchè l’art. 306 cod. proc. pen., deve essere interpretato nel senso che competente a dichiarare la caducazione di una misura cautelare sia esclusivamente il giudice del procedimento (principale o incidentale) nell’ambito del quale si è verificato l’evento che l’ha determinata.

E nel caso della caducazione prevista dall’art. 309 c.p.p., comma 10 deve perciò attribuirsi al solo giudice del riesame il dovere di rilevarla anche d’ufficio, potendo la Corte di cassazione rilevare una tale caducazione solo in conseguenza dell’accertamento dell’omessa sua dichiarazione da parte del giudice del riesame, ove una tale omissione sia stata denunciata con uno specifico motivo d’impugnazione”.

6. Sulla base della ricostruzione sistematica operata soprattutto dalle sentenze Piscopo e Caridi possono individuarsi le seguenti diverse cause di estinzione delle misure cautelari:

1) una misura cautelare si estingue innanzitutto se il provvedimento applicativo viene annullato per mancanza dei requisiti di validità prescritti dall’art. 292 cod. proc. pen.

E’ evidente però che la maggior parte delle violazioni dell’art. 292 cod. proc. pen. può essere dichiarata solo dal giudice del riesame o dalla Corte di cassazione, perchè la scadenza dei termini previsti per le impugnazioni de libertate sana le nullità del provvedimento applicativo derivanti dalla mancanza di questi requisiti di validità (ad esempio la mancanza della motivazione), quando non si tratti di vizi che rendono il provvedimento inesistente e ineseguibile a norma dell’art. 292 c.p.p., comma 3.

2) Una misura cautelare si estingue in secondo luogo se la mancanza dei suoi presupposti edittali (artt. 280 e 287 cod. proc. pen.) probatori (art. 273 cod. proc. pen.) o cautelari (art. 274 cod. proc. pen.) ne determini la revoca (art. 299 c.p.p., comma 1) ovvero giustifichi l’annullamento del provvedimento applicativo in sede di riesame (art. 309 c.p.p., comma 9) o, limitatamente alla mancanza dei presupposti edittali, in seguito a ricorso per cassazione (art. 311 cod. proc. pen.).

3) L’estinzione di una misura cautelare può infine verificarsi ope legis, per caducazione automatica conseguente al verificarsi di determinati eventi che non incidono di regola nè sulla validità del provvedimento applicativo nè sui presupposti di applicazione della misura; si tratta quindi di eventi sopravvenuti che determinano la perdita di efficacia della misura ma non ne precludono la rinnovazione, salve le limitazioni previste dall’art. 307 cod. proc. pen. per la sostituzione della custodia cautelare caducata per decorso dei termini massimi di durata. E per questa ragione la giurisprudenza ha sempre escluso che le cause di caducazione ope legis delle misure cautelari personali possano essere dedotte con le impugnazioni proponibili contro le ordinanze applicative. In particolare deve escludersi che con la richiesta di riesame possa essere dedotta la caducazione della custodia cautelare per omissione o invalidità dell’interrogatorio ex art. 294 cod. proc. pen., che va dedotta con richiesta al giudice per le indagini preliminari, in quanto non attiene alle condizioni di legittimità e di merito per l’adozione della misura. E analogamente al Tribunale del riesame non possono proporsi questioni sulla scadenza dei termini di custodia, neppure quando venga dedotta una reiterata contestazione a catena di fatti sostanzialmente identici (così sentenza Piscopo).

4) Quanto all’ipotesi di caducazione prevista dall’art. 309 c.p.p., comma 10, essa non incide nè sulla validità del provvedimento applicativo nè sull’esistenza dei presupposti della misura, ma si configura come “oggetto aggiuntivo” (così sentenza Piscopo) del giudizio di riesame, rispetto alla verifica della validità del provvedimento applicativo impugnato e dei presupposti della misura cautelare applicata, trattandosi di conseguenza di un evento verificatosi nello stesso giudizio.

7. La esposta ricostruzione sistematica dello stato della giurisprudenza, che traccia la linea di confine tra le questione devolute alla cognizione del giudice dell’impugnazione e quelle affidate alle decisioni del giudice del procedimento principale, deve mantenersi ferma, non essendovi ragioni per modificarne l’assetto anche con riferimento all’ipotesi di inefficacia della misura cautelare per retrodatazione dei termini ex art. 297 c.p.p., comma 3, allorquando tale inefficacia sia sopravvenuta all’adozione della misura stessa. D’altro canto, dalla lettura delle citate sentenze delle Sezioni Unite risulta evidente che i casi presi in considerazione per affermare la competenza del giudice del procedimento principale sono sempre quelli di eventi caducatori sopravvenuti, ad eccezione di quelli che si verificano nell’ambito della stessa procedura incidentale di impugnazione.

Del resto, ove si tratti di eventi sopravvenuti alla decisione del giudice del riesame, la Corte di cassazione non potrebbe rilevare l’evento caducatorio per due ordini di motivi; un motivo di ordine generale, posto in evidenza della citata sentenza Piscopo, secondo il quale la Corte stessa è il giudice cui è demandato il controllo di legittimità sulla correttezza della decisione di riesame e in quest’ambito esaurisce il suo giudizio; un motivo specifico, attinente alla circostanza che la questione della retrodatazione ex art. 293 c.p.p., comma 3, ha la caratteristica di una quaestio facti (Sez. 6, n. 12676 del 20/12/2006, dep. 2007, Barresi, Rv. 236829; Sez. 5, n. 39931 del 18/09/2009, Froncillo, Rv. 245380) e, come tale, non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità, e tanto meno può essere rilevata d’ufficio.

Ove, invece, si tratti di evento intervenuto nel tempo intercorrente tra l’emissione dell’ordinanza cautelare e la decisione del Tribunale del riesame, l’ordine delle competenze come sopra delineato non potrebbe essere messo in discussione neppure sotto il profilo dell’esigenza di rapidità in materia di decisioni de libertate, posto che, da un lato, sulla presentazione di una richiesta di revoca il giudice del procedimento principale deve provvedere con ordinanza entro cinque giorni dal deposito della richiesta stessa ex art. 299 c.p.p., comma 3, quindi, secondo le scansioni temporali previste dal codice di procedura, anche in tempi più rapidi della decisione del Tribunale del riesame; dall’altro lato, è una garanzia anche per il soggetto raggiunto dalla misura cautelare che vi sia la possibilità di una doppia valutazione di merito (g.i.p. – o giudice che procede – e appello cautelare) su una questione, che, in considerazione della complessità della materia e dei margini di apprezzamento del giudice di merito, si deve svolgere nel massimo contraddittorio tra le parti e con le più ampie deduzioni.

8. A conclusioni parzialmente diverse deve pervenirsi nel caso in cui, in applicazione dei principi della c.d. contestazione a catena, il termine di custodia cautelare sia interamente scaduto già al momento della emissione del secondo provvedimento cautelare.

9. L’orientamento giurisprudenziale indicato come minoritario collega l’ammissibilità della deduzione davanti al giudice del riesame della retrodatazione, nel caso da ultimo indicato, alla configurabilità delle esigenze cautelari. Con ciò sembra volersi dire che l’avvenuto decorso dei termini escluderebbe che vi siano esigenze cautelari da soddisfare, come se l’ingiustificato ritardo nella richiesta e nella conseguente emissione della seconda ordinanza possa significare la mancanza di pressanti esigenze cautelari. Ma tale affermazione non sembra sfuggire a possibili critiche. In primo luogo, le sentenze che svolgono tale argomentazione fanno riferimento a fattispecie in cui, oltre alla questione della c.d. contestazione a catena, era stata prospettata l’insussistenza delle esigenze cautelari e proprio tale prospettazione era stata posta a fondamento dell’obbligo di pronunciarsi sul punto della retrodatazione in applicazione dei principi della c.d. contestazione a catena. In tal modo, sembra volersi dire che, per radicare la competenza del giudice del riesame, una questione di retrodatazione incide su una questione di validità del titolo, ma non si chiarisce come possa giungersi ad analoga conclusione nel caso in cui la retrodatazione fosse stata dedotta unitamente alla denuncia di mancanza di gravità indiziaria senza nulla dire in merito alle esigenze cautelari.

Che la regola della retrodatazione non possa essere messa in relazione con il tema delle esigenze cautelari sembra del resto evidenziato nella sentenza Rahulia (Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005), più avanti citata, la quale, commentando il caso della retrodatazione automatica per ragioni di connessione, rileva che “in alcuni casi la regola può risultare di dubbia opportunità, perchè può accadere che per i reati emersi in tempi successivi la durata ulteriore della custodia cautelare non sia sufficiente per il completamento delle indagini, ma in questi casi il pubblico ministero può esercitare l’azione penale per i soli reati oggetto della prima, o delle prime ordinanze cautelari (artt. 130 e 130-bis disp. att. cod. proc. pen.) e impedire così la perdita di efficacia della misura per la scadenza dei termini”. Ciò non può che significare che le esigenze cautelari, pur sussistendo, vengono sacrificate da uno strumento di contenimento dei tempi di restrizione della libertà personale.

10. Occorre, a questo punto chiarire quali siano la ratio e le modalità applicative dell’istituto della retrodatazione in presenza di contestazioni a catena.

11. Per quanto concerne la ratio dell’istituto, ancora da ultimo la Corte costituzionale (sentenza n. 204 del 2012) ha chiarito che esso “tende ad evitare che, rispetto a una custodia cautelare in corso, intervenga un nuovo titolo che, senza adeguata giustificazione, determini di fatto uno spostamento in avanti del termine iniziale della misura (…). L’introduzione di “parametri certi e predeterminati” nella disciplina delle “contestazioni a catena” risponde all’esigenza di “configurare limiti obiettivi e ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla libertà personale” (sentenza n. 89 del 1996), in assenza dei quali si potrebbe “espandere la restrizione complessiva della libertà personale dell’imputato, tramite il “cumulo materiale” – totale o parziale – dei periodi custodiali afferenti a ciascun reato” (sentenza n. 233 del 2011). La disciplina delle “contestazioni a catena”, dunque, si caratterizza per una rigidità indispensabile a scongiurare il rischio di un’espansione, potenzialmente indefinita, della restrizione complessiva della libertà personale, ed è in nome di questa rigidità che la disciplina delle “contestazioni a catena” non tollera alcuna “imponderabile valutazione soggettiva degli organi titolari del potere cautelare”.

12. I principi applicativi della norma di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, sono stati definiti dagli interventi della Corte costituzionale (sentenza n. 408 del 2005 e n. 233 del 2011) e della Corte di cassazione (Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005, Rahulia; Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007, Librato) e possono così sintetizzarsi:

– nel caso di emissione nello stesso procedimento di più ordinanze che dispongono nei confronti di un imputato una misura custodiale per lo stesso fatto, diversamente circostanziato o qualificato, o per fatti diversi, legati da concorso formale, da continuazione o da connessione teleologia, commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza, la retrodatazione della decorrenza dei termini delle misure disposte con le ordinanze successive opera automaticamente, ovvero senza dipendere dalla possibilità di desumere dagli atti, al momento dell’emissione della prima ordinanza, l’esistenza degli elementi idonei a giustificare le successive misure (art. 297 c.p.p., comma 3, prima parte);

– nel caso in cui le ordinanze cautelari adottate nello stesso procedimento riguardino invece fatti diversi tra i quali non sussiste la connessione qualificata prevista dall’art. 297 c.p.p., comma 3, la retrodatazione opera solo se al momento dell’emissione della prima erano desumibili dagli atti elementi idonei a giustificare le misure applicate con le ordinanze successive;

– il presupposto dell’anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza coercitiva, rispetto all’emissione della prima, non ricorre allorchè il provvedimento successivo riguardi un reato di associazione (nella specie di tipo mafioso) e la condotta di partecipazione alla stessa si sia protratta dopo l’emissione della prima ordinanza;

– quando nei confronti di un imputato sono emesse in procedimenti diversi più ordinanze custodiali per fatti diversi in relazione ai quali esiste una connessione qualificata, la retrodatazione prevista dall’art. 297 c.p.p., comma 3, opera per i fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stata emessa la prima ordinanza;

– nel caso in cui le ordinanze cautelari adottate in procedimenti diversi riguardino invece fatti tra i quali non sussiste la suddetta connessione e gli elementi giustificativi della seconda erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, i termini della seconda ordinanza decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima solo se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorità giudiziaria e la loro separazione può essere frutto di una scelta del pubblico ministero;

– la disciplina stabilita dall’art. 297 c.p.p., comma 3, per la decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare, si applica anche nell’ipotesi in cui, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura (Corte cost., sent, n. 233 del 2011).

13. Ciò posto, deve in linea di principio osservarsi che è dovere di ogni giudice investito del problema cautelare quello di tutelare nella sua massima estensione la libertà personale, protetta come bene primario dalla Costituzione (art. 13) e dalle norme delle convenzioni internazionali che sanciscono il diritto di ogni persona sottoposta ad arresto o detenzione a ricorrere al giudice per ottenere, “entro brevi termini” (art. 5, comma 4, Convenzione Europea dei diritti dell’uomo) o “senza indugio” (art. 9, comma 4, Patto internazionale sui diritti civili e politici), una decisione sulla legalità della misura e sulla liberazione.

L’intervento dell’organo del riesame deve peraltro essere coordinato con le particolari caratteristiche della relativa procedura incidentale, che non prevede l’esercizio di poteri istruttori, incompatibili con la speditezza del procedimento incidentale de libertate e che si basa esclusivamente sugli elementi emergenti dagli atti trasmessi dal pubblico ministero e su quelli eventualmente addotti dalle parti nel corso dell’udienza (Sez. 3, n. 43695 del 10/11/2011, Bacio Terracina Coscia, Rv. 251329; Sez. 3, n. 21633 del 27/04/2011, Valentini, Rv. 250016; Sez. 2, n. 6816 del 14/11/2007, dep. 2008, Caratozzolo, Rv. 239432; Sez. 4, n. 41151 del 23/03/2004, Gogoli, Rv. 231000); pertanto, qualsiasi richiesta che comporti l’esercizio di poteri istruttori può soltanto costituire l’oggetto di questioni da proporre al giudice competente su eventuali istanze di revoca della misura cautelare.

Si consideri, inoltre, che la deduzione della questione della sussistenza della c.d. contestazione a catena può introdurre argomenti di notevole complessità ai fini del relativo accertamento e del conseguente giudizio. Anche nel caso di emissione nello stesso procedimento di più ordinanze che dispongono nei confronti di un imputato la medesima misura custodiale per lo stesso fatto, diversamente circostanziato o qualificato, pur apparentemente semplice, possono sorgere notevoli questioni, come quando la contestazione concerna un’associazione a delinquere di stampo mafioso (cfr. Sez. 6, n. 12263 del 11/02/2004, Lanzino, Rv. 228470). Ancor più complesso può rivelarsi il tema della sussistenza di una connessione qualificata, ad esempio con riferimento ai rapporti tra associazione per delinquere e reati-fine (Sez. 5, n. 44606 del 18/10/2005, Traina Rv. 232797; Sez. 1, n. 8451 del 21/01/2009, Vitale, Rv. 243199; Sez. 1, n. 18340 del 11/02/2011, Scarda, Rv. 250305).

La complessità aumenta in progressione allorquando debba valutarsi la sussistenza del requisito della “desumibilità dagli atti”.

Infatti, la giurisprudenza ha chiarito che il concetto di desumibilità, presupposto che legittima il ricorso all’istituto della retrodatazione, non va confuso con la mera conoscenza o conoscibilità di determinati fatti (Sez. 2, n. 4669 del 02/12/2005, dep. 2006, Virga, Rv. 232991; Sez. 6, n. 12676 del 20/12/2006, dep. 2007, Barresi, Rv. 236829; Sez. 4, n. 44316 del 03/07/2007, Dalipay, Rv. 238348; Sez. 4, n. 2649 del 25/11/2008, dep. 2009, Endrizzi, Rv. 242498). Se la ratio dell’istituto consiste nell’evitare un prolungamento artificioso dei termini di custodia cautelare, è evidente che la retrodatazione può teoricamente ipotizzarsi, e l’istituto concretamente operare, come istituto di garanzia, solo se il secondo provvedimento custodiale già poteva concretamente essere adottato al momento dell’emissione della prima ordinanza e ciò può affermarsi solo nei casi in cui già vi era un quadro indiziario di tale gravità e completezza, conoscìbile dall’autorità giudiziaria procedente e apprezzabile in tutta la sua valenza probatoria, da integrare tutti i presupposti legittimanti l’adozione della misura.

Interpretazione, quest’ultima, peraltro avallata dalla Corte costituzionale che, nel dichiarare “l’illegittimità costituzionale dell’art. 297 c.p.p., comma 3, nella parte in cui non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza”, ha affermato che la durata della custodia cautelare deve dipendere da un fatto obiettivo (rispettoso, dunque, del canone dell’uguaglianza e della ragionevolezza) quale quello “dell’acquisizione di elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari” (sent. n. 408 del 2005).

Si aggiunga che tutti i suddetti presupposti di applicazione della retrodatazione ex art. 297 c.p.p., comma 3, costituiscono una quaestio facti la cui soluzione è rimessa di volta in volta all’apprezzamento del giudice di merito (Sez. 5, n. 44606 del 18/10/2005, Traina, Rv. 232797; Sez. 6, n. 12676 del 20/12/2006, dep. 2007, Barresi, Rv. 236829; Sez. 4, n. 9990 del 18/01/2010, Napolitano, Rv. 246798), e in quanto tale richiede l’esame e la valutazione degli atti ed una ricostruzione dei fatti, attività precluse al giudice di legittimità, il quale deve solo verificare che il convincimento espresso in sede di merito sia correttamente e logicamente motivato.

14. Sulla base delle esposte caratteristiche del procedimento incidentale cautelare e delle modalità di verifica di sussistenza dei presupposti della retrodatazione dei termini di custodia cautelare ex art. 297 c.p.p., comma 3, deve ritenersi che il Tribunale del riesame possa pronunciarsi in materia solo quando elementi incontrovertibili emergenti dall’ordinanza impugnata consentano di ritenere sussistenti i suddetti presupposti. In qualsiasi altro caso, la mancanza di poteri istruttori del giudice del riesame e le esigenze di speditezza del procedimento incidentale de libertate devono condurre ad escludere una pronuncia dello stesso giudice, la quale, se favorevole all’indagato, potrebbe basarsi sulla sola prospettazione difensiva non sufficientemente verificata nel più ampio contraddittorio e con la completezza degli elementi di fatto e documentali utili per la decisione; se sfavorevole all’indagato, potrebbe essere suggerita da una superficiale e non completa disamina di tutti i dati rilevanti, non rimediabile in sede di legittimità, in considerazione dei limiti del relativo sindacato, con le negative conseguenze correlate al prodursi del c.d. giudicato cautelare. Pertanto deve ribadirsi che soltanto nel caso in cui dalla stessa ordinanza impugnata emergano in modo incontrovertibile e completo gli elementi utili e necessari per la decisione è possibile dare spazio ai principi di economia processuale e di rapida definizione del giudizio in vista della più ampia tutela del bene primario della libertà personale.

15. Deve, dunque, affermarsi il seguente principio di diritto: “Nel caso di contestazione a catena, la questione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere dedotta anche in sede di riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) se per effetto della retrodatazione il termine sia interamente scaduto al momento della emissione del secondo provvedimento cautelare; b) se tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall’ordinanza cautelare”.

16. Nel caso di specie, manca la verifica della sussistenza delle suddette condizioni che consentono al giudice del riesame di affrontare il tema della c.d. contestazione a catena, soprattutto per quanto concerne il requisito della “desumibilità dagli atti” inteso nel senso sopra specificato.

Pertanto, l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Bologna, per nuovo esame che faccia applicazione dei principi di diritto come sopra formulati.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia al Tribunale di Bologna per nuovo esame.

A cura dell’avv. Domenico Di Leo – RIPRODUZIONE RISERVATA.

 



[1] Per le altre misure coercitive diverse da quelle custodiali e per le misure interdittive i termini didurata massima sono fissati dall’art. 308: il comma 1 individua per le prime dei termini lunghi e il comma 2 per le seconde dei termini brevi. Le misure coercitive diverse dalla custodia cautelare perdono efficacia quando dall’inizio della loro esecuzione è decorso un lasso di tempo pari al doppio dei termini previsti per la corrispondente misura custodiale, in base all’art. 303 c.p.p. Le misure interdittive perdono efficacia quando sono decorsi due mesi dall’inizio della loro esecuzione. Tuttavia, quando queste misure siano state disposte per esigenze probatorie, il giudice ne può disporre la rinnovazione anche oltre i due mesi dall’inizio dell’esecuzione, avendo cura tuttavia di non superare i termini massimi di durata previsti per le misure cautelari coercitive diverse dalla custodia cautelare. Cfr. Izzo F., Diritto processuale penale, ed. Simone, 2012, pp. 344.

[2] È appena il caso di indicare che la segmentazione della custodia è rapportata, nella sua durata, alle differenti categorie di reato, individuate in base alla misura edittale della pena prevista per il reato, nel corso delle indagini preliminari e del giudizio di primo grado, si tiene conto dell’entità della pena irrogata in sentenza nelle altre fasi del procedimento.

[3] Se, a causa deli una pronuncia di annullamento, il processo regredisce ad una fase precedente, i termini di fase – in cui il processo è regredito – decorrono nuovamente. Tuttavia, se la custodia sofferta eccede il doppio del termine di fase la misura perde efficacia, come affermato da Corte Cost., sent. 292/1998.

[4] Le S.U. della S.C. hanno affermato che il calcolo dei termini va effettuato sull’imputazione contenuta nell’ordinanza cautelare, essendo a tal fine irrilevanti le eventuali modifiche dell’imputazione avvenute in udienza ad opera di contestazioni del P.M. Fa eccezione il caso in cui il giudice, a seguito della modifica della contestazione da parte del P.M., commini una nuova misura.

[5] Questo è l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite della S.C. con la sentenza 23381/2007, in cui si è precisato che, per i reati avvinti dalla continuazione, ai fini dell’individuazione del termine di fase di durata di custodia cautelare ex art. 303 c.p.p., occorre avere riguardo alla pena complessiva irrogata per tutti i reati, limitatamente ai quali è in corso la misura cautelare.

[6] Cass. 2182/2008.

[7] Cass. 14317/2010.

[8] Corte cost., 22 luglio 2011, n. 233.

[9] Fra queste, si segnalano Cass. S.U. 20780/2009; 21957/2005; 14535/2007.

[10] Si vedano le sent. 408/2005; 453/1997; 349/1996; 891/1996.

[11] Corte cost., sent. 89/1996.

[12] Si veda www.penalecontemporaneo,it, l’articolo a firma di Romeo G., Le Sezioni unite sulla possibilità di far valere, nel procedimento di riesame, l’asserita necessità di retrodatazione della decorrenza del termine massimo di durata della custodia cautelare.

[13] Cass. pen., sent. 20 dicembre 2011, n. 1006/2012.

[14] Cass. pen.,Sez. un., 5 luglio 1995, n. 26. Difatti, di lì a poco, Sez. un., 17 aprile 1996, n. 7 aveva mitigato il rigore dell’affermazione, ritenendo che la questione sulla persistente efficacia della misura può essere proposta, insieme ad altre concernenti la legittimità originaria del provvedimento coercitivo, mediante il ricorso per cassazione avverso la decisione del riesame[8], pur tenendo fermo il principio per cui la declaratoria di inefficacia dell’ordinanza coercitiva spetta, di regola, al giudice del procedimento principale ai sensi dell’art. 306 c.p.p.

[15] Cass. pen., S.U., 15 gennaio 1999, n.1.

[16]

A tale ultimo proposito, peraltro, non pare molto centrato, né   convincente, l’argomento per cui, quando si tratta di «evento intervenuto nel   tempo intercorrente tra l’emissione dell’ordinanza cautelare e la decisione   del tribunale del riesame», l’ordine delle competenze non potrebbe essere   messo in discussione neanche sotto il profilo dell’esigenza di rapidità in   materia di decisioni de libertate, sul rilievo che il giudice della revoca   deve provvedere entro cinque giorni, e quindi in tempi più rapidi di quelli   propri del tribunale del riesame: è noto, infatti, che quest’ultimo termine,   previsto dall’art. 299, comma 3, c.p.p., a differenza di quello previsto dal   successivo art. 309, comma 9, ha natura ordinatoria e quindi non è presidiato   da sanzione. Ed è altrettanto noto che nella prassi si tratta di termine la   cui osservanza può essere disattesa.

Il rilievo è tanto più sfocato quando si pensi che in un caso del   genere non sembrano sussistere ostacoli alla facoltà dell’indagato in   vinculis – proprio in ossequio all’esigenza di rapidità delle decisioni in   materia di libertà personale puntualmente evocata nella sentenza anche con   riguardo all’art. 5, comma 4, CEDU, e all’art. 9, comma 4, Patto   internazionale sui diritti civili e politici – di rappresentare l’avvenuta   estinzione della misura in un procedimento già attivato e a definizione   celere, nel quale un provvedimento di liberazione potrebbe intervenire ben   prima che nella procedura conseguente alla richiesta di revoca.

 

 

 

[17] Cass. pen., S.U., 22 marzo 2005, n. 21957; S.U. 19 dicembre 2006, n. 14535/2007.

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