riforma-processo-penaleIl giudizio di ottemperanza: natura giuridica e ambito di applicazione con particolare riferimento ai casi problematici; le Astreintes.

A cura del dott. Vincenzo Caruso

Indice / Abstract:

 

Il giudizio di ottemperanza, una sua  prima definizione e l’obiettivo: la  verifica dell’esatto adempimento e l’obbligo di conformarsi al giudicato.

 Il dettato costituzionale in base agli artt. 97, 24, 113 della Cost.

 La natura giuridica mista: cognizione ed esecuzione.

 Presupposti fondamentali dell’ottemperanza: esistenza di una decisione ex art.112, 2°; il carattere non autoapplicativo del provvedimento, l’inadempimento o parziale adempimento rispetto al dictum dell’Amministrazione.

 Cenni al percorso storico dell’istituto: l’inerzia o il rifiuto ad adempiere erano i solo casi ammessi dalla legge n° 1034 del 1971, che rappresentava un sistema svantaggioso per l’interessato.

 Dottrina e giurisprudenza consentirono di adire direttamente il giudice in sede di ottemperanza.

 L’Adunanza Plenaria n° 6 del 19.3.1984 differenziò la violazione e l’elusione del giudicato, per cui in caso di violazione si procedeva con l’azione di annullamento, nel caso di elusione si procedeva con il giudizio di ottemperanza.

Con una successiva decisione dell’Adunanza Plenaria, la n°2 del 15.1.2013 si ammise il criterio del petitum sostanziale. Infine, la legge n° 15 del 2005, introducendo l’art. 21-septies, ha positivizzato la disciplina pretoria. Con il Codice del processo amministrativo, poi, sono stati elencati, agli artt. 113 e 114, i poteri del giudice amministrativo per cui può dichiarare nulli i provvedimenti violativi o elusivi del giudicato e riconducendo l’ottemperanza nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Il TAR Lazio n°10245 del 27.7.2015 e la tecnica cautelare del “remand” in assenza di un esplicito divieto dell’art. 55 del c.p.a. per la sospensione e riesame dell’atto impugnato da parte dell’Amministrazione.

Altra questione problematica si è aperta con la lett. e), co.4 dell’art.114 c.p.a. secondo cui sono ammissibili nel nostro ordinamento le astreintes e le penalità di mora ovvero l’esecuzione indiretta ed i danni punitivi.

Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n°15 del 25.6.2014 avalla l’orientamento che ammette l’operatività delle astreintes anche nei giudizi di ottemperanza volti ad ottenere dalla P.A. l’esecuzione di obbligazioni pecuniarie.

Con la sequela delle decisioni della sez. V, nn°° 2340,2341, 2342, 2343, 2344 del 12.5.2015, il Consiglio di Stato ha fatto chiarezza tra i vari orientamenti giurisprudenziali in merito al momento iniziale di decorrenza della penalità di mora nel giudizio di ottemperanza.

Il Cons. St. n°4414 del 21.2.9.015 ritiene applicabili le astreintes solo per inadempimento successivo al termine fissato dalla sentenza di ottemperanza.

IL TAR Lazio, sez. I, n°2847 del 19.2.2915 ritiene applicabile ai giudizi di ottemperanza la risarcibilità del danno da ritardo nelle obbligazioni di pagare somme di denaro per la P.A.

La sentenza della Cassazione n°7613 del 15.4.2015 ritiene le astreintes non incompatibili con l’ordinamento italiano.

Le astreintes vengono definite come forme di coercizione all’adempimento degli illeciti permanenti in presenza di un obbligo di fare infungibile. Le misure coercitive indirette sono quelle previste all’art. 614 bis c.p.c.

Il giudizio di ottemperanza ha costituito la creazione di maggior spicco che si è avuta nell’esperienza italiana di giustizia amministrativa ed ha rappresentato fin dall’origine, un elemento dinamico dell’agire amministrativo, soprattutto verso un’Amministrazione spesso recalcitrante ad adeguarsi al giudicato amministrativo. Tale giudizio si giustifica in quanto ha l’obiettivo di fare in modo che l’Amministrazione eserciti il proprio riservato potere pubblico “esecutivo”, incomprimibile, non delegabile, né espropriabile dagli altri poteri, in favore del ricorrente al quale va garantita l’effettività delle tutele, in funzione del raggiungimento del risultato. Questo assunto ha un primo fondamento nella Carta Costituzionale, soprattutto con il collegamento sostanziale tra le disposizioni contenute nell’art. 97 e negli artt. 24 e 113.

 Pertanto, trovare punti di equilibrio tra attività amministrative, volte a raggiungere obiettivi specifici, e tutele degli interessi pubblici o privati sottostanti è uno dei compiti più importanti dell’intero sistema giustizia amministrativa. Nel processo amministrativo l’oggetto del giudizio di ottemperanza è rappresentato dalla puntuale verifica dell’esatto adempimento, da parte dell’Amministrazione, dell’obbligo di conformarsi al giudicato, per far conseguire concretamente all’interessato l’utilità o il bene della vita, già riconosciutogli in sede di cognizione. Al giudizio di ottemperanza viene, infatti, riconosciuta natura mista: cognitoria, perché impegna il giudice amministrativo nell’accertamento della permanenza dell’inadempimento e della presenza di un titolo esecutivo di cui occorre interpretare il contenuto; esecutiva perché mira a sostituire l’amministrazione inadempiente nel compimento degli atti necessari a garantire l’attuazione del giudicato.

Unanimemente dottrina e giurisprudenza individuano tre fondamentali presupposti per la presupposizione del ricorso per l’ottemperanza: l’esistenza di una decisione ricompressa nell’elenco di cui all’articolo 112, 2° comma c.p.a.; il carattere non autoapplicativo del provvedimento di cui si chiede l’ottemperanza; l’inadempimento o il parziale adempimento dell’Amministrazione al dictum contenuto nel provvedimento passato in giudicato.

Il percorso legislativo ed ermeneutico volto ad individuare i caratteri dell’elemento in questione è stato particolarmente complesso. In sede di prima applicazione della legge n° 1034 del 1971 che aveva esteso per la prima volta il giudizio di ottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo, la dottrina e larga parte della giurisprudenza tendevano ad ammettere l’esperibilità del giudizio di ottemperanza solo ed esclusivamente in caso di inerzia, totale o parziale, della Pubblica Amministrazione, ovvero solo nell’ipotesi in cui la stessa non avesse compiuto alcun atto o, addirittura, avesse manifestato il proprio rifiuto ad adempiere.

Viceversa, allorché la Pubblica Amministrazione avesse emanato un atto, ancorché non interamente conforme al giudicato e sfavorevole nei confronti del privato, questi non avrebbero potuto che impugnare il provvedimento stesso con un’ordinaria azione di annullamento. Si trattava, tuttavia, di un sistema del tutto svantaggioso per l’interessato, costretto, in caso di provvedimento elusivo della sentenza a se favorevole, a intraprendere un nuovo percorso processuale ed instaurare un nuovo giudizio di cognizione. Ciò ha indotto parte della giurisprudenza a consentire di adire direttamente il giudice amministrativo in sede di ottemperanza anche quando fossero stati emanati atti amministrativi elusivi del giudicato, atti, cioè, non perfettamente aderenti alle statuizioni contenute nella sentenza da ottemperare.

Successivamente nel 1984, l’Adunanza Plenaria n°6 del 19 marzo, propose una soluzione ancora diversa, segnando la differenza tre violazione ed elusione del giudicato. Ad avviso della Plenaria, si sarebbe avuta violazione del giudicato quando il dictum giudiziale avrebbe lasciato spazio alla discrezionalità della Pubblica Amministrazione in sede di riesercizio del potere: in questo caso l’atto, non essendo interamente vincolato, avrebbe dovuto essere, se non conforme ai vincoli dettati dal giudice, impegnato con l’ordinaria azione di annullamento. Al contrario l’elusione del giudicato si sarebbe verificata in tutte le ipotesi in cui il dictum giudiziale era talmente stringente e vincolante da esaurire del tutto il potere discrezionale dell’Amministrazione: in questo caso, l’atto avrebbe dovuto essere considerato nullo e il privato avrebbe potuto adire direttamente il giudice in sede di ottemperanza.

 Con una successiva pronuncia, poi, l’Adunanza Plenaria supera la distinzione tra la violazione ed elusione del giudicato e stabilisce che per determinare le ipotesi in cui a seguito dell’inottemperanza della Pubblica Amministrazione potesse instaurarsi un giudizio di ottemperanza dovesse utilizzarsi non il criterio della distinzione tra la violazione ed elusione del giudicato, ma quello del petitum sostanziale. Ad avviso della Plenaria, qualora il ricorrente avesse lamentato l’illegittimità del provvedimento emesso dalla Pubblica Amministrazione a seguito del giudicato per violazione del diritto oggettivo, avrebbe dovuto esperire contro di esso l’ordinaria azione di annullamento. Qualora, al contrario, avesse dedotto l’illegittimità del provvedimento adottato dalla pubblica amministrazione per contrasto del medesimo con quanto statuito dalla sentenza, avrebbe potuto esperire il rimedio dell’ottemperanza.

Successivamente, la legge n°15 del 2005 ha inserito nella legge 241 del 1990 l’articolo 21 septies che, per la prima volta ha previsto tra le cause di nullità del provvedimento amministrativo, la violazione e l’elusione del giudicato. Detta norma, dunque, ha confermato l’impostazione pretoria che rinveniva un’ipotesi di inottemperanza sia nel caso di elusione del giudicato. Tuttavia, riconducendo l’ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo per violazione o elusione del giudicato alla giurisdizione esclusiva del giudice ammmistrativo ha reso dubbia la possibilità, per quest’ultimo, di agire in sede di giurisdizione di merito. Si trattava di un problema di centrale rilievo in quanto escludere la giurisdizione di merito del giudice amministrativo avrebbe determinato la necessità di agire avverso il provvedimento posto in violazione o elusione del giudicato con un’ordinaria azione annullatoria. Il suddetto dubbio ermeneutico è stato risolto dal Codice del processo amministrativo che, all’articolo 114, comma 4, lett. b), espressamente riconosce al giudice che opera in sede di ottemperanza il potere di dichiarare nulli gli atti posti in essere in violazione o elusione del giudicato. Al contempo, riconduce l’ottemperanza nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e nella giurisdizione di merito del medesimo testo legislativo.

Nel giudizio di ottemperanza, tuttavia, può essere introdotta non solo l’azione di nullità di eventuali provvedimenti violativi o elusivi del giudicato. Come si ricava, infatti, dall’articolo 112 e dall’articolo 114 c.p.a. che elenca i poteri del giudice dell’esecuzione, il ricorrente, oltre all’azione di nullità del provvedimento violativi o elusivo del giudicato, può esperire un’azione di ottemperanza vera e propria con cui chiede l’attuazione del provvedimento passato in giudicato, come nel caso di inerzia amministrativa, un’azione di condanna al risarcimento del danno subito in conseguenza della mancata o inesatta esecuzione del giudicato, una richiesta di chiarimenti in ordine alle modalità di attuazione del giudicato( Cons. St. Ad. Plen.15.1.2013).

L’art. 55 del c.p.a.  non fa espressa menzione della prassi processuale che accompagna la sospensione nelle more di riesaminare il caso impugnato con l’ordine all’Amministrazione di riesaminare la situazione alla luce dei motivi del ricorso, né ci sono espliciti divieti pur sussistendo ragioni di opportunità per consentire alla P.A. di rideterminarsi formalmente per l’adozione di una nuova decisione rimettendo in gioco l’assetto di interessi definiti con l’impugnazione, la c.d. “remand” ovvero la tecnica di tutela cautelare che non pregiudica il risultato finale, ma può potare ad una pronuncia di estinzione della materia del contendere se a contenuto satisfattivo per il privato o per carenza di interesse sopravvenuta e pertanto improcedibile, ex TAR Lazio n°10245 del 27.7.2015.

Altra questione, dibattuta recentemente, che ha chiamato l’intervento del Consiglio di Stato, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, è stata verificare l’ammissibilità, per tutte le decisioni di condanna previste dal 113 c.p.a., della comminatoria delle penalità di mora e delle astreintes di cui all’art.114, comma 4, lett. e). Queste ultime costituiscono forme di coercizione indiretta all’adempimento tratte dai modelli giurisprudenziali dell’ordinamento francese  e si inquadrano in quello specifico ventaglio di strumenti di coartazione della volontà del debitore che si concretano nella minaccia di sanzioni civili o penali, al fine di costringerlo ad adempiere ai propri obblighi (Cons. St. n°15 del 25.6.2014).

Con la sequela delle decisioni della sez. V, nn°° 2340,2341, 2342, 2343, 2344 del 12.5.2015, il Consiglio di Stato ha fatto chiarezza tra i vari orientamenti giurisprudenziali in merito al momento iniziale di decorrenza della penalità di mora nel giudizio di ottemperanza.

L’importanza del momento iniziale è dato dal minore o maggiore esborso di risorse ad esso devolute. Secondo un primo orientamento l’esborso era dovuto dal momento della notifica dell’ottemperanza ex TAR Lazio sez. I bis, del 15.1.2015, invece per il TAR Lazio n°2664 del 21.1.2015 e n°2669 del 16.2.2015 la penalità si fa decorrere dal centoventesimo giorno successivo alla notifica del titolo in base all’art. 14 del d.d.l. n°69 del 1996.

 In realtà, come giustamente rilevato dal Cons. Giust. Amm. Sicilia il 23.6.2014 n°392,  le penalità di mora si configurano per il protrarsi dell’inottemperanza nonostante l’intervenuto accertamento e non per contrastarla. Altrimenti la P.A. perderebbe la sua funzione esclusiva di stimolo all’adempimento e sanzionatoria, per assumere una mera funzione risarcitoria, estranea al dettato legislativo e comunque il rimedio anticipato colliderebbe con la funzione di deterrenza rispetto all’inadempimento, essendo necessario che la penalità mantenga la sua veste di strumento coercitivo-sanzionatorio, qualora l’Amministrazione dimostri la pervicace volontà di non attuare il giudicato. Al riguardo è auspicabile una riformulazione del c.p.a. in moda da recepire le conclusioni delle citate decisioni.

Altra questione è quella concernente il termine finale di operatività del termine compulsorio, involgendo l’attività del commissario ad acta stante i residui margini di operatività dell’Amministrazione, ma la nomina, in realtà, preverrebbe a monte la possibilità che si verifichi un ulteriore ritardo ( TAR Veneto, sez. II, 23.3. 2015 n°337), nonostante si stato obiettato che l’effettivo ed integrale adempimento dell’obbligazione da parte della P.A. determini la cessazione della misura (TAR Sicilia, Palermo, sez. I, n°823 del 2.4.2015).

E’ da notare, al riguardo, che il Cons. St., sentenza n°4414 del 21 .9.2015 ha considerato fondato l’appello per cui le cc.dd. pene private, ex art. 114, co.4°, lett e) c.p.a., si possono applicare solo per inadempimento successivo al termine fissato dalla sentenza di ottemperanza, in quanto il legislatore ha già fornito al giudice dell’ottemperanza uno strumento per indurre l’Amministrazione indirettamente ad eseguire in modo tempestivo. Tale strumento non è ovviamente utilizzabile per gli adempimenti pregressi, produttivi di obbligazioni di natura risarcitoria.

Anche il TAR Lazio, sez. I, sentenza 19.2.2015 n°2847 ha ritenuto applicabile l’articolo citato per le obbligazioni dell’Amministrazione dando pieno ingresso alla risarcibilità del danno da ritardo con le astreintes; per cui è concedibile un termine di “tolleranza” di sei mesi dalla data in cui il titolo giudiziale è stato notificato nei confronti della P.A. in favore del creditore. Continua poi la sentenza affermando che può prendersi come parametro quello individuato dalla C.E.D.U. “dell’interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea… con l’aumento di tre punti percentuali”.

L’opportunità di ricorrere all’adozione di strumenti di coazione indiretta all’adempimento si impone in special modo nell’illecito a carattere permanente ed in presenza di un obbligo di fare infungibile. Infatti, qualora si tratti di una violazione a carattere istantaneo, il problema è semplicemente quello di risarcire il danno prodotto, secondo le regole generali di cui all’art. 2043 c.c., ma non si pone la necessità di evitarlo in futuro.

Al contrario, quando vi è una violazione del diritto a carattere permanente, la parte danneggiata, oltre al risarcimento del danno prodotto, ha interesse a far cessare il comportamento lesivo anche per il futuro e, a tal fine, può ricorrere al giudice al fine di ottenere una sentenza inibitoria alla reiterazione della condotta lesiva. L’esigenza è quella di indurre il debitore verso lo spontaneo adempimento, specie laddove l’ordine giudiziale impartito sia quello di non fare o si tratti di un obbligo di fare infungibile. In tal modo le astreintes tendono quindi a realizzare l’effettività del “giusto processo” che tale non sarebbe se la pronuncia restasse lettera morta, ineseguita e costituiscono diretta esplicazione del diritto fondamentale alla difesa, principio cardine della nostra costituzione e del diritto comunitario.

 La particolarità delle cc.dd. pene private consiste nel fatto che la somma ingiunta a titolo coercitivo indiretto non è determinata dal giudice in relazione al concreto danno subito dall’altro obbligato, ma è valutata in rapporto alla capacità patrimoniale dell’inadempiente ed, eventualmente, in base ad altri parametri come il suo grado di colpa. Ciò in quanto l’astreinte non è una forma riparatoria del danno, per cui ricadrebbe nel campo del risarcimento, bensì attua una funzione sanzionatoria per la mancata spontanea ottemperanza all’ordine del giudice e di coercizione indiretta affinché quella prestazione venga effettivamente adempiuta.

 La giurisprudenza francese, al riguardo, in pratica finiva per comminare astreites definitive in base all’entità del danno subito in considerazione dei problemi di legittimità e compatibilità con i principi di responsabilità civile. La Cassazione francese ha eliminato ogni dubbio stabilendo che non si trattava di una misura relativa al danno o alla prestazione, ma avente il precipuo scopo di far adempiere l’altro soggetto. Il nostro sistema di responsabilità civile, come quello francese, si basa sul principio riparatorio, infatti, non sanzionatorio, rimanendo quindi estranea all’esperienza nostrana l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile( ex multis Cassaz. sez. III, 19.1.2007 n°1183).

La finalità dell’istituto dei “punitive demages”, risiede nella volontà di dare una seria punizione al responsabile e di fungere da efficace deterrente nei confronti di altri potenziali trasgressori, nonché dello stesso autore dell’illecito che potrebbe reiterarlo. La figura del danno punitivo, negli ordinamenti in cui è invalso, viene generalmente ricollegato a chi si sia reso responsabile, con una condotta singola, del pregiudizio ad una pluralità di soggetti ed al fine di arginare ingiusti approfittamenti è di solito connotata dalla sussistenza di un limite per la condanna al risarcimento inflitta ( Federal Court of the District of New Jersey, 9.3.1989 in Foro it,1990, IV, 78). Dal punto di vista probatorio le astreintes, come i punitive demages costituiscono delle condanne punitive a carattere eccezionale in quanto risultano sganciate dal modello di illecito aquilano tipizzato dall’art. 2043 del c.c. e ricollegano un danno implicito “in re ipsa”, al di là della prova in concreto di una sua verificazione. Il danno sia in ambito contrattuale che extracontrattuale, è sempre un danno conseguenza, da allegare e provare, e non esiste un danno in re ipsa, dal momento che altrimenti si snatura la forma del risarcimento che verrebbe connesso quale pena privata per un comportamento lesivo senza un effettivo accertamento( Cassaz., S.U. n°26972 del 21.11.2008).

La Cassazione, ancor più recentemente, il 15.4. 2015 con sentenza n°7613 ha statuito che le astreintes non sono incompatibili con l’ordine pubblico italiano in quanto “il risarcimento del danno ed astreinte costituiscono tra loro misure diverse”, così come “il danno punitivo ha una funzione ed una struttura non coincidente con l’astreinte” poiché derivante dal provvedimento giudiziale e da adempiersi in futuro, correlandosi ad un obbligo posto all’interno della relazione diretta delle parti.

Molti dei dubbi circa la legittimità delle cc.dd. pene private si sono dissipati nel nostro ordinamento all’esito della riforma del 2009 con la legge n°69 che ha introdotto all’art 614 bis del c.p.c. uno specifico strumento a carattere generale per coartare la volontà del debitore e per indurlo ad adempiere al provvedimento di condanna di un obbligo di fare infungibile. Le astreintes, quindi, sono uno strumento eccezionale, in quanto deroga ai principi del nostro ordinamento vigente, ma comunque sono ammissibili in quanto espressamente previste dalla norma generale di riferimento che è appunto il 614 bis del c.p.c. Si tratta, pertanto, di uno strumento attivabile dal privato per il tramite di un provvedimento giurisdizionale, quale quello dell’ottemperanza per il giudice amministrativo, a garanzia dei propri diritti e come forma coattiva indiretta verso il loro rispetto.

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