Da “Quaderni Romani” a cura dell’avv. Luciano Randazzo e della dott.ssa Angela Allegria
Sulla Città Eterna piovono quotidianamente critiche, eppure non c’è essere umano che non desidererebbe vivere a Roma. E il suo fascino, a volte cinico ed inquietante, te la fa odiare e amare a morte. Su quest’ultimo aspetto chi frequenta tribunali, caserme, ospedali ed obitori si sofferma soprattutto d’estate. “Ma va a morì ammazzato!”, grida l’anima vera e indemoniata del romano di rione e di borgata. E anche la signora dalle dita secche acquista un tono letterario tutto suo particolare, una sorta d’identità romana. Ne volete una prova? Credo bastino una decina di storie, tutte vere. Ma andiamo con ordine. È il 10 luglio del 1955. Il caldo torrido, insopportabile, avvolge Roma. La città è ormai vuota. Le poche persone girovagano senza una precisa meta. Cercano un po’ di refrigerio serale sul Lungotevere, al Gianicolo dove spadroneggia il ponentino, quel gradevole vento romano immortalato dalle canzoni popolari.
La guerra è roba di un decennio prima, e ormai il rito della villeggiatura al mare ha contagiato le famiglie romane. Soprattutto quelle di estrazione medio-impiegatizia, complice quel benessere economico che sta invadendo l’Italia, facendo dimenticare le disgrazie di un conflitto che per i ragazzi è quasi un lontano ricordo. Roma non è immune alla corsa al godimento estivo. Quell’agognata villeggiatura nelle località turistiche. La vacanza è una scelta di vita, una forma di distinzione sociale al pari della televisione, che trasmette i suoi programmi e ci fa sentire partecipi. Due personaggi, il professor Cutolo, e padre Mariano con la sua ascetica barba, intrattengono i fortunati possessori della scatola magica. L’Italia è benpensante, tranquilla e serena, non vuole problemi è curiosa tra le cose frivole. Il divertimento semplice viene prima di tutto: cinema, arene estive, sale da ballo modeste e alla portata della povera gente, vengono prese d’assalto. Del resto è estate. Poi c’è la messa domenicale, il pranzo familiare con le immancabili pastarelle, quel cinema pomeridiano che diventa un rito alla portata di tutti.
Il 10 luglio, due amici decidono di trascorrere una giornata diversa, una gita al lago di Castel Gandolfo, località amena e tranquilla alle porte di Roma, dove i Papi, non a caso, vi risiedono d’estate. Così i due affittano una barchetta, iniziano la traversata a remi del lago, sognando semplici mete vacanziere che mai potranno permettersi: uno è sagrestano e l’altro un povero meccanico. Ad un certo punto uno dei due fa accostare la barca, ed inizia a percorrere un sentiero boscoso per soddisfare un impellente bisogno fisiologico. È alla ricerca di un posto lontano da sguardi indiscreti, poiché il luogo è meta ambita di coppiette clandestine, e non solo, in cerca di intimità.
Ma uno spettacolo raccapricciante gli si para davanti. Un corpo nudo di donna con una pelle di colore latteo, già in stato di decomposizione. Un tanfo insopportabile, il corpo è coperto da una copia del quotidiano romano “Il Messaggero” del 5 luglio, e poi vermi ed insetti coprofagi. Il cadavere era smembrato, successivamente verrà accertato che alla sventurata le erano state asportate le ovaie. Ma la scena era ancora più macabra, perché il corpo era privo della testa. Non venne mai ritrovata. Il cadavere ha un segno distintivo, che risulterà utile per la successiva individuazione: un orologio da polso marca Zeus, molto in voga a quei tempi. Nello sconcerto generale iniziano le indagini, difficili per le tecniche di allora, ma semplici per l’individuazione del movente: un terribile omicidio, come in seguito verrà acclarato. Nell’incertezza generale e, come al solito, su pressione dei media, emerge che il caso era troppo particolare per i canoni del tempo. Quell’orribile omicidio suscitava i pruriti della gente, la curiosità morbosa: un’esecuzione con decapitazione e asportazione delle ovaie. La gente dell’epoca, i lettori, non erano pronti a tanta efferatezza.
Vengono fermate molte persone. Tutti quelli che in un modo o nell’altro si trovarono sulla scena del crimine. Dal posteggiatore al proprietario di un ristorante limitrofo al lago. Però non venne mai chiarito per quale motivo i due amici, che avevano rinvenuto il cadavere, soltanto il 12 luglio denunciarono il fatto all’Autorità giudiziaria. Giustificarono il ritardo sostenendo di aver avuto timore, giustificazione banale e priva di logica, ma che venne accettata dagli investigatori. Le cronache giudiziarie riempirono le pagine dei quotidiani. Troppo appetibile questo caso che fa scatenare la fantasia popolare. Ognuno cerca di dare una soluzione al delitto e, come nelle partite di calcio, si diventa esperti, strateghi.
Molte maghe e cartomanti gareggiano tra loro per dare un nome alla vittima: la pubblicità in questi casi non guasta. Il circo mediatico giudiziario si mise in moto anche allora. La vittima con molta difficoltà venne identificata in Maria Antonietta Longo, detta Ninetta, una ragazza trentenne nata a Mascalucia, un paesino della provincia di Catania. Lavorava come cameriera presso la famiglia di un medico romano. Era una servetta, come venivano definite quelle ragazze che lavoravano presso la famiglie del ceto medio, che rappresentavano un vero status symbol per i costumi sociali del tempo. Erano ragazze di estrazione sociale povera, che venivano dal profondo sud italiano o dal Polesine (il delta del Po dal versante veneto), attratte dal miraggio di un futuro benessere, dal desiderio di una sistemazione con matrimonio col classico bravo ragazzo con il posto fisso. Venivano a lavorare come domestiche nelle grandi città, e Roma era quella più ambita, lasciando i loro paesi poveri, degradati, desolati. In buona sostanza come le moderne e attuali badanti, povere e piene di speranza: Ninetta era una di loro. Era uscita da casa, avvisando i suoi padroni, il 5 luglio portava con sé una valigia piena di vestiti, di biancheria nuova e con una cospicua somma di denaro che aveva ritirato dal suo libretto postale, i suoi risparmi. Una lettera spedita alla sorella, per informarla che aveva conosciuto l’amore, forse un imminente matrimonio. Il sogno forse si stava per realizzare. Sogno infranto il 5 luglio 1955, data presunta della sua morte. Anche il presunto fidanzato venne arrestato, e successivamente rimesso in libertà.
Le indagini portarono ad un nulla di fatto, vennero archiviate in maniera troppo frettolosa. Si doveva far dimenticare questo omicidio che avrebbe rotto equilibri sociali che si andavano consolidando. La gente parla, mormora, potrebbe deviare dalla pace cattolica e dalla spensieratezza semplice del momento. Una società cattolica professante, che faceva della famiglia il punto centrale della sua esistenza, e che male avrebbe tollerato gli aspetti oscuri dell’omicidio di una povera servetta. Ne sarebbe stata troppo impressionata. Molte furono le ipotesi circa l’omicidio: un aborto non riuscito, un maniaco, un amante deluso. Tutti aspetti contrari al senso del pudore che doveva avvolgere l’Italietta.
Il delitto non venne mai chiarito. Nel corso degli anni Cinquanta ci furono altri omicidi di donne, altrettanto macabri, e non vennero mai risolti. Della povera Ninetta rimane oggi soltanto un corpo martoriato ed una testa mozzata mai trovata. Anche il suo ricordo è svanito nel nulla. E il suo sogno? Distrutto insieme alla sua povera e giovane esistenza. Anche all’epoca il corto circuito tra stampa, politica e giustizia influenzò le indagini come la diffusione delle notizie: eravamo una democrazia ancora troppo giovane, sosteneva qualcuno. Tutto sempre troppo sbilanciato, e l’uomo della strada sempre lì, in attesa di una giustizia giusta, di una libertà d’informazione, di una politica generale meno bigotta e vicina alla gente.