Commento alla ordinanza del Tribunale di Milano, R.G. n. 64207/2015
Nella vasta e complessa materia della tutela degli immigrati nel nostro Paese, divenuta sempre più attuale per le note vicende migratorie degli ultimi anni, è intervenuta una recentissima decisione del Tribunale di Milano che, con ordinanza decisoria del procedimento n. 64207/2015 R.G. del 31 marzo 2016 ha fornito una innovativa interpretazione del principio della protezione dello straniero per motivi umanitari, fondata sulla tutela del diritto alla salute e all’alimentazione ovvero, in linea generale, del diritto a una esistenza dignitosa.
Il caso esaminato dal Tribunale riguardava la posizione di un soggetto rientrante nella fattispecie del cd. “migrante economico” (tale intendendosi la posizione di un individuo che lascia il proprio paese volontariamente alla ricerca di una vita economicamente migliore), il quale, proveniente dal Gambia, notoriamente tra i paesi più piccoli e poveri dell’Africa, appena giunto nel nostro paese avanzava domanda di protezione internazionale, dichiarando di essere un militante politico nel partito di opposizione UDP e di rischiare di conseguenza l’arresto in caso di reimpatrio.
L’istanza, tuttavia, veniva respinta dalla Commissione Territoriale per carenza del presupposto dei motivi politici, non emergendo, a suo parere, il fondato timore che il ricorrente potesse subire – tornando nel proprio paese d’origine – una persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione o appartenenza ad un determinato gruppo politico; infatti, in sede di audizione, non aveva saputo indicare neppure la data di elezione del Presidente, circostanza che aveva indotto a dubitare significativamente della sua effettiva militanza politica.
La Commissione aveva ritenuto insussistenti altresì gli elementi giustificativi dell’ulteriore requisito dell’effettivo rischio di subire un grave danno, tale da legittimare il riconoscimento della protezione sussidiaria, anch’essa oggetto di espressa richiesta da parte del ricorrente.
Il Tribunale, su tali fattispecie, confermava la decisione della Pubblica Amministrazione, dichiarando la domanda inammissibile per genericità dello status di rifugiato oltreché infondata, non ritenendo la sua posizione riconducibile alle categorie esposte a violenze, torture o altre forme di trattamento inumano quali gli oppositori di regime o soggetti percepiti come tali (attivisti politici, giornalisti, minoranze etniche, religiose e persone LGBT).
Tuttavia il Tribunale decideva di analizzare altre motivazioni in ordine alla sussistenza di gravi presupposti di carattere umanitario.
Al fine di comprendere la portata innovativa della decisione, è opportuno un preliminare excursus in ordine alla legislazione in materia.
La definizione dello status di rifugiato è stata introdotta con l’art. 1, lett. a), della Convenzione di Ginevra del 1951, secondo cui è tale “chi temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.
L’Italia ha dato attuazione alla Convenzione di Ginevra nel 1954, confermando in tal modo la tutela del diritto d’asilo prevista nell’art. 10, comma 3 della Costituzione, secondo cui “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
L’asilo politico è dunque un istituto giuridico sancito, in primis, dalla Carta Costituzionale e confermato dal diritto internazionale, a tutela delle persone perseguitate nei propri paesi di origine.
Se l’individuo trova rifugio presso una rappresentanza diplomatica si parla di asilo diplomatico, mentre se trova rifugio nel territorio di una altro Stato sovrano si tratta di asilo territoriale.
I motivi per richiedere l’asilo politico sono i seguenti:
– Razza: colore della pelle, discendenza o appartenenza ad un determinato gruppo etnico;
– Religione: convinzioni ateiste, partecipazione a riti di culto, forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esse prescritte;
– Nazionalità: cittadinanza o anche, più semplicemente, appartenenza ad un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica, origini geografiche o politiche;
– Particolare gruppo sociale: caratteristica innata o storia comune dei membri del gruppo;
– Opinione politica: professione di un’opinione, un pensiero o una convinzione su una questione inerente ai potenziali persecutori e alle loro politiche o ai loro metodi.
A sua volta i soggetti cd “persecutori” dello straniero sono:
– Lo Stato;
– I partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato;
– Soggetti non appartenenti allo Stato qualora, però, questo si rifiuti di fornire protezione contro persecuzioni o danno gravi.
Gli atti di persecuzione che possono giustificare il rilascio dell’asilo politico devono essere tali da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali e possono consistere in atti di violenza fisica o psichica o sessuale, provvedimenti legislativi, amministrativi discriminatori per loro stessa natura, rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici o atti diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia.
In tali casi il rifugiato gode della cosiddetta protezione internazionale, che può essere riconosciuta anche ad un apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale.
Tuttavia qualora il richiedente non possedesse i suesposti requisiti ha diritto, comunque, ad una protezione sussidiaria, nel caso in cui sussistano fondati motivi di ritenere che, se tornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, nel paese nel quale aveva dimora abituale, correrebbe un rischio di subire un grave danno.
A tal fine sono da considerare danni gravi:
– La condanna a morte;
– La tortura o altra forma di pena o trattamento inumano;
– La minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Per quanto riguarda i minori non accompagnati, i sistemi di protezione tengono conto della Convenzione sui diritti del fanciullo attuando il principio del “miglior interesse del minore”, mentre particolare tutela è riservata alle donne vittime di violenza equiparate ai rifugiati, secondo la definizione della Convenzione di Ginevra del 1951.
Nel 2014 lo Stato italiano, con il decreto legislativo 21 febbraio 2014 n. 18, ha recepito la direttiva 2011/95/UE, introducendo “uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta”.
Per entrambe le figure è previsto il seguente trattamento: a) il permesso di soggiorno ha validità di 5 anni ed è rinnovabile a condizione che il titolare della protezione sussidiaria dimostri la persistenza delle cause che ne hanno consentito il rilascio; b) può esser rilasciato un titolo di viaggio per potersi recare all’estero; c) è consentito l’accesso all’occupazione, all’istruzione e all’assistenza sanitaria e sociale (assegno di invalidità civile, di accompagnamento, di maternità) al pari dei cittadini italiani; d) è consentito fare richiesta di ricongiungimento familiare (art. 29 bis D.lgs 286/98) senza dimostrare i requisiti di alloggio e di reddito richiesti per gli altri cittadini stranieri.
Il rifugiato, inoltre, può chiedere la cittadinanza italiana dopo 5 anni di residenza in Italia, vedendosi i tempi per la richiesta per naturalizzazione dimezzati.
Entrambi gli status sono riconosciuti all’esito di un istruttoria effettuata dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale dello Stato di primo ingresso, che diviene competente ad esaminare la domanda (Regolamento di Dublino II). La commissione territoriale può riconoscere, dunque, una forma di protezione internazionale o protezione sussidiaria, non riconoscere alcuna forma di protezione, rigettare la domanda per infondatezza o per inammissibilità, oppure può chiedere alla Questura il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione umanitaria, qualora sussistano gravi motivi umanitari.
In base agli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali (Convenzione Europea dei diritti umani) l’Italia è obbligata a riconoscere quest’ultimo status con riferimento alle conseguenze che subirebbe lo straniero nel caso di rimpatrio. La condizione di vulnerabilità, di povertà, la presenza di catastrofi naturali del paese d’origine dello straniero o la violazione dei diritti umani sono presupposti sufficienti per la protezione umanitaria.
La compromissione del diritto alla salute e del diritto all’alimentazione comporta gravi situazione di vulnerabilità, violando quindi i diritti inalienabili dell’individuo, appartenenti all’uomo in quanto tale, dal momento che derivano dall’affermazione del più universale diritto alla vita ed all’integrità fisica.
Sulla scia di tali ultimi principi è stata emessa la rivoluzionaria ordinanza del Tribunale di Milano.
Come anticipato, il Giudice ha riconosciuto la protezione umanitaria al cittadino del Gambia dando rilevanza al suo diritto a vivere dignitosamente.
Le motivazioni che hanno portato a tale decisione hanno riguardato le gravi condizioni socio-economiche in cui versa il paese di provenienza del richiedente asilo.
Il Gambia è un paese di diffusa povertà e di limitato accesso ai più elementari diritti inviolabili della persona per la maggior parte della popolazione; gran parte della sua economia si basa sugli aiuti internazionali e presenta un elevatissimo tasso di disoccupazione che spinge tanti abitanti ad emigrare. La maggior parte della popolazione povera del paese (tre quarti della popolazione) è composta da contadini e agricoltori che hanno visto, negli ultimi anni, la loro situazione peggiorare a causa della crisi economica globale e dell’aumento dei prezzi del cibo e del carburante, non riuscendo dunque a ricavare un reddito sufficiente a mantenere un livello di vita dignitoso dalla sola attività agricola. Inoltre per tale fetta della popolazione, esiste una “stagione della fame” che dura ogni anno da due a quattro mesi tra luglio e settembre, quando le scorte alimentari sono basse.
L’aspettativa di vita è di 59.4 anni (in Italia 82), il Pil pro capite è di 1.600 dollari (in Italia 35 mila).
Tenendo conto dei dati sopracitati, il richiedente, giunto nel nostro paese, è stato ritenuto titolare del diritto ad accedere alla protezione umanitaria, in base agli impegni internazionali e costituzionali, questi ultimi garantiti dagli art. 2 e 32 della Cost. (cfr. Cass. Sentenza n. 22111/2014).
Gli impegni internazionali e costituzionali derivano dalla seguente normativa:
– Art. 32 Cost.: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”, prendendo in considerazione la definizione di salute data dalla Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e cioè uno stato di completo benessere fisico, mentale, sociale e non soltanto assenza di malattie o infermità.
– Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, art. 25: “ Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”.
– Patti Internazionali di New York del 1966, ratificati in Italia con legge n. 881/1977 art 11: “Gli Stati parte del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, che includa un’alimentazione, un vestiario ed un alloggio adeguati, nonché al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita. Gli Stati parte prenderanno misure idonee ad assicurare l’attuazione di questo diritto e riconoscono a tal fine l’importanza essenziale della cooperazione internazionale, basata sul libero consenso”.
Il Tribunale ha fatto altresì riferimento al Preambolo dei Patti internazionali: “in conformità alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, l’ideale dell’essere umano libero, che goda della libertà dal timore e dalla miseria, può essere conseguito soltanto se vengono create condizioni le quali permettano ad ognuno di godere dei propri diritti economici, sociali e culturali […]; lo Statuto delle Nazioni Unite impone agli Stati l’obbligo di promuovere il rispetto e l’osservanza universale dei diritti e delle libertà dell’uomo […]; l’individuo, in quanto ha dei doveri verso gli altri e verso la collettività alla quale appartiene, è tenuto a sforzarsi di promuovere e di rispettare i diritti riconosciuti nel presente Patto”.
E tutto ciò non può che mettersi in atto mediante il riconoscimento della protezione umanitaria.
Il Tribunale ha altresì preso in considerazione l’eventualità che la propria decisione possa considerarsi un’apertura indiscriminata a tutti i migranti economici, concludendo il provvedimento sottolineando che “il riconoscimento di un diritto fondamentale non può dipendere dal numero di soggetti cui quel diritto viene riconosciuto. Per sua natura, un diritto universale non può essere a numero chiuso”.
Il punto che fa la differenza, quindi, è la condizione di vulnerabilità più volte citata nell’ordinanza, su cui si decide il respingimento o meno lasciando, pertanto, spazio alla discrezionalità di un giudizio in base alla storia personale di ognuno.