Il caso del matrimonio con patto di schiavitù

a cura dell’Avv.Federica Federici

  1. NATURA E CAUSA NEGOZIALE.
  2. FONTI NORMATIVE.
  3. Il consenso nei rapporti personali
  4. In particolare: IL CONSENSO NEI RAPPORTI CIVILI tra coniugi
  5. RESPONSABILITA’ CIVILE NEI RAPPORTI FAMILIARI
  6. Mancato adempimento delle prestazioni personali
  7. Clausola penale di natura patrimoniale
  8. CONCLUSIONI

 1. Natura e causa negoziale

Acquista rilievo nella presente disamina la distinzione tra negozi attributivi e negozi dispositivi, figure che unificano momenti logicamente dissociati, cioè l’accordo e l’effetto: nei negozi attributivi vi è una totale identificazione legata alla circostanza che il consenso si manifesta attraverso la dazione, nei negozi dispositivi l’identificazione è frutto di una fictio iuris  (il principio del consenso traslativo). I negozi di disposizione sono quelli che  dispongono un trasferimento, che avviene secondo il meccanismo di cui all’art. 1376 cod. civ. (es. i contratti di alienazione); i negozi di attribuzione sono quelli che realizzano direttamente il trasferimento (es. i contratti reali, sempre che abbiano ad oggetto il trasferimento della proprietà, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale o il trasferimento di un altro diritto).

Il principio traslativo trae la sua origine storica dal superamento della regola romanistica dell’investitura formale del diritto e trova significato nella ricomposizione della scissione tra titulus e modus adquirendi in nome della signoria della volontà.

La causa traslativa – e quindi gli scopi negoziali da ricercare affinchè un negozio possa generare effetti reali – comporta il dover spiegare perché lo schema do ut des venga assunto quale giustificazione principe dell’effetto reale o obbligatorio: è noto, infatti, che nei contratti a prestazioni corrispettive il difetto di equivalenza, almeno tendenziale, delle prestazioni e, a maggior ragione, il difetto tout court della pattuizione di un corrispettivo o comunque della ragione della prestazione prevista, comporta l’assoluta mancanza di causa del contratto.

Ci si deve chiedere pertanto se, in presenza di un accordo consensuale di schiavitù a tempo indeterminato – formalizzato peraltro come accordo prematrimoniale, la libertà negoziale sia davvero viziata e in che modo e il consenso dell’avente diritto sia affetto da illiceità o mancanza della causa originarie: in buona sostanza, si versa di fatto in un fenomeno di schiavitù soggettiva ed oggettiva? Possiamo considerare il diritto ceduto nel contratto da parte del coniuge un diritto disponibile (art. 1966, comma 2, cod. civ.)?

La recente giurisprudenza ha dato corpo ai caratteri differenziali delle singole condotte confluenti nella riduzione in stato di soggezione delle persone private di fatto delle libertà fondamentali, esclusa l’attribuzione categorica della schiavitù, oggi giuridicamente irriconoscibile in qualsiasi ordinamento. L’evento di riduzione o mantenimento di persone in stato di soggezione consiste normalmente nella privazione della libertà individuale cagionata con minaccia, violenza, inganno o profittando di una situazione di, inferiorità psichica o fisica o di necessità. Nel caso de quo tale scenario trae origine e si attua sulla base di un accordo consensuale, pertanto occorre qualificarlo sia dal punto di vista del negozio che come fenomeno.

Ma torniamo alla natura o meno traslativa di un negozio: quand’anche si volesse ammettere un negozio unilaterale ad effetti reali fuori dei casi previsti dalla legge, deve ritenersi che l’effetto traslativo non possa realizzarsi a seguito della sola manifestazione di volontà, non accompagnata da un atto reale (materiale o giuridico), poiché il principio del consenso traslativo postula un accordo tra due parti.

Invero, una disposizione traslativa unilaterale – fattispecie che più si avvicina a quella de quo – sembra da qualificarsi sempre come atto ad effetti obbligatori, precisamente come preliminare unilaterale o come promessa gratuita della prestazione di un bene (in questo caso il corpo del soggetto che si offre come schiavo nel matrimonio con patto di schiavitù appunto). Ma se si tratta di promessa siamo fuori dell’ambito dei negozi dispositivi, poiché l’atto non dispone il trasferimento di un bene, ma l’assunzione di un impegno e dunque, siamo fuori dall’ambito dei negozi traslativi, perchè oggetto del negozio è un obbligazione, anche se di dare (diversamente dalle vendite cd. obbligatorie, dove oggetto del negozio è pur sempre un trasferimento, la cui efficacia è però differita, sicché l’obbligo di dare è meramente strumentale). Solo ove si ritenesse tale atto integrare una diretta attribuzione è possibile riconoscervi un effetto reale, che rileverebbe  non per la volontà traslativa manifestata dal disponente quanto per l’immediatezza dell’attribuzione (si tratterebbe cioè non di negozio dispositivo, ma attributivo).

Strutturato come negozio di diretta attribuzione, l’ammissibilità di un atto traslativo unilaterale ci riporta alla figura della c.d. prestazione (ammissibile anche se personale?) autonoma (sganciata cioè dal rapporto fondamentale), peraltro confinata alle ipotesi di adempimento traslativo (in cui l’effetto reale avviene solvendi causa e dunque, avvicinandosi al modello dell’astrattezza),  di contratto reale (es. comodato gratuito) o di liberalità indiretta (qualora vi sia l’effetto traslativo immediato in favore del terzo: intestazione al figlio di beni acquistati con il denaro del padre). In realtà la dottrina non ritiene ammissibile un negozio unilaterale traslativo fuori dei casi previsti dalla legge. Attribuzioni unilaterali reali atipiche si configurano sempre come promesse o come negozi reali.

Nel caso dei rapporti familiari invero la ricorrenza di una obbligazione naturale involge la reciprocità delle attribuzioni quotidiane che trae la sua fonte nell’affidamento riposto dai partners in ordine alla stabilità di fatto della loro relazione affettiva, già riconoscibile come situazione stabile di vita quotidiana, secondo il canone solidaristico: si individua così l’esistenza di un dovere di natura morale e sociale che sorregge le attribuzioni spontaneamente effettuate e ne impedisce la ripetizione.[1]

Le attribuzioni reciproche si qualificano proprio come tali, evidenziando al contempo il limite della proporzionalità, implicita nello stesso istituto (alla stregua della coscienza sociale non è doveroso ciò che va al di là delle capacità dell’adempiente, o di quanto il beneficiario abbia ragionevolmente bisogno). Quindi alla questione preliminare circa la natura del negozio e  all’interrogativo circa la causa negoziale, si aggiunge ora un altro spunto di riflessione circa gli effetti del mancato adempimento del negozio stesso, a maggior ragione che si versa in un’ipotesi che si articola sia come obbligazione contrattuale che naturale (forma di debito senza responsabilità).

2. Fonti normative

Giova preliminarmente approfondire l’elemento consenso nei rapporti civili, in particolare tra coniugi, che nel caso de quo solleva problematiche ermeneutiche di quanto fin qui e anche in seguito esposto e ricordare che la libertà di determinare il contenuto di un accordo o di un negozio costituisce espressione della libertà negoziale all’interno del tipo (art. 1322, comma 1, cod. civ.). Essa, rappresenta il più intenso strumento di flessibilità del tipo, e si collega con la natura derogabile del contenuto legale. Ciò fa sì che non venga assoggettata, a differenza dalle manifestazioni di autonomia di cui al comma 2, al controllo interno di meritevolezza, ma solo a quello esterno di liceità  L’analisi della pattuizione, tuttavia, non è ridotta solo a quest’ultima fase. Infatti, perchè possa dirsi operativa la disposizione di cui al comma 1 invece di quella di cui al comma 2, occorre pur sempre accertare che la libertà delle parti non evada dal tipo, il che significa non alterare la struttura essenziale della fattispecie. Talvolta è il legislatore a prevedere variazioni interne al tipo (ad esempio i sottotipi della vendita), ma di regola questo è un compito dell’interprete.

Un primo immediato e semplicistico approccio evidenzia nel patto (pre)matrimoniale di con condizione di schiavitù concluso tra i coniugi un possibile oggetto illecito dell’accordo, se non l’ipotetico vizio di volontà da parte di uno dei due contraenti, o addirittura la mancanza di un elemento essenziale. Ergo, siamo in presenza di una libertà negoziale ipoteticamente viziata e di un consenso dell’avente diritto limitato dall’illiceità della causa, trattandosi di negozio che compromette lo status libertatis di un soggetto passivo dando ad un altro soggetto un potere di disposizione (quasi) totale?

Se, dunque, la volontà individuale, e con essa la autodeterminazione, non svolge un ruolo portante, o quanto meno esclusivo, nell’ambito dei rapporti patrimoniali, un tale ruolo non le può essere riconosciuto al di fuori di tali rapporti?

Dal punto di vista civilistico emblematica, a tal riguardo, la discussione che portò alla formulazione attuale dell’art. 5 cod. civ. L’originario testo dell’art. 6 del progetto del libro primo, rubricato “Diritti sul proprio corpo”, statuiva: “Gli atti di disposizione che importino un pregiudizio all’integrità del proprio corpo, sono permessi se non siano contrari alla legge o alla morale”. Tale enunciazione presentava, indubbiamente, una certa singolarità, venendo a formalizzare, in sintesi, il precetto per cui è permesso ciò che non è vietato.

La stesura definitiva dell’art. 5 cod. civ. ha ribaltato completamente l’impostazione del progetto. Rubricato Atti di disposizione del proprio corpo dispone che gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente alla integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, ordine pubblico e buon costume. Si disattende, pertanto, la convinzione, pur all’epoca autorevolmente sostenuta

La garanzia del bene offeso dall’atto nullo è tutta contenuta, anche, nel codice penale del 1930. Premesso che – art. 50 cod. pen.  – non è punibile chi lede un diritto con il consenso della persona che può validamente disporne, l’art. 575 cod. pen. , con il quale si apre il capo I Dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale, del titolo XII Dei delitti contro la persona, del cod. civ.; l’art. 579 cod. pen. , Omicidio del consenziente, che punisce chiunque cagiona la morte di un uomo con il consenso di lui.;  l’art. 580 cod. pen. , Istigazione o aiuto al suicidio, punisce chiunque determina, rafforza o agevola l’altrui suicidio…, dalla quale previsione apparirebbe, quanto meno, ardito sostenere la indifferenza dell’ordinamento rispetto al comportamento suicida; l’art. 582 cod. pen., Lesione personale, che punisce chiunque cagiona una lesione personale dalla quale deriva una malattia del corpo o della mente, con le aggravanti ex art. 583 cod. pen. se dal fatto deriva una malattia che mette in pericolo la vita … la perdita di un arto, ecc.; l’art. 593 cod. pen. , Omissione di soccorso, per il quale chiunque, trovando abbandonato … un minore o incapace … omette di darne immediato avviso …, è punito …; alla stessa pena soggiace chi, trovando … persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente …; la pena è raddoppiata se dal fatto deriva la morte.

Non può, d’altro canto, omettersi di ricordare che la Costituzione accoglie e fa propri i principi solidaristico e personalistico, da non confondere con l’individualismo liberale: all’art. 2 essa proclama che la Repubblica riconosce i diritti inviolabili, ma richiede anche l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; all’art. 3 statuisce che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale … davanti alla legge.

Ciò conferma che la dignità non può essere un concetto soggettivo, ma fondamento e ragione oggettiva del riconoscimento dei diritti.  Ma su questo torneremo più avanti.

L’art. 32 Cost. statuisce che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Siamo nel titolo II della Costituzione, dedicato ai rapporti etico-sociali.

In particolare, l’art. 23 Cost. sancisce il principio che la libertà personale (prestazione personale) o il patrimonio (prestazione patrimoniale) di un soggetto può essere limitato solo per superiori esigenze dell’intera collettività. Nella prassi tale norma ha immediata applicazione nel – e nella percezione generale un collegamento con il – sistema tributario legato a tasse, imposte e (con)tributi, per i quali tale norma rappresenta la riserva di legge circa il potere impositivo dello Stato nella parte in cui si parla di “prestazione patrimoniale”.

Quel che rileva ai fini della presente trattazione è la seconda tipologia di prestazione, su cui la norma pone una riserva di legge, quella “personale”, attività che si traduce sostanzialmente nell’esplicazione di energie fisiche e intellettuali che lo Stato, in base al principio di solidarietà economica e sociale di cui all’art. 2 Cost., può imporre d’autorità ai cittadini nell’interesse pubblico (si pensi al servizio militare, la nomina a giudice popolare, il gratuito patrocinio, le prestazioni obbligatorie dei medici, ecc.). Laddove sussiste un interesse generale, non sta al singolo la disponibilità di tale interesse, anche se relativo alla propria sfera giuridica, come, del resto, è ben dimostrato, nell’ambito dei rapporti prettamente patrimoniali, dagli artt. 1421 e 1423 cod. civ. Nel caso de quo siamo in presenza di prestazione non lecita (schiavitù), e non lecita fin dal momento della costituzione del rapporto.

Se la configurazione originaria dei delitti di cui agli artt. da 600 a 603 cod. pen.  mirava a tutelare la personalità individuale – intesa come risultante delle situazioni giuridiche soggettive proprie dello status libertatis – da ogni forma di dominio ed eteronomia, tale da ridurre la persona, da fine in sé a strumento di altrui interessi, comprimendone in maniera assoluta o relativa la libertà e la capacità di autodeterminazione, le novelle di cui alle l. n. 269 del 1998 e 228 del 2003 conferiscono – sotto diversi profili – maggiore pregnanza a questo fine di tutela. In particolare, la riformulazione da parte della l. n. 228 del 2003, degli artt. da 600 a 602 cod. pen.  – le uniche norme incriminatrici in tema di schiavitù, in seguito alla declaratoria di incostituzionalità del plagio, dai codificatori concepito come riconducibile alle ipotesi di schiavitù di fatto – nell’approntare una tutela ad ampio spettro allo status libertatis individuale, coniuga l’esigenza di conferire maggiore determinatezza alle fattispecie previgenti, adeguandole peraltro al mutato referente empirico-criminologico, con le istanze di alcuna recente giurisprudenza, volta ad estendere (sia pur oltre i limiti dell’interpretazione meramente estensiva) lo Schutzaspekt dell’art. 600 alla tutela della «libertà di autodeterminazione e di espressione della persona» dalla «manifestazione di supremazia, che può esprimersi anche con violenze e minacce attraverso le quali l’agente realizza la sottoposizione della vittima alla propria volontà, come se fosse un oggetto di proprietà».

La previgente fattispecie di cui all’art. 600, infatti, era incentrata sul binomio dei concetti di «schiavitù» e «condizioni analoghe», da integrare con rinvio recettizio alle definizioni di cui, rispettivamente, all’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926, ratificata con l. n. 1723 del 1928, ed all’art. 1, sez. I, della Convenzione Supplementare di Ginevra del 17 novembre 1956, ratificata con l. n. 1304 del 1957. Il concetto di schiavitù è stato inizialmente riferito, sulla scorta della relazione ministeriale, alla sola ipotesi – riferibile ad ordinamenti (oggi peraltro inesistenti) che riconoscano formalmente l’istituto schiavistico – di assoggettamento, giuridicamente valido, di un individuo ad un altro, in contrapposizione alla situazione, meramente fattuale, di «totale soggezione», di cui all’art. 603 cod. pen., dal legislatore storico riferito ad ipotesi di schiavitù di fatto. La declaratoria di incostituzionalità del plagio (sent. n. 96 del 1981) per difetto di determinatezza – conseguente peraltro ad un’interpretazione dell’art. 603 come riferibile ad ipotesi di soggezione, scil. «servaggio psichico» – ha indotto la giurisprudenza a ricomprendere nelle nozioni di «schiavitù» e «condizioni analoghe», di cui all’art. 600 cod. pen., anche le ipotesi di materiale soggezione, de facto, di una persona ad un’altra.

La schiavitù domestica si configura invero come fenomeno emergente di pervasiva soggezione e sfruttamento di persone, in quanto si sostanzia nell’esercizio su di una persona di «poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà», poteri costitutivi della servitus comprende peraltro forme di asservimento tali da realizzare nella vittima un assoggettamento continuativo (da cui il carattere necessariamente abituale della condotta costrittiva) ed una reificazione il cui disvalore equivale a quello dello status servitutis.

Se sul diritto alla salute, sulla disponibilità all’integrità fisica e sulla libertà ad autodeterminarsi è noto il dibattito dottrinale e giurisprudenziale (basti pensare ai casi come Wembly e Englaro, la problematica dei testimoni di Geova, le opposizioni alle vaccinazioni e ai trattamenti sanitari obbligatori, ecc.); se al dibattito sulla riscossione tributi e legittimità dell’azione impositiva dello Stato dottrina e giurisprudenza non sono rimaste estranee, quel che qui rileva per poter individuare natura e limiti della posizione soggettiva della moglie che ha acconsentito ad essere ridotta in schiavitù è che, negatasi la valenza di principio costituzionale al c.d. diritto di autodeterminazione, ci si deve domandare se analogo valore non possa essere attribuito ad una eterodeterminazione. E’ concepibile ed ipotizzabile un eteroconsenso?

Ad esempio, è legittimo e lecito prestare consenso alla propria uccisione?

Il consenso alla propria uccisione non esclude l’omicidio, sia pure con la pena ridotta di cui al comma 1 art. 579 cod. pen. , neanche allorché prestato da soggetto maggiore di età, la particolare condizione del minore ha indotto il legislatore a predisporre un sistema di rigida indisponibilità anche in relazione a situazioni certamente disponibili da parte di un maggiorenne.

Oppure in materia di reati sessuali e pedopornografia: che l’esplicazione della libertà sessuale non possa avvenire, in via surrogata, per il tramite di un consenso prestato da un rappresentante, è dimostrato dal fatto che il limite di quattordici anni viene elevato a sedici, quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato, o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza. Si viene, in tal modo, ad affermare la assoluta intangibilità della sfera sessuale del minore. Ciò significa che superata la maggiore età il consenso acquista un valore significativamente diverso tanto da legittimare una disponibilità meritevole di tutela da parte dell’ordinamento?

Al di là di queste speculazioni su principi e norme, è evidente come l’elemento del consenso sia oggettivamente e soggettivamente la chiave di lettura ed interpretazione del fatto di cui si sta trattando.

Consenso come necessario? Allorché deve esserci una possibilità di scelta?

E tale possibilità deve essere legittimata ex ante o legittimabile da parte dell’ordinamento?

3. Il consenso nei rapporti personali

Il consenso nel diritto civile rappresenta un accordo circa il contenuto di un contratto che di regola si presuma concluso allorché le parti lo abbiano espresso sugli elementi essenziali di questo, anche se può essere tacito o desunto da facta concludentia.

 

Lo stesso codice civile prevede all’art. 1325 tra i requisiti del contratto l’accordo, elemento dinamico (volontà che nel contratto diventa consenso e quindi accordo) che ne condiziona la validità: non basta la sua sussistenza, esso deve essere non viziato e proveniente da persone capaci di agire. Il consensualismo del mondo giuridico moderno si oppone al formalismo e legittima un contratto sulla base del mero consenso liberamente prestato. La volontà rilevante è quella comune in cui si fondono proposta ed accettazione di un accordo (piena, incondizionata e conforme) che devono essere correlate e dirette allo stesso fine.

4. In particolare: IL CONSENSO NEI RAPPORTI CIVILI tra coniugi

La famiglia è un ente collettivo che mal si adatta ad una definizione univoca ed immutabile.. Gli anni ’60 e ’70 sono stati anni di rivoluzioni, politiche e sociali, che hanno stravolto, tra i tanti aspetti, anche i rapporti endofamiliari, tanto che ormai non è ammissibile imputare al gruppo familiare un interesse incompatibile con quello del singolo componente.

In questo sistema complesso, in cui si confrontano individui, si imputano responsabilità e si distribuiscono mansioni, le variabili che interagiscono tra loro sono molteplici: tra la soggezione, la violenza – psicologica e fisica – e la dipendenza economica esiste una stretta relazione e i confini della violenza domestica difficili da individuare ed accertare: il caso dei coniugi padovani ne è la diretta ed attuale conferma[2].

Appare comunque evidente che, le condizioni di vita domestica, impediscano di dare rilievo a ogni tipo di comportamento, anche di minima efficacia lesiva. Questi ultimi sono infatti suscettibili di trovare una loro definizione all’interno della famiglia, in forza dello spirito di comprensione e tolleranza che è parte del dovere di reciproca assistenza.

Il concetto di famiglia come comunità e luogo dove si intrecciano diritti ed obblighi derivanti dal matrimonio insieme con i vincoli di responsabilità e solidarietà tra i membri si configura come sede di autorealizzazione e di crescita, segnata dal reciproco rispetto ed immune a ogni tipo di distinzione di ruoli. In tale contesto la dignità di ogni congiunto assume i connotati di un diritto inviolabile come ampia risulta l’autonomia negoziale già analizzata in precedenza: il nostro ordinamento mostra infatti un favor verso il liberismo contrattuale da assumere come regola prevalente (nonostante si innesti in un rapporto giuridico il cui essenziale fondamento non è patrimoniale, e nonostante che dovrebbe, comunque, fare i conti proprio con la valorizzazione della persona secondo il dettato primario ex art. 2 Cost.).

Il matrimonio-atto rileva infatti come negozio giuridico, il matrimonio-rapporto che si instaura sulla base di tale negozio, rileva come vincolo personale e patrimoniale. I doveri nascenti da questo vincolo sono sia giuridici che morali e le violazioni di tali obblighi comportano lesioni di diritti e interessi di rango costituzionale, la cui illiceità rileva – come si vedrà in seguito – anche ex art. 2043 cod. civ. in quanto danni ingiusti e come tali risarcibili non solo a titolo di responsabilità contrattuale.

Sussistono ampi spazi per l’autonomia negoziale dei futuri coniugi, dei coniugi o degli ex coniugi , ai quali appare garantita comunque una sfera rilevantissima di disponibilità pattizia. E’ evidente l’accresciuta importanza dell’elemento consensualistico, non solo nella fase fisiologica del vincolo coniugale, ma anche in quella patologica ultima (scioglimento e cessazione degli effetti civili); anzi, la sistemazione concordata tra gli ex coniugi dei rapporti , salvo il limite indicato, non è soltanto ammessa, ma addirittura favorita, proprio per quella interdipendenza funzionale e procedimentale tra gli accordi economici in parola e la perdita dello status coniugale, in quanto sono proprio gli accordi in sede divorzile a rendere possibile un divorzio rispettoso dell’autonomia della famiglia e della libertà individuale dei suoi componenti.

Quanto alla libertà di contrarre (artt. 1343, 1344 e 1345 cod. civ.) la questione da porsi diviene, sotto questo aspetto: è superabile – e in che modo – l’ordinario limite dei contratti privi del carattere della patrimonialità e soprattutto della indisponibilità della sfera di libertà e dei diritti della persona garantiti ai singoli ed incoercibili in via di principio? Si pensi non solo alla fattispecie del quo, ma all’assunzione di un’obbligazione di fedeltà personale o di intrattenere con una certa frequenza rapporti sessuali, fatta oggetto di una pattuizione contrattuale avente una qualche controprestazione patrimoniale, ovvero alla fissazione della durata temporale della convivenza, ovvero alla rinuncia alla propria libertà di far cessare il rapporto, ovvero alla previsione di una clausola penale, di una condizione od una prestazione sostanzialmente coercitiva per una tale evenienza di intollerabilità sopravvenuta, ovvero che regoli il procreare figli.

In ogni caso una riflessione imprescindibile riguarda la nullità delle intese prematrimoniali sostenuta anche dalla recente giurisprudenza per l’asserito condizionamento che le stesse eserciterebbero sul comportamento delle parti nell’eventuale giudizio di divorzio e per l’asserito commercio dello status di coniuge. La stessa Cassazione in materia di accordi preventivi su altri significativi mutamenti di status, costituiti dalla separazione personale e dall’annullamento del matrimonio, sottolinea la volontà del nostro ordinamento diretta a sollecitare il soggetto, all’atto del matrimonio, a «costruire» le proprie prospettive matrimoniali attraverso la stipulazione delle convenzioni (pre)matrimoniali più idonee alla tutela dei suoi interessi in relazione alle circostanze e alle esigenze di vita, stabilendo espressamente che le convenzioni matrimoniali possano essere stipulate in ogni tempo (art. 162, comma 3, c.c).  Volendo approfondire, lo stesso codice civile, espressamente configura (cfr. art. 785 c.c.) il matrimonio (e dunque un fatto, per definizione, strettamente attinente alla vita personale oltre che costitutivo di uno status familiae) alla stregua di una condizione sospensiva delle attribuzioni patrimoniali gratuite effettuate (si badi: anche l’un l’altro dai promessi sposi) in vista della celebrazione delle nozze. Chiaro richiamo, questo, alla validità di clausole «premiali» legate ad un comportamento personale di una delle parti, sulla scia, del resto, di un’antichissima tradizione, risalente al diritto romano. Ci si chiede se e in che modo sia cosa diversa dedurre ad oggetto del sinallagma negoziale l’impegno a tenere (o a non tenere) un comportamento personale.

Proprio con riguardo alla “purezza” della volontà matrimoniale, che non potrebbe subire alcuna compressione, essendo salvaguardata la assoluta libertà del soggetto in ordine alla celebrazione del matrimonio, si è osservato che l’ordinamento consente che il soggetto si “induca” al matrimonio attraverso motivazioni di ordine patrimoniale le quali, pur non essendo determinanti del consenso, indubbiamente lo orientano e lo sorreggono. Anzi, l’ordinamento sembra addirittura volere che il soggetto all’atto del matrimonio “costruisca” le sue prospettive matrimoniali attraverso la stipulazione delle convenzioni (pre)matrimoniali più idonee alla tutela dei suoi interessi in relazione alle circostanze e alle esigenze di vita.

Si tratta in realtà di capire se e in che misura l’ordinamento tuteli la libertà delle parti nelle loro determinazioni concernenti gli status o comunque gli aspetti indisponibili dei rapporti umani in quanto attinenti alla sfera delle relazioni personali e sessuali, con riferimento ai condizionamenti d’ordine economico che esse possono subire nelle proprie decisioni. È noto che la tutela della libertà delle determinazioni dei soggetti nella sfera personale e sessuale è rimessa dall’ordinamento alla sanzione della nullità della causa per violazione dell’ordine pubblico o del buon costume. Peraltro la nullità consegue sempre al fatto che l’aspetto personale sia portato dai soggetti a costituire parte integrante della causa (“io mi impegno a darti cento e tu ti impegni, in cambio, ad essere mia schiava”): esso deve essere, cioè, preso direttamente in considerazione dalle parti come oggetto di un preciso obbligo che queste (errando, ovviamente) vorrebbero come giuridicamente vincolante e quindi processualmente azionabile.

In realtà la dottrina più autorevole ammette che un comportamento umano non deducibile in obbligazione possa essere dedotto in condizione e che tra siffatti comportamenti umani ben possa rientrare anche la volontà di assumere uno status.[3]

Nel caso de quo è innegabile che il matrimonio contratto con un patto di schiavitù possa essere considerato invalido sia sotto il profilo della nullità (violazione dell’interesse pubblico) che dell’annullabilità (vizi della volontà – violazione della formazione di un consenso libero e consapevole), ma in entrambi i casi si devono operare forzature ermeneutiche trattandosi nel primo vizio di sfera familiare e privata e personalissima, nel secondo vizio una violazione tutta da provare, in quanto l’elencazione codicistica sui vizi della volontà di cui all’art. 122 cod. civ. è tutta da provare (anche alla luce delle considerazioni sul consenso testè argomentate).

5. Responsabilita’ civile nei rapporti familiari

Per questa ragione agli illeciti tra familiari viene riconosciuta la natura di illeciti «ordinari» che non sono immuni alla disciplina generale che obbliga chiunque commetta un fatto contra legem, che cagiona ad altri un pregiudizio, a risarcirne le conseguenze negative. Nonostante l’orientamento altalenante dei giudici supremi, appare infatti opinione consolidata l’applicazione delle norme sulla responsabilità civile anche nei rapporti endofamiliari. La responsabilità risarcitoria nell’ambito delle relazioni familiari si è posta all’attenzione degli operatori dopo che alcune pronunce di merito, in seguito alla violazione di doveri familiari, hanno riconosciuto, oltre alla separazione con addebito anche il risarcimento del danno extracontrattuale.[4]

Tale ricostruzione – volta a superare il precedente orientamento che, nell’ambito delle relazioni familiari, configurava una sorta di “immunità”, circa le conseguenze della violazione dei doveri coniugali – ha ricevuto un definitivo riconoscimento da parte della S.C., prima con la pronuncia del 10 maggio 2005, n. 9801, poi con il recente arresto del 15 settembre 2011, n. 18853. Al contempo, lo stesso legislatore non è rimasto insensibile al c.d. illecito endofamiliare, a conferma di una sostanziale privatizzazione delle relazioni familiari e di un conseguente processo di valorizzazione della sfera individuale dei singoli componenti del nucleo familiare.[5]

Al fine di riparare le conseguenze negative, provocate dalla condotta illecita di un coniuge, nella sfera di interessi dell’altro si deve escludere che l’assegno di separazione e di divorzio possa svolgere una funzione risarcitoria, per i danni cagionati da un coniuge nei confronti dell’altro. Anche la tutela penale potrebbe non essere in grado di proteggere il coniuge, in quanto l’art. 570 c.p. – riguardante la violazione degli obblighi di assistenza familiare – si riferisce soltanto alla violazione del dovere di assistenza economica o morale, con esclusione delle violazioni di altro genere. Allo stesso modo, l’art. 572 c.p. – riguardante il reato di maltrattamenti in famiglia – richiede una pluralità di atti lesivi dell’integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, legati tra loro dal vincolo dell’abitualità, nonché da un elemento psicologico unitario e programmatico [6]Ne deriva che anche l’art. 572 c.p. si presenta spesso inadeguato alla tutela del coniuge, i cui diritti siano lesi dal comportamento prevaricatore dell’altro, in aperta e manifesta violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, con la conseguenza che la responsabilità penale, in questo ambito, rappresenta una forma di tutela per il danneggiato che solo raramente viene intrapresa e che solo di rado conduce a risultati soddisfacenti per la vittima.

Già nel 1975, poco dopo l’entrata in vigore della legge di riforma del diritto di famiglia, la Suprema Corte si era pronunciata sulla possibilità per un congiunto di agire per il risarcimento del danno patrimoniale, in caso di illeciti commessi tra familiari. La Cassazione aveva intuito che il binomio danno patrimoniale e danno morale, tradizionalmente inteso, lasciava insoddisfatta una parte consistente delle legittime pretese individuali. La Corte individuò, pertanto, l’interesse pregiudicato in un diritto fondamentale della persona umana, collocato al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti, stabilendo che la lesione di un bene posto al vertice della scala dei valori costituzionali, doveva trovare ristoro, indipendentemente dai profili patrimoniali della perdita subita. La Cassazione apriva le porte al risarcimento del danno esistenziale, consentendo che la tutela della persona si allargasse a tutti i suoi aspetti, patrimoniali e morali.

La Corte Suprema prima e la Consulta hanno fornito una nuova lettura del danno non patrimoniale che fuoriesce dall’ambito applicativo dell’art. 2043 cod. civ. e trova la sua collocazione nell’art. 2059 cod. civ. La risarcibilità del danno non patrimoniale risulta ormai «disancorata» dall’originaria sinergia con la pecunia doloris, per approdare ad una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. Il nuovo art. 2059 cod. civ. perde il suo connotato originario, poiché ciò che ora assume rilievo è il riferimento alla lesione uomo, inteso nella sua dimensione fisica, morale ed esistenziale.

Nella liquidazione del danno non patrimoniale conseguente ad un illecito endofamiliare è tenuto spesso in considerazione l’elemento soggettivo del dolo in capo al responsabile. E’ evidente, infatti, che se viene riscontrata una condotta caratterizzata dal dolo o dalla colpa grave, il giudice valuta non solo il pregiudizio subito dal danneggiato ma anche l’entità dell’elemento soggettivo che contraddistingue la condotta dell’agente. E’ ipotizzabile un dolo originario nel contrarre le nozze sub condicio di schiavitù da parte del soggetto che schiavizza?

Quel che sorge infatti come dubbio nella fattispecie dei coniugi padovani è che l’elemento soggettivo del dolo (generico) richiesto dalla fattispecie di reato ex art. 600 cod. pen. prevede una condotta violenta, minacciosa, abusiva, mentre lo stato di soggezione nel caso de quo ha natura negoziale ergo consensuale.

 

6. Mancato adempimento DELLE prestazioni personali

Il problema di cui ci occupiamo solleva l’ulteriore interrogativo circa l’individuazione della disciplina applicabile ai rapporti tra familiari, e soprattutto, sulle norme a presidio delle dinamiche endofamiliari configurabili violente[7]. Tuttavia è ormai pacifico che gli obblighi che nascono dal rapporto di coniugio ovvero di filiazione sono obblighi di natura giuridica e non solo morale

Accertata la giuridicità dei rapporti tra familiari e la natura rimediale degli strumenti a tutela delle pretese dei singoli componenti, si pone una seconda questione: siffatti rimedi sono gli unici che un familiare può azionare a garanzia dei propri diritti ovvero, a fronte di una violenza commessa da un altro convivente, è comunque possibile esperire i rimedi tradizionali, in aggiunta piuttosto che in sostituzione di quelli speciali? Dal tenore letterale delle norme non sembra sussistano ostacoli ad ammettere un cumulo di azioni. In primo luogo, viene in risalto l’art. 2043 cod. civ. che, in ragione del suo carattere di atipicità, non impedisce di ipotizzare un’azione di tipo risarcitorio, anche nelle ipotesi di illeciti intrafamiliari. Accanto alla responsabilità extracontrattuale si configura quella contrattuale ex art. 1218 cod. civ., in quanto non si dimentichi che esiste un accordo consensuale tra le parti.

Una condanna per danni potrebbe quindi avere l’effetto di risarcire due volte lo stesso pregiudizio, facendo coincidere il danno risarcibile, con la diminuzione di natura patrimoniale, conseguenza immediata e diretta dell’illecito. Le recenti evoluzioni ermeneutiche in tema di responsabilità tuttavia evidenziano come il danno giuridicamente rilevante che il partner ferito subisce non si limiti alle (pur innegabili) ristrettezze del patrimonio, ma comprende le lesioni degli interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica (28)

(28) Facci, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., 92.

Ammettere un’azione risarcitoria tra coniugi non significa accordare tutela ad un bene superfamiliare in quanto tale: la ratio della responsabilità civile in famiglia è infatti la persona in quanto tale, e non un interesse superindividuale o superfamiliare, ovvero un interesse che sia in qualche modo riconducibile allo status di coniuge o di familiare. Secondo la dottrina più accreditata, in effetti, deve ritenersi superata la visione dell’interesse della famiglia come destinato a prevalere sull’interesse del singolo.

Partendo dal principio di atipicità di contenuto di tutela della persona umana, anche la dottrina meno recente aveva intuito quale fosse il ruolo accordato dall’ordinamento all’istituto familiare: nella gerarchia dei valori costituzionali, non esiste solo una delle situazioni soggettive esistenziali e personali rispetto alle situazioni patrimoniali, ma anche una chiara funzionalizzazione degli istituti dell’iniziativa economica privata e della proprietà rispetto alle esigenze della persona umana. Non è logico, pertanto, porre sullo stesso piano la persona e la famiglia, quale formazione sociale di cui all’art. 2 Cost.: la famiglia è lo strumento di realizzazione dell’individuo, non un bene rispetto al quale, nella gerarchia dei valori costituzionali, il singolo dovrà rinunciare, a fronte di gravi illeciti, alla tutela primaria della persona in quanto tale.

Anzi, la tutela del danneggiato, anche per quanto riguarda gli aspetti civilistici, non deve risultare più limitata di quella prevista per ogni consociato. Lo status di familiare non deve comportare una riduzione ed una limitazione delle prerogative della persona, ma semmai un aggravamento delle conseguenze a carico del responsabile. Vi è anche chi ha attribuito al contrario una netta prevalenza ai diritti dei componenti la famiglia (Santoro Passarelli).

Anche laddove e se venisse accertata l’illiceità dell’accordo bisogna domandarsi se il solo diritto di famiglia, come sopra definito, sia capace di individuare, a titolo di responsabilità, un costo per chi commette l’illecito.

Le questioni che giustificano il mancato automatismo violazione – responsabilità – risarcimento danni si articolano su molteplici livelli:

– possono, in linea di principio, essere riconosciuti all’istituto della responsabilità civile spazi di operatività in zona “endo-familiare”? Ovvero, si può ammettere che un congiunto possa, ove ne sussistano i presupposti, far valere contro un altro congiunto (oltre agli strumenti tipici che sono previsti nel primo libro del codice civile, o magari indipendentemente dall’attivazione degli stessi) un’azione di risarcimento del danno?

– una prospettiva riparatoria ex lege Aquilia è plausibile e giustificata anche fra soggetti quali il marito e la moglie? In particolare, nell’ambito delle violazioni degli obblighi di cui all’art. 143 cod. civ., oltreché, più ampiamente, con riguardo alla lesione di altri tipi di diritti soggettivi, assoluti o relativi, sul terreno patrimoniale come non patrimoniale?

– nel valutare il risarcimento del danno subito dal familiare offeso il giudice deve operare scelte diverse? Ed integrare il libro primo del codice civile e le leggi speciali con regole che, apparentemente, non sono dedicate ai rapporti tra familiari?

– quando, a quali condizioni ed entro che limiti – se si risponde affermativamente alle prime due domande – una condanna risarcitoria fra coniugi sarà di fatto e in concreto possibile?

A valle di tali interrogativi ci si deve poi chiedere se la semplice rottura, in sede civile, dell’unione tra familiari è di per sé sufficiente a soddisfare le esigenze di chi ha subito una violenza, e quindi un danno, anche se di natura non patrimoniale? La separazione, il divorzio, la decadenza dalla potestà genitoriale, sono capaci di rispondere ad ogni genere di lesione di interessi giuridicamente tutelati in ambito familiare? In un caso come quello che stiamo analizzando dove non vi è rottura in fase di accordo, anzi l’accordo vede il consenso di entrambi i coniugi, semplicemente viene impugnato a seguito di una rottura del matrimonio come una qualsivoglia clausola convenzionale, siamo in presenza di interessi giuridicamente tutelati in ambito familiare? Nell’illecito endofamiliare, il risarcimento del danno non patrimoniale è sempre stato collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona tutelati dalla Costituzione.[8]

E’ necessario, comunque, che – ai fini del risarcimento – siano allegate e provate le conseguenze negative determinate dalla lesione dei suddetti diritti: non si è in presenza di un danno in re ipsa, il quale snaturerebbe la funzione del risarcimento, in quanto verrebbe concesso, non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma “quale pena privata per un comportamento lesivo“. Con riguardo agli illeciti compiuti da un coniuge ai danni dell’altro, il risarcimento del danno non patrimoniale è stato accordato, sulla base della lesione di uno specifico diritto inviolabile del coniuge danneggiato.[9]

7. Clausola Penale di natura patrimoniale

Nel caso del quo un immediato collegamento si opera con la clausola penale, e con la disposizione, riflettente un principio di carattere certamente più generale, desumibile dall’art. 79 cod. civ. Ma la clausola penale, proprio perché patto accessorio e strumento di garanzia per l’adempimento di un’obbligazione, presuppone appunto l’esistenza di un impegno giuridicamente vincolante a tenere quel certo comportamento (positivo o negativo),
rafforzandone il vincolo.

La sussistenza di tale impegno – anche laddove non formalmente enunciato dai contraenti – potrebbe proprio essere dedotta dal carattere “eccessivo” (secondo una valutazione da farsi caso per caso) della prestazione patrimoniale (o anche personale?) promessa sotto la condizione che quel determinato evento si verifichi (o meno).Si potrebbe ipotizzare – una volta ammessa la possibilità anche per la prestazione personale – che in caso di inadempimento tra i coniugi si applichi il meccanismo della clausola penale, la cui funzione è discussa: sanzionatoria, quale pena privata o autonomo negozio volto a disciplinare le conseguenze del fatto illecito contrattuale o extracontrattuale (si obbietta che in tale ipotesi l’obbligazione risarcitoria venga novata in una negoziale) o riparatoria, quale liquidazione preventiva del danno da inadempimento (tanto che opera un divieto di cumulo della penale alla prestazione principale e l’onere di provare la colpa del debitore).

In linea generale vi è da interrogarsi sulla validità di clausole «premiali» legate ad un comportamento personale di una delle parti, sulla scia, del resto, di un’antichissima tradizione, risalente al diritto romano. Siffatte clausole non sembrano in grado di suscitare obiezioni, posto che con esse l’esecuzione della prestazione di carattere personale oltre a riguardare obbligazioni lecite (quali ad es. la prosecuzione della convivenza more uxorio oltre un certo limite temporale, la celebrazione delle nozze, la prosecuzione della convivenza matrimoniale, la prestazione del consenso per il divorzio su domanda congiunta, ecc.), non viene “garantita” dalla presenza di una forma di coazione giuridica o dalla assicurazione del pagamento di una penale da parte del soggetto eventualmente inadempiente, ma viene piuttosto incoraggiata mediante la promessa di un premio da parte di colui che ha interesse a che il beneficiario tenga quel certo comportamento, secondo una regola che non sembra sconosciuta neppure al diritto romano: «Titio centum relicta sunt ita, ut Maeviam uxorem, quae viduam est, ducat: conditio non remittetur; et ideo nec cautio remittenda est. Huic sententiae non refgragatur, quod si quis pecuniam promittat, si Maeviam uxorem non ducat, Praetor actionem denegat: aliud est enim eligendi matrimonii poenae metu libertatem auferri, aliud ad matrimonium certa lege invitari» (D. 35, 1, 71, 1).[10]

CONCLUSIONI

A fronte di quanto fin qui argomentato sembra doversi trovare una via di contemperamento tra un danno da autolesione da un lato e dall’altro la legittima aspettativa di un danno da inadempimento in presenza di accertato e documentato consenso delle parti obbligate, seppur nell’ambito di rapporti familiari che investono aspetti non (solo ed esclusivamente e preminentemente) patrimoniali.

Una parte della dottrina infatti riconosce ai negozi matrimoniali natura di accordi bilaterali, personali dalla natura non patrimoniali anche se riguardanti aspetti economici della vita familiare e che impegnano i coniugi congiuntamente, altra parte nega valore giuridico a tali negozi, se non addirittura la necessità che vengano stipulati insistendo sulla mera e semplice comunanza di intenti. A giudizio di chi scrive una possibile chiave ermeneutica potrebbe ricavarsi dalla funzione data all’esercizio congiunto di tali rapporti, inquadrandola in una – per così dire – discrezionalità vincolata.

Inquadrata la natura e la possibile causa del negozio, ancorata normativamente a dettati non totalmente aderenti al caso de quo tanto da dover spingere l’interprete ad operazioni di un certo rilievo, analizzato il meccanismo del consenso tra coniugi e tentando di applicare il precipitato logico di tutto questo percorso ad istituti come la responsabilità da inadempimento e clausola penale, risulta evidente infatti che aderendo ad una visione costituzionalmente orientata la presente disamina sarebbe dovuta arrestarsi alla totale nullità dell’accordo, mentre aderendo ad una visione garantista delle posizione individuali dei singoli si è potuto – quanto meno – tentare di applicare istituti e meccanismo privatistici ad un negozio di dubbia legittimità.

 

 



[1]Balestra, Le obbligazioni naturali, in Trattato dir. civ. comm., Cicu-Messineo-Mengoni continuato da Schlesinger, XLVIII, Milano, 2004; Ciocia, L’obbligazione naturale, in Dir. priv. Oggi, a cura di Cendon, Milano, 2000; Giorgianni, L’obbligazione, Milano, 1968, 116.

[2] In ambito penale la violenza fisica trova quasi sempre un suo referente normativo: per far fronte ai reati contro la persona si applica, di volta in volta, il reato di percosse (art. 581 c.p.), lesione personale (art. 582 c.p.), violenza privata (art. 610), violenza di domicilio (art. 614 c.p.), maltrattamenti (art. 572 c.p.). La violenza sessuale è sanzionata dalla l. 15 febbraio 1996, n. 66 – Norme sulla violenza sessuale – e dalla l. 3 agosto 1998, n. 269 – Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù. Al di là di queste ipotesi risulta più difficile fronteggiare e scoraggiare le altre modalità di commissione di violenza domestica, quale quella economica e psicologica. Rispetto a queste ultime il diritto è ancora incapace di dare una risposta ferma e decisa. La violenza economica può essere scoraggiata attraverso l’applicazione dell’art. 570 c.p., che sanziona la violazione degli obblighi di assistenza familiare, ed ha un ambito operativo limitato alla previsione ex comma 2 n. 2: ossia limitatamente all’ipotesi di chi «abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie si sottrae [ai proprio obblighi e […]] fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa». La violenza psicologica, al di là delle ipotesi di ingiuria (art. 594 c.p.) e minaccia (art. 612 c.p.), può essere combattuta in sede penale con il ricorso al delitto di maltrattamenti, ex art. 572 c.p. Cfr. Virgilio, Violenza in ambito domestico e familiare, in Revista Penal, 2002, 212.

[3] Sacco, Il contratto, Torino, 1975, 497 s., il quale porta l’esempio della promessa di una somma di denaro da un soggetto all’altro a condizione che quest’ultimo scriva un’opera letteraria; Jemolo, Il matrimonio, in Tratt. Vassalli, Torino, 1950, 54, secondo cui la volontà di assumere uno status è “suscettibile di essere eretta a condizione di altro negozio giuridico”, anche se inidonea a “formare a sé oggetto di negozio”.

[4] Trib. Firenze, 13 giugno 2000, in Danno e resp., 2001, 741; Trib. Milano, 4 giugno 2002, in Giur. it., 2002, 2290; Trib. Trento, 22 giugno 2007, in La responsabilità civile, 2009, 378; Trib. Brescia, 14 ottobre 2006; Trib. Reggio Calabria, 23 novembre 2007; Trib. Lodi, 16 aprile 2007, in Fam. e min., 2007, f. X, 88; Trib. Firenze, 23 marzo 2006, in Dir. fam., 2007, 1659; Trib. Venezia 14 maggio 2009, 2009, 1147).

[5] Ad es. la norma di cui all’art. 709 ter c.p.c. – introdotta con la l. 8 febbraio 2006, n. 54, in tema di affidamento condiviso dei figli – ha attribuito al giudice – in caso di gravi inadempienze o di atti che arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento – la possibilità di disporre il risarcimento dei danni a carico del genitore inadempiente nei confronti del minore, oppure nei confronti dell’altro genitore.

[6] Cass. pen., sez. I, 18 agosto 2004, n. 34522; Cass. pen. sez. VI, 2 maggio 2000, n. 9414, in Studium Juris, 2001, 222; Cass. pen., sez. VI, 4 marzo 1996, n. 4015, in Giust. pen., 1997, II, 245; al riguardo, Cass. pen., sez. VI, 1 febbraio 1999, n. 3580, in Giust. pen., 2000, II, 313.

[7] La questione della normativa applicabile è ormai da anni al centro di un acceso confronto dottrinario e giurisprudenziale. Il dibattito oscilla tra coloro che, attribuendo al libro primo del codice civile natura di legge speciale, escludono l’applicabilità di norme «esterne» al medesimo; e coloro che invece riconoscono al codice civile, nella sua sistematicità e complessità, la natura di fonte normativa dei rapporti tra familiari. Al riguardo si può sostenere che l’organicità tipica di una codificazione, lascia supporre che, le regole che governano i rapporti (interprivati) tra i membri di una famiglia, comprendano anche gli articoli del codice, contenuti nei libri successi al primo.

 

[8] Così, ad esempio, nell’ipotesi di violazione dei doveri nascenti dal rapporto di filiazione è stata individuata una lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio al mantenimento, all’educazione od all’istruzione e, pertanto, di diritti costituzionalmente inviolabili della persona, protetti dagli artt. 2, 29 e 30 Cost. (Cass., 7 giugno 2000, n. 7713; Trib. Venezia, 30 giugno 2004,  2005, 297; Trib. Messina 31 agosto 2009).

[9] Particolarmente significativa, in proposito, è la sentenza di legittimità della S.C. n. 9801 del 2005, la quale – nell’affermare la responsabilità di un coniuge per aver volontariamente omesso di comunicare alla futura sposa, prima del matrimonio, la propria incapacità coeundi – ha espressamente collegato l’illecito endofamiliare alla violazione di diritti inviolabili del coniuge danneggiato, individuandoli nella “violazione della persona umana intesa nella sua totalità, nella sua libertà-dignità, nella sua autonoma determinazione al matrimonio, nelle sue aspettative di armonica vita sessuale, nei suoi progetti di maternità, nella sua fiducia in una vita coniugale fondata sulla comunità, sulla solidarietà e sulla piena esplicazione delle proprie potenzialità nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela risiede negli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost.”. Altrettanto importanti sono le pronunce in tema di c.d. mobbing familiare (Trib. Milano, 4 giugno 2002; App. Torino, 21 febbraio 2000; App. Roma, 14 giugno 2011), rispetto alle quali è facilmente individuabile la lesione di diritti fondamentali della persona, quali, ad esempio, la dignità, l’onore, la reputazione e la salute fisica e psichica; la lesione di diritti inviolabili è ravvisabile anche nel precedente, relativo al danno subito dal coniuge, determinatosi a costituire il vincolo matrimoniale, solo perché indotto in errore dalla convenuta, circa la propria responsabilità in ordine alla gravidanza della stessa (App. Milano, 12 aprile 2006).

 

[10] Cfr. Franzoni, I contratti tra conviventi more uxorio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, 749 s.; in senso decisamente adesivo v. Ruggiero, Gli accordi prematrimoniali, Napoli, 2005, 157 ss. Per ulteriori approfondimenti cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, 197 s.; Id., Partnerverträge in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des italienischen Rechts, cit., 7. V. inoltre Id., La promessa di matrimonio tra passato e presente, Padova, 1996, 99.

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