La confisca prevista dall’art. 12 sexies d.l., 8/06/92, n. 306 convertito nella legge, 7 agosto 1992, n. 336 è applicabile anche qualora venga commesso il delitto di tentata estorsione.
A CURA DELL’AVV. ANTONIO DI TULLIO D’ELISIIS
Nota a Cass. pen., sez. I, ud. 28/05/13, dep. 20/06/13, Pres. P. Bardovagni, Cons. estens. M. Barbarisi, ric. Guarnieri Amelia[1].
Nella decisione in commento, i Giudici di legittimità hanno affrontato diversi aspetti della materia prevista dall’art. 12 sexies del d.l., 8/06/92, n. 306 convertito nella legge, 7 agosto 1992, n. 336.
Innanzitutto, gli Ermellini, allineandosi sulla scorta di quanto già enunciato dalla stessa Sezione I nella pronuncia n. 22154 del 10/05/05, per un verso, hanno postulato che “il chiaro richiamo contenuto nel primo comma dell’art. 12 sexies al caso di condanna per il delitto di cui all’art. 629 C.P., in mancanza di ulteriori specificazioni, non autorizza alcuna distinzione fra reato consumato e reato tentato, in quanto non collega la confisca al provento o al profitto di quel reato, bensì ai beni di cui il condannato non può giustificare la provenienza lecita, indipendentemente dalla loro fonte che si presume derivante dalla complessiva attività illecita del soggetto”[1], per altro verso, hanno ripreso pedissequamente la sentenza in precedenza citata nella parte in cui è stato dedotto che in “ogni caso ed indipendentemente dalla specifica disposizione di cui all’art. 12 sexies la confisca delle cambiali sarebbe stata imposta anche in base alla disciplina generale di cui all’art. 240 C.P. poiché le cambiali rilasciate dalla vittima del reato di tentata estorsione, collegato alla usura, costituivano, come documento, il mezzo per la realizzazione del provento della estorsione, indipendentemente dal loro sconto o incasso che avrebbe determinato la consumazione della estorsione”[2].
Ciò premesso, per quanto riguarda questo secondo passaggio motivazionale, corre l’obbligo di rilevare che in quella occasione, pur rilevando i Giudici di “Piazza Cavour” che la confisca avrebbe potuto essere astrattamente applicata, la fattispecie era del tutto divergente da quella in oggetto sicchè la confisca veniva disposta in sede di cognizione[3] mentre, nella fattispecie in esame, tale provvedimento non è stato emesso dal giudice di merito.
Quanto appena esposto si evince dalla lettura del provvedimento in commento e, segnatamente, nella parte in cui viene riportato il motivo di ricorso redatto da uno dei difensori in cui si faceva per l’appunto presente come il sequestro non fosse stato disposto dal giudice ordinario[4].
Venendo invece a trattare l’altro aspetto interpretativo summenzionato ovvero se il provvedimento ablatorio, previsto dalla norma giuridica di cui all’art. 12 sexies del decreto legge n. 306, sia adottabile pure nel caso in cui sia commesso il tentato delitto di estorsione, si osserva come vi sia un diverso orientamento nomofilattico secondo il quale, al contrario, non “può essere disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca ai sensi dell’art. 12-sexies D.L. 8 giugno 1992 n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992 n. 356 in relazione al delitto di tentata estorsione, stante l’espressa previsione della sequestrabilità esclusivamente per il reato consumato e l’autonomia, rispetto ad esso, del tentativo che non consente estensioni “in malam partem””[5].
Inoltre, a sostegno di questa seconda tesi ermeneutica, in sede di legittimità, da un lato, è stato evidenziato che “il legislatore ha voluto ricomprendere il tentativo lo ha espressamente previsto, come nel caso di cui all’art. 380 c.p.p., che consente l’arresto obbligatorio in flagranza per chi è colto in flagranza di un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce una determinata pena”[6], dall’altro lato, è stato osservato come la Cassazione abbia “costantemente affermato, in tema di esclusioni oggettive dall’amnistia e dall’indulto e in tema di arresto in flagranza, che le relative norme operano solo nelle ipotesi di reato consumato, quando solo queste siano indicate”[7].
Ebbene, tale secondo approdo ermeneutico è sicuramente preferibile per le seguenti ragioni.
In primo luogo, come già appena dedotto, nel nostro codice di rito, ogni volta si è ritenuto di dovere distinguere il delitto consumato da quello tentato, ciò è stato statuito espressamente.
Ad esempio, al di là dell’art. 380 c.p.p. richiamato nell’ultima decisione succitata, si registrano altresì, a titolo meramente esemplificativo, le seguenti disposizioni legislative:
– l’art. 8 c.p.p. che, in materia di competenza per territorio, distingue a seconda se il reato è consumato ovvero solo tentato;
– l’art. 280, co. II, c.p.p. secondo cui la “custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni”.
In secondo luogo, oltre all’orientamento ermeneutico elaborato “in tema di esclusioni oggettive dall’amnistia e dall’indulto[8] e in tema di arresto in flagranza[9]”, corre l’obbligo di menzionare delle pronunce con le quali è stato evidenziato come l’autonomia del reato tentato, rispetto a quello consumato, possa rilevare non solo sotto il profilo sostanziale ma anche sul profilo procedurale e su quello penitenziario e, segnatamente:
– la sentenza adottata dal Tribunale di Milano in data 11/12/01 (in: Foro ambrosiano 2002, 359) secondo cui la “norma derogatoria di cui all’art. 303 comma 1 lett. a) n. 3 c.p.p., nella parte in cui richiama l’art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p., non è applicabile alla fattispecie di delitto tentato con riguardo a quei reati, elencati dallo stesso art. 407, in ordine ai quali non è espressamente indicata, nel contesto testuale della norma, anche l’ipotesi di delitto tentato”;
– la pronuncia emessa dalla Cassazione penale, sez. I, il 20/05/93 (in: Cass. pen. 1995, 174 (s.m.), Mass. pen. cass. 1994, fasc. 1, 90) alla stregua della quale “deve escludersi che l’art. 4-bis della l. 25 luglio 1975, n. 354, che ha introdotto rigorose condizioni (e preclusioni) per la concessione delle misure alternative alla detenzione in riferimento alle pene inflitte per taluni più gravi reati, individuati con l’espressa indicazione delle norme incriminatrici del codice penale o di leggi speciali che li contemplano, sia applicabile anche al richiedente che abbia riportato condanna perché riconosciuto colpevole di tentativo di alcuno dei reati ivi previsti”;
– la decisione n. 15631 posta in essere dal Supremo Consesso, sez. VI, il 20/04/10 (in: CED Cass. pen. 2010, Cass. pen. 2011, 9, 3112) con cui è stato messo in evidenza che, in “tema di mandato di arresto europeo, deve escludersi la sussumibilità dell’omicidio tentato nelle fattispecie di consegna obbligatoria di cui all’art. 8 l. 22 aprile 2005 n. 69, non essendovi espressa previsione dei reati ivi enunciati anche nella forma del tentativo”.
In quarto luogo, anche l’ordinamento comunitario suggerisce una lettura restrittiva della norma giuridica su indicata posto che l’art. 1, protocollo addizionale n. 1 del 20/03/52, nello statuire che nessuno può essere privato delle sue proprietà se non “nelle condizioni previste dalla legge”, non fa’ altro che affermare in tale guisa “il principio generale del rispetto della proprietà”[10].
Sicchè se, secondo il sistema normativo comune, una confisca può ritenersi legittima solo ove “prevista normativamente”[11], va da sé che disporre un provvedimento di questo tipo, in assenza di una espressa disposizione legislativa che preveda tale evenienza anche per i reati tentati, non può che determinare una violazione della “legittima aspettativa di ottenere il godimento effettivo di un diritto di proprietà”[12].
Del resto, anche per quanto attiene il diritto domestico, pur con le limitazioni previste dall’art. 42 e ss. Cost. e nel rispetto “degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”[13], la Consulta non ha esitato a definire la proprietà come un “diritto fondamentale”[14] avendo il proprietario, ai sensi dell’art. 832 c.c., il “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”.
In quinto luogo, ad umile avviso di chi scrive, il chiaro dettato normativo dell’art. 12 sexies del d.l. n. 306/92, a differenza di quanto enunciato nella sentenza in commento, è univocamente diretto a circoscrivere il margine applicativo entro cui può essere disposta la confisca.
In effetti, come è notorio, detta norma giuridica consente il sequestro dei beni:
– nei “casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per taluno dei delitti previsti dagli articoli 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 322, 322-bis, 325, 416, sesto comma, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473, 474, 517-ter e 517-quater, 416-bis, 600 600-bis, primo comma, 600-ter, primo e secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, 601, 602, 629, 630, 644, 644-bis, 648, esclusa la fattispecie di cui al secondo comma, 648-bis, 648-ter del codice penale, nonchè dall’art. 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, ovvero per taluno dei delitti previsti dagli articoli 73, esclusa la fattispecie di cui al comma 5, e 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309”;
– “nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonchè a chi è stato condannato per un delitto in materia di contrabbando nei casi di cui all’art. 295, secondo comma, del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43”.
Di talchè, in ossequio al criterio ermeneutico sancito dall’art. 12, co. I, delle preleggi del codice civile secondo cui, come è noto, nell’ “applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”, è evidente che il riferimento compiuto nella disposizione legislativa in esame ai soli delitti, non può determinare, sempre a modesta considerazione dello scrivente, un allargamento del catalogo dei reati che possa legittimare l’emissione della confisca.
Per giunta, come suesposto[15], ove il legislatore ha ritenuto di considerare, a dati effetti giuridici, il tentativo, ciò è stato statuito espressamente.
Tra l’altro, il fatto che tale norma giuridica non debba trovare applicazione solamente in sede civile trova conforto in virtù di quell’arresto giurisprudenziale penale secondo il quale, ai “sensi dell’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, il giudice deve fare ricorso ai criteri propri della interpretazione logica, con il solo limite rappresentato dalla lettera della norma nella sua massima capacità di espansione, per stabilire quale sia la reale intenzione del legislatore”[16].
In sesto luogo, ragioni di ordine teleologico sorreggono tale costrutto ermeneutico essendo stata fatta una scelta, da parte del legislatore, nell’emanare tale previsione legislativa, “di presumere l’esistenza di un nesso pertinenziale tra alcune categorie di reati e i beni di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e che risultino di valore sproporzionato rispetto al reddito o alla attività economica del condannato stesso”[17] siccome la “funzione della norma di riferimento è quella di stabilire una presunzione relativa di illecita accumulazione in presenza di patrimoni nella disponibilità di imputati di reati, articolarmente significativi nella prospettiva dell’arricchimento criminale”[18].
E’ palese dunque come l’opzione normativa sia stata quella di stabilire un legame causale tra una serie tipizzata di illeciti penali (e pertanto solo questi e non altri) e il sequestro di beni nella misura in cui quest’ultimi siano a loro volta di provenienza illecita e di valore non consono alle risorse del condannato[19].
Orbene, una volta compiuta questa specifica disamina argomentativa, corre l’obbligo di proseguire nell’analisi della pronuncia in commento nella parte in cui trapela, ad umile avviso di scrive, un’evidente discrasia tra le premesse in punto di diritto poste a sostegno della decisione e le conclusioni reiettive a cui gli Ermellini sono pervenuti nella fattispecie in esame.
Infatti, la Corte di Cassazione, precisando che l’adozione della misura di sicurezza patrimoniale prevista dal d.l. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, si fonda “sulla presunzione di illegittima provenienza delle risorse patrimoniali accumulate da un soggetto condannato per determinati reati di cui all’art. 12 sexies d.l. n. 306 del 1992 (conv. in l. n. 356 del 1992)”[20], ciò nonostante ha ritenuto come debba “escludersi che, in presenza di fonti lecite e proporzionate di produzione, quali esse siano, di dette risorse, possa farsi ricorso alla misura di cui si discute”[21].
Invero, a detta della Corte, “non rileva che tali fonti siano costituite dal reddito dichiarato ai fini fiscali ovvero dal giro di affari comunque connesso all’attività economica svolta, anche se non evidenziato, in toto o in parte, nella dichiarazione dei redditi”[22] atteso che “la non proporzionalità del primo finisce con l’essere superata dalla proporzionalità del secondo”[23].
In effetti, attenendoci sempre al ragionamento decisorio utilizzato dai Giudici di legittimità nella pronuncia in oggetto, diversamente “opinando, si finirebbe per penalizzare il soggetto sul piano patrimoniale non per la provenienza illecita delle risorse accumulate, ma per l’evasione fiscale posta in essere, condotta antigiuridica quest’ultima che, pur sanzionabile sotto il profilo fiscale, esula dalla ratio e dal campo operativo dell’istituto previsto dal richiamato art. 12 sexies”[24].
D’altronde, sempre in sede di legittimità, è stato parimenti precisato in un’altra occasione che, se “il presupposto di operatività dell’istituto di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, è la presunzione di illiceità della provenienza delle risorse patrimoniali di un dato soggetto, appare evidente che ove le fonti di produzione del patrimonio siano identificabili, siano lecite, e ne giustifichino la titolarità in termini non sproporzionati ad esse, è irrilevante che tali fonti siano identificabili nei redditi dichiarati a fini fiscali piuttosto che nel valore delle attività economiche che tali entità patrimoniali producano, pur in assenza o incompletezza di una dichiarazione dei redditi”[25] dato che, differentemente, “si verrebbe a colpire il soggetto, espropriandosene il patrimonio, non per una presunzione di illiceità, in tutto o in parte, della sua provenienza ma per il solo fatto della evasione fiscale; condotta, questa, che all’evidenza non può dirsi riconducibile allo spirito e alla ratio dell’istituto in questione, che mira a colpire i proventi di attività criminose e non a sanzionare la infedele dichiarazione dei redditi, che si colloca in un momento successivo rispetto a quello della produzione del reddito, e per la quale soccorrono specifiche norme in materia tributaria, non necessariamente implicanti responsabilità penali”[26].
Ciò premesso, a fronte di tale encomiabile principio di diritto in quanto particolarmente sensibile alle garanzie previste dall’ordinamento domestico e da quello convenzionale i quali, come illustrato in precedenza[27], prevedono ambedue la limitazione del diritto di proprietà solo in presenza di specifiche condizioni, è stata ritenuta legittima, nel caso di specie, la confisca su presupposti simmetricamente opposti a quelli appena evidenziati e, precipuamente, in virtù della considerazione sulla scorta della quale la provenienza illecita dei beni ablati è stata fatta risalire “proprio per il fatto che, trattandosi di redditi sottratti al fisco (…) non risultano denunciati sicchè il loro effettivo introito risulta di difficile comprovazione”[28].
A sostegno di tale considerazione critica, si rileva come nella sentenza richiamata in questa pronuncia [ovvero la decisione, Sez. 2, 27 marzo 2012, n. 27037 (in CED Cassazione penale 2012)[29]] – a differenza dell’orientamento nomofilattico citato nel decisum in commento che, come appena esposto, stima l’evasione fiscale avulsa “dalla ratio e dal campo operativo dell’istituto previsto dal richiamato art. 12 sexies”[30] – sia stato al contrario asserito che “è legittimo il provvedimento di confisca di beni del prevenuto che ne giustifichi il possesso dichiarando di averli acquistati con i proventi del reato di evasione fiscale”.
Oltre a ciò, non può non evidenziarsi che è stato stimato conforme alla legge un provvedimento di merito pur essendo stata evidenziata la diversità delle argomentazioni giuridiche enunciate dal giudice di cognizione rispetto a quelle utilizzate nella sentenza in oggetto.
E’ palese, quindi, almeno ad avviso di chi scrive, che una valutazione giuridica differente tra il giudizio di merito e quello di legittimità (si ribadisce, infatti, che, nella pronuncia in commento, è scolpita la seguente valutazione: “ancorché nel provvedimento gravato si sostenga diversamente”[31]), avrebbe dovuto determinare almeno un annullamento con rinvio al fine di mettere il giudice di merito in condizione di attenersi a quell’orientamento ermeneutico difformemente rilevato in sede di legittimità per poi verificare, alla luce di questo indirizzo interpretativo, se ricorressero i presupposti normativi richiesti per potere disporre un provvedimento ablatorio.
Inoltre, per quanto attiene l’iter argomentativo secondo il quale la giustificazione, circa la provenienza dei beni, deve consistere “nella prova della positiva liceità della loro provenienza e non in quella negativa della loro non provenienza del reato per cui è stata inflitta condanna”, pur essendo tale passaggio motivazionale perfettamente speculare a quello utilizzato nell’arresto giurisprudenziale n. 920 del 17/12/03 (in: Cass. pen. 2004, 1182 (nota di: FIDELBO), Riv. pen. 2004, 314, Foro it. 2004, II, 267), sembra ignorarsi il fatto che, in quest’ultima pronuncia, per un verso, è stato enunciato che spetta comunque al giudice “accertare la sproporzione rispetto ai redditi ed alle attività economiche del condannato” “attraverso una ricostruzione storica della situazione esistente al momento dei singoli acquisti”, per un altro verso, è stato asserito che il difensore, lungi dal dovere fornire un onere della prova strictu sensu, ha solo l’onere di addurre le proprie giustificazioni mediante l’ “esposizione di fatti e circostanze”.
Invero, come dedotto anche in sede scientifica, “la norma non ha posto a carico del prevenuto l’obbligo di giustificare la legittima provenienza dei beni ma quello di giustificare la provenienza di essi”[32].
Del resto, è pacifico che spetta alla pubblica accusa “l’ onere di provare l’esistenza di circostanze che avallino in modo concreto la divergenza tra intestazione formale e disponibilità effettiva del bene”[33] così come è richiesto al giudice, oltre di compiere l’opera ricostruttiva appena segnalata, anche di valutare “la documentazione prodotta dal ricorrente per confutare l’esistenza della sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito e alle attività economiche dell’interessato, nonchè l’illecita provenienza dei beni stessi”[34].
Pertanto, sarebbe stato comunque necessario, ad avviso di chi scrive, appurare se il giudice di merito, anche alla luce delle produzioni documentali e delle argomentazioni fornite dalle difese sul petitum azionato, avesse:
– ricostruito esattamente la vicenda patrimoniale da cui è scaturito questo procedimento esecutivo;
– esaminato le prove presentate dalla difesa.
All’opposto, questa duplice verifica, sempre a sommessa opinione dello scrivente, come sembra evincersi dalla lettura della decisione, non pare essere stata compiutamente realizzata.
Inoltre, si evidenzia un’ulteriore problematica di ordine prettamente processuale affrontata in tale pronuncia.
In sostanza, si è trattato di stabilire come debba essere applicato l’art. 666, co. II, c.p.p. nella parte in cui è previsto che deve essere dichiarata inammissibile la richiesta qualora costituisca una mera riproposizione di una precedente richiesta già rigettata.
Orbene, corre l’obbligo di sottolineare che l’istanza in questione è stata dichiarata inammissibile dal giudice di merito prima che l’altro procedimento fosse divenuto definitivo (tanto è vero che ambedue i procedimenti sono stati trattati nella decisione in commento).
Ciò nondimeno, è stato avvallato l’operato del giudice dell’esecuzione alla stregua del seguente metro argomentativo: non “vi è per vero nessuna necessità che il provvedimento che decide su una istanza identica precedente passi in giudicato perché si formi la rilevata preclusione processuale”[35] poiché la “ratio del sistema di preclusione è quella di evitare provvedimenti difformi presi su sollecitazione di richieste identiche oltre che per assicurare l’ergonomia del giudizio”[36].
Allora, tale passaggio motivazionale non è condivisibile per la susseguente considerazione.
Invero, se è vero che il concetto di giudicato, così come elaborato con riferimento al processo di cognizione, non può estendersi a quello di esecuzione[37], è altrettanto vero che, come è notorio, una istanza, presentata ai sensi dell’art. 666 c.p.p., può essere dichiarata inammissibile solo ove proposta “con riferimento a richiesta già respinta con provvedimento definitivo, ove fondato sui medesimi presupposti di fatto e di diritto del precedente”[38].
Tra l’altro, non sembra essere un caso come, nella fattispecie in esame, la stessa Corte di Cassazione abbia ritenuto che, pur ritenendo corretto l’operato del giudice dell’esecuzione nello stimare sussistente la preclusione processuale[39], “la decisione su analoga richiesta andava comunque sospesa perché la precedente era sub giudice”[40].
Se allora la decisione “andava sospesa”, è evidente di conseguenza come non poteva ricorrere alcuna causa preclusiva sino a quando l’altro procedimento non fosse stato definito.
Infine, sempre in punto di rito, la difesa ha “censurato il provvedimento impugnato sotto il profilo che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all’art. 12 sexies D.L. 1992/306 non rientra nella competenza riservata al giudice dell’esecuzione posto che l’art. 676 cod. proc. pen. riserva a questo giudice esclusivamente il potere di deliberare in ordine ai provvedimenti in materia di confisca quando però il sequestro sia stato già disposto dal giudice ordinario, cosa non avvenuta”[41].
A fronte di tale critica defensionale, giova ricordare che la stessa Corte di Cassazione, sez. V, con sentenza n. 27613 dell’8/06/05 (in: CED Cassazione 2005) ha deliberato in eguale misura stabilendo che non “rientra nella sfera di attribuzioni del giudice dell’esecuzione il potere di disporre il sequestro preventivo di beni sottoposti, in sede di cognizione, a confisca, ex art. 12 sexies d.l. n. 306 del 1992, conv. in l. n. 356 del 1992, in quanto il sequestro , di cui all’art. 321 c.p.p., costituisce una misura cautelare che può essere adottata nel corso del procedimento dal “giudice competente a pronunciarsi nel merito”; d’altro canto, il provvedimento di confisca dei beni di cui non sia stata dimostrata la legittima provenienza deve necessariamente essere preceduto dal sequestro, stante l’inscindibile collegamento tra la cautela ed il provvedimento ablativo, con la conseguenza che il sequestro è non solo logicamente strumentale rispetto alla confisca ma rappresenta, nell’ambito della disciplina di cui all’art. 12 sexies succitato, un atto necessario di avvio del procedimento applicativo della misura patrimoniale di prevenzione, di guisa che il decreto di sequestro deve precedere anziché seguire la confisca”.
Ebbene, a fronte di tale orientamento nomofilattico, il Supremo Consesso ha disatteso tale assunto difensivo limitandosi a richiamare la giurisprudenza “secondo cui rientra nella sfera di attribuzione del giudice dell’esecuzione il potere di disporre il sequestro preventivo dei beni ai sensi dell’art. 321 cod. proc. pen.”[42] con argomentazioni giuridiche sicuramente condivisibili siccome rispondenti alla logica e al buon senso (è invero scritto in sentenza quanto segue: “considerato che egli (ossia il giudice dell’esecuzione ndr.) è competente ad adottare il provvedimento di confisca (…) e che pertanto si può ben ricorrere in fase esecutiva al sequestro preventivo per salvaguardare la conservazione dei medesimi beni”[43]).
Tale passo motivazionale non ha tuttavia spiegato perché il diverso indirizzo tracciato dalla difesa non potesse essere accolto o meglio perché, le argomentazioni poste a sostegno di questo approccio ermeneutico, dovessero essere disattese rispetto a quelle illustrate in sentenza.
In conclusione, la sentenza in esame si appalesa di notevole rilievo scientifico per le molteplici questione trattate e, in speciale modo, per quella inerente quale tipo di delitto rilevi ai fini del giudizio de quo.
Sarebbe però auspicabile, laddove l’intenzione del legislatore fosse quella di estendere la portata applicativa di questo strumento normativo ai casi eguali e/o simili rispetto a quello in argomento, emendare l’art. 12 sexies del d.l. n. 306 prevedendo espressamente, tra i reati per i quali può essere emessa la confisca, anche gli illeciti penali previsti da questa statuizione normativa in forma tentata.
Solo in tal modo, difatti, si potrà garantire un’applicazione chiara e uniforme di questa disposizione legislativa fermo restando che, laddove si dovesse protrarre un’inerzia del Parlamento su tale questione, sarebbe opportuno che le Sezioni Unite agiscano il prima possibile al fine di dirimere tale contrasto giurisprudenziale.
In effetti, ad ulteriore riprova di come non vi sia un’uniformità ermeneutica e come sia necessario dunque un intervento giurisdizionale di questo tenore in tempi rapidi, si rimarca che la stessa Sezione della Cassazione che ha adottato la decisione, in un recente passato, ha emesso una pronuncia simmetricamente opposta a quella in commento, affermando viceversa che il “presupposto per l’applicazione dell’art. 12 sexies d.l. n. 306/1992 convertito con legge n. 356/1992 consiste nella accertata configurabilità di una delle ipotesi criminose previste dalla legge, vigendo obbligo di applicazione tassativa della norma, in riferimento ai soli reati indicati nella disposizione de quo”[44].
[1]Sentenza in commento, pag. 4.
[2]Ibidem, pag. 4.
[3]In quella sentenza, infatti, è scritto quanto segue: “la revoca della confisca da parte della Corte d’Appello ha riguardato soltanto la parte assolutoria della sentenza in merito al reato di usura, mentre ha lasciato in vita la confisca relativamente al reato per cui il (…) aveva riportato condanna”.
[4]Ibidem, pag. 3.
[5]Cass. pen., sez. II, 23/09/10, n. 36001, in CED Cass. pen. 2010.
[6]Ibidem.
[7]Ibidem.
[8]Ex multis, Cass. pen., sez. I, 10/12/09, n. 8316, in Diritto & Giustizia 2010: “Ai fini dell’indulto concesso con l. n. 241 del 2006, l’indicazione dei reati esclusi dall’applicazione dello stesso opera unicamente con riguardo alla figura consumata dei medesimi e non anche alla figura tentata, attese l’autonomia del reato tentato rispetto a quello consumato e la natura specifica della selezione operata dal legislatore, insuscettibile di interpretazione estensiva”.
[9]Ex plurimibus, Cass. pen., sez. II, 5/10/05, n. 45511, in CED Cass. pen. 2005: “In tema di arresto facoltativo in flagranza, l’arresto da parte della polizia giudiziaria in ordine ai reati indicati dal comma 2 dell’art. 381 c.p.p. non è consentito nell’ipotesi di tentativo, in considerazione dell’autonomia del delitto tentato rispetto a quello consumato, qualora determinati effetti giuridici siano dalla legge ricollegati alla commissione di reati specificamente indicati mediante l’elencazione degli articoli che li prevedono, senza ulteriori precisazioni, deve intendersi che essi si producano esclusivamente per le ipotesi consumate e non anche per quelle tentate”.
[10]Corte EDU, 25/06/09, n. 36963/06, Zouboulidis c. Grecia, in http://www.duitbase.it.
[11]Corte EDU, 4/09/01, Riela e altro c. Rep. It., in Cass. pen. 2002, 3245 (s.m.).
[12]Corte EDU, 8/02/11, n. 16021, Plalam S.p.a. c. Italia, in http://www.duitbase.it.
[13]Ex art. 832 c.c. .
[14]Corte Cost., 29/12/08, n. 448, in Giur. cost. 2008, 6, 5064. Di diverso avviso è quell’insigne letteratura scientifica secondo la quale “la proprietà privata è riconosciuta e garantita come diritto soggettivo se ed in quanto adempia ad una funzione sociale” dovendosi altrimenti considerare come un mero “interesse legittimo” (Temistocle Martines, Diritto Costituzionale, VIII ed., Milano, Giuffrè editore, 1994, pagg. 696 e 697).
[15]Cfr., supra, pag. 3.
[16]Cass. pen., Sez. Un., 26/11/09, n. 5385, in Redazione Giuffrè 2010.
[17]Corte Cost., 29/01/96, n. 18, in Cass. pen. 1996, 1385, Giur. cost. 1996, 169, Dir. pen. e processo 1996, 291, Fisco (Il) 1996, 2612.
[18]Cass. pen., sez. I, 31/01/13, n. 20215, in Diritto & Giustizia 2013, 13 maggio (nota di: BOSSI).
[19]Sul punto si osserva inoltre che, secondo autorevole letteratura scientifica, con tale norma “il legislatore ha voluto insistere nell’obiettivo strategico di fronteggiare il fenomeno gravissimo della criminalità organizzata anche con un efficace e necessario strumento di contrasto quale quello rappresentato dalle misure di carattere patrimoniale, idonee, sul piano della repressione e della prevenzione, ad aggredire le ricchezze delle organizzazioni criminali; tentando in tal modo di individuare e colpire i patrimoni sproporzionati rispetto alle attività economiche svolte dagli appartenenti alle organizzazioni suddette e alle loro capacità di reddito, e comunque illecitamente accumulati e detenuti anche per interposta persona” (Dott. R. Alfonso, LA CONFISCA PENALE PREVISTA DALL’ART. 12-SEXIES, LEGGE N. 356/92, ED I SUOI RAPPORTI CON LA CONFISCA PREVISTA DAGLI ART. 240 C.P., 16-BIS, COMMA 7, C.P. E DALLE LEGGI SPECIALI, in NUOVE FORME DI PREVENZIONE DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA: GLI STRUMENTI DI AGGRESSIONE DEI PROFITTI DI REATO E LE MISURE DI PREVENZIONE, Quaderni del CSM, Frascati, 18-20 dicembre 1997, 12-14 febbraio 1998, pag. 434).
[20]Sentenza in commento, pag. 5.
[21]Ibidem, pag. 5.
[22]Ibidem, pag. 5.
[23]Ibidem, pag. 5.
[24]Ibidem, pag. 5.
[25]Cass. pen., sez. VI, 31/05/11, n. 29926, in Diritto & Giustizia 2011, 30 luglio (nota di: GALASSO).
[26]Ibidem.
[27]Cfr., supra, pag. 4.
[28]Sentenza in commento, pag. 5.
[29]Ibidem, pag. 5.
[30]Ibidem, pag. 5.
[31]Ibidem, pag. 5.
[32]Dott. R. Alfonso, LA CONFISCA PENALE PREVISTA DALL’ART. 12-SEXIES, LEGGE N. 356/92, ED I SUOI RAPPORTI CON LA CONFISCA PREVISTA DAGLI ART. 240 C.P., 16-BIS, COMMA 7, C.P. E DALLE LEGGI SPECIALI, in NUOVE FORME DI PREVENZIONE DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA: GLI STRUMENTI DI AGGRESSIONE DEI PROFITTI DI REATO E LE MISURE DI PREVENZIONE, Quaderni del CSM, Frascati, 18-20 dicembre 1997, 12-14 febbraio 1998, pag. 435.
[33]Cass. pen., sez. I, 24/10/12, n. 44534, in CED Cass. pen. 2012.
[34]Cass. pen., sez. I, 28/11/06, n. 92, in Guida al diritto 2007, 8, 92 (s.m.).
[35]Sentenza in commento, pag. 8.
[36]Ibidem, pag. 8.
[37]In tale senso, Cass. pen., Sez. Un., 21/01/10, n. 18288, in Redazione Giuffrè 2010.
[38]Cass. pen., sez. I, 11/03/09, n. 23817, in CED Cass. pen. 2009. In senso conforme, Cass. pen., sez. I, 19.05.92, Martino in CP, 1003, 2556: “non è consentito proporre nuovo incidente di esecuzione sulla stessa richiesta già rigettata con provvedimento definitivo”.
[39]Sulla tematica del principio di preclusione nel processo penale vedasi, tra i tanti autori intervenuti sul tema, Orlandi R., Principio di preclusione e processo penale, in Processo penale e giustizia, rivista telematica, n. 5 del 2011, p.1. Sulla definizione della preclusione tout court, Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. II, Napoli, 1965, pagg. 858 – 859.
[40]Sentenza in commento, pag. 8.
[41]Ibidem, pag. 3.
[42]Sentenza in commento, pag. 7.
[43]Ibidem, pag. 7.
[44]Ibidem.