IL DIRITTO VIVENTE COME ALLONTANAMENTO DALLA CORRETTA INTERPRETAZIONE
a cura dell’Avv. Salvatore Magra
In questa rubrica si tenterà di rendere concretamente utili anche disquisizioni astratte.
Il diritto non è solo meccanica ricostruzione di norme da statuizioni legislative, ma va perseguita la fondamentale direttiva per l’interprete, il quale deve “ricordarsi di sé”, vale a dire della sua identità, allorché si costruisce un percorso ermeneutico, sia pure procedente per approssimazioni successive.
Ricordare se stesso implica l’esigenza di non appiattire l’esegesi al già affermato, ma di inserire nel meccanismo, che costruisce l’interpretazione, una propria impronta, che consenta di decodificare la soggettività dell’interprete e le proprie emozioni, in un contesto, in cui, dall’affermazione della propria identità personale, può derivare l’individuazione nel plesso normativo di riferimento di profili, che la sensibilità di altri esegeti non hanno rilevato.
Il ricorso di sé nella struttura interpretativa implica l’ulteriore avvertimento, che consiste nel non debordare nel “mero arbitrio”, il quale peraltro, può anche essere di pertinenza del “diritto vivente”.
Spesso l’interpretazione prevalente mira a una lettura omologata delle disposizioni di legge, nel senso che s’invoca la funzione nomofilattica della Cassazione, per affermare e tener ferma una data esegesi.
Il diritto vivente inibisce la possibilità di riflettere sul dato normativo con la propria mente. Si parte dal postulato, secondo cui, come tendenza prioritaria, è necessario uniformarsi all’esegesi che prevale a proposito di un dato problema ermeneutico, con la conseguenza che viene bloccata in radice la creatività di colui che si accosta a una proposizione normativa o a un sistema di disposizioni.
Un siffatto processo di omologazione tende a rendere sintetica l’esegesi del dato normativo e incapsula l’energia vitale nell’operazione ermeneutica.
Una proposizione normativa spesso racchiude una struttura incompleta, nel senso che il messaggio, che l’estensore della disposizione ha inteso veicolare, non è esplicitato in modo compiuto; da ciò discende l’esigenza, in varie occasioni, di attingere ai lavori preparatori, per esaminare in modo compiuto quella che è l’intenzione del legislatore. La grammatica “trasformazionale”, mutuata dalla linguistica, può essere un valido ausilio, per penetrare ciò che è sottinteso nel precetto normativo. La struttura elementare di esso può nascondere contenuti più profondi e meno settoriali.
In ogni caso, un’esegesi, che si appiattisca sul c.d. “diritto vivente”, non consente o consente solo parzialmente di pervenire all’individuazione della struttura completa delle disposizioni, ossia di illuminare le zone d’ombra che si collocano all’interno delle medesime. Proprio il “diritto vivente” talora può essere fuorviante, nel senso che non consente di percepire l’esatta portata della struttura completa di una disciplina, in quanto si è appiattito sulla struttura incompleta di essa. E allora si verifica un paradosso solo apparente: infatti, il diritto “vivente” deborda nell’arbitrio, quando l’interpretazione non omologata può contenere un barlume di maggiore verità. Pertanto, non sempre l’interpretazione maggioritaria è quella più aderente al dato normativo o è tale da cogliere solo in parte la dinamica, che ha spinto alla costruzione del precetto normativo. L’uomo all’interno di una folla riflette di meno e tende a divenire partecipe dell’interpretazione maggioritaria, secondo le indicazioni, proprie della psicologia della folla.
Il “diritto vivente” può essere meccanico, “costruito in laboratorio” e contribuire al processo di omologazione, con la conseguente presenza di un’attività interpretativa non esauriente.
Talvolta l’interpretazione estemporanea, eventualmente anche del non addetto ai lavori, può raggiungere un grado di penetrazione maggior del plesso normativo da interpretare.
Proprio il “diritto vivente” può non aver individuato gli elementi, che connotano la struttura completa della disciplina, in quanto il medesimo si è concentrato solo su quanto appare a un primo esame e, quindi, è in parte rimasto legato alla superficie di questa normativa, con la conseguenza che la struttura completa è rimasta occulta e non percepita.
Il concetto di “intenzione del Legislatore” è di difficile lettura, in quanto può esservi un’intenzione consapevole, nel senso che gli estensori della disposizione sono esplicitamente orientati a dettare una disciplina con determinate caratteristiche e un’intenzione inconsapevole, vale a dire che determinate tendenze vengono automaticamente collegate a un determinato plesso normativo, in quanto gli estensori della disciplina si agganciano a degli “a priori”, che non riescono a decodificare o decodificano solo parzialmente, e impostano i criteri di elaborazione della normativa, sulla base di questi a priori.
Può trattarsi di presupposti che si danno per scontato, postulati indimostrati, la cui esistenza è talora avvertita solo in minima parte. Può trattarsi di “diktat”, derivanti dal proprio foro interno, che determinano l’esigenza di decodificare emozioni e sentimenti e di tradurre le medesime in un linguaggio normativamente comprensibile.