Dott. Michelangelo Di Stefano – Avv. Mara Ferraro
Il dramma globale di questa pandemia sta mettendo in discussione le fondamenta dell’interazione sociale su cui si sono fissati, nella letteratura moderna, i principi scientifici socio comunicativi e, in particolare, la “prossemica” e la “faccia”.
Il primo concetto si deve agli studi di Edward Hall, il precursore degli studi sulla semiologia dello spazio, che ne descrisse i contenuti in uno scritto inossidabile, dal titolo raffinato: “la dimensione nascosta”.
Partendo da questa base scientifica sui segni verbali, Hall avrebbe sviscerato “la prossemica”, in ogni suo dettaglio percettivo, illustrando la base chimica su cui si basa, accanto agli spazi uditici e visivi, anche l’olfatto.
La percezione olfattiva, ad esempio, spiegava “gioca un ruolo eminente nella vita araba: costituisce non solo uno dei meccanismi mediante cui viene stabilita la distanza dall’altro, ma addirittura un fulcro vitale di tutto il sistema di comportamento. Gli arabi respirano sempre in faccia all’interlocutore; e questa abitudine non è soltanto dovuta ad un diverso galateo; ma discende dal fatto che essi apprezzano i buoni odori altrui, e li considerano utili a stabilire un rapporto più coinvolgente […]. L’uomo occidentale ha combinato il tipi di attività e di relazioni consultive e sociali in un unico campo di distanza, e ha aggiunto il personaggio pubblico e la relazione pubblica. Le relazioni e i comportamenti pubblici come vengono praticati da europei e americani sono differenti da quelli di altre parti del mondo […]. Quindi, noi abbiamo quattro categorie principali di tipi di relazione (intima, personale, sociale e pubblica) e le attività e gli spazi corrispondenti. In altre parti del mondo i tipi di relazione tendono a cadere in altri schemi, come per esempio lo schema famiglia-non famiglia, usuale in Spagna, Portogallo e nelle loro ex colonie, o il sistema indiano basato sulla contrapposizione casta-fuori casta”.
Nel rileggere oggi, con il senno del COVID 19, queste affascinanti riflessioni desta sgomento comprendere che, in un certo qual modo, quei concetti di distanza sociale, chissà per quanto tempo, rimarranno carta logora negli scaffali delle biblioteche.
Ma Hall era andato oltre, introducendo quegli altri indicatori di relazione, che trovano esplicazione nel suo “linguaggio silenzioso” fatto di contenuti paraverbali all’interno di una conversazione.
Il punto di partenza nelle relazioni è la “faccia”, cioè quel qualcosa che ci viene concesso e che, vicendevolmente, determina un nostro input di risposta, di adesione, individuando una caratteristica della “solidarietà” o del “potere” rappresentati dalla faccia e, conseguentemente, dal “contatto” (l’intensità del calore umano) espresso attraverso il comportamento osservabile del soggetto.
Si tratta di temi che anche Erving Goffman avrebbe esplicitato con i suoi “giochi di faccia” e nella “fatica” di concedere la faccia; con lui anche Richard Hudson avrebbe descritto la “teoria della faccia”, attraverso cui “otteniamo ( e concediamo) faccia di solidarietà per mezzo del contatto fisico (toccando, accarezzando e così via), e le manifestazioni di intimità nell’ambito della famiglia o tra amanti non sono che un’espressione estrema di approvazione […]. D’altro canto, la prossimità fisica a un’altra persona è anche un’intrusione nel suo territorio personale e una minaccia alla sua faccia di potere. Ciò che si rende necessario è un delicatissimo atto di equilibrio: se siamo troppo vicini risultiamo invadenti; se troppo lontani, freddi […]. Un altro tipo di comportamento non verbale molto importante per il potere-solidarietà ( e per altri sentimenti di rilievo al livello sociale) è tutto quello che facciamo con la faccia (stavolta nel senso letterale nel termine!). Noi forniamo segnali sociali con la bocca (sorridendo, mostrando ripulsa), con gli occhi (contatto di occhi) e con le sopracciglia (corrugandole, mostrando sorpresa). Questi segnali sono di particolare interesse e importanza perché alcuni di essi sembrano essere universali (come Darwin affermò un centinai odi anni fa) […]”.
Sconcertante, allora, assumere la consapevolezza che tutti quegli indicatori di relazione sociocomunicativa presi a modello dalla comunità scientifica internazionale siano, di punto in bianco, scomparsi per via delle distanze e di quelle protezioni alle vie respiratorie che, gioco forza, rubano quel calore: una illustrazione che, ormai, possiamo descrivere solo con una emoticon stampigliata su una mascherina.
Alle riflessioni dei sociolinguisti vanno, adesso, aggiunte quelle dei sociologi che, invano, hanno cercato di indurci alla riflessione sull’erosione del principio di universalità dell’uomo, dovuta al processo di globalizzazione in antitesi a quelle realtà minori, c.d. “glocali” ma che, lo stiamo vedendo in questi giorni, stanno, di fatto, espandendosi a macchia d’olio con un terrificante effetto domino globale.
Rileggere, adesso, il commento di Umberto Eco a quel saggio sulla “società liquida” di Zigmunt Bauman, fa accapponare la pelle e ci induce alla riflessione se, ancora, abbiamo voglia di sentirci società, piuttosto che individuo: “Con la crisi del concetto di comunità –spiega Eco – emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo soggettivismo ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo”.
Il concetto di bulimia, andando al tema centrale di questa pacata riflessione, è quel malvezzo, sempre più in uso nello scenario governativo e nella linguistica politica geo-globale fatto di critiche e di “bastian contrari”, tenendo sempre lontano, dalla focale, il bene della comunità tutta.
Dopo le festività natalizie, ancora accecati dal nostro consumismo, guardavamo in TV la questione “glocale” di Huan, con superficialità, in alcuni casi con scherno e con atteggiamento razzista di distacco.
In quello scenario, dalla nostra classe politica – senza distinzione alcuna di casacca – sono arrivati solo “segnali” di squallide pantomime ove tutto era il contrario di tutto; con l’aggravante che, in quella assordante “torre di Babele”, abbia fatto di contorno anche una irriguardosa e mediocre “comunità scientifica” a braccetto della “politica” di bandiera.
Proclami sul “si tratta di una semplice influenza”, sul bisogno di considerare “l’immunità di gregge” e dei numeri della conta, fino alla delirante e recidiva rassicurazione che “le mascherine non servono a chi non è infetto”: una spettacolarizzazione della comunicazione incosciente e strafottente che, di lì a poco, avrebbe determinato una ecatombe.
L’Italia, con tutti i suoi difetti, ha però assunto delle iniziative, di certo criticabili sul piano giuridico, di tempestività, di esaustività o di ciò che si voglia tra mille e mille polemiche.
Sta di fatto che la popolazione, TUTTA, ha aderito senza disquisire sul fatto che un atto di alta amministrazione potesse, o meno, collidere con le fonti primarie della nostra amata e martoriata Carta, e TUTTI abbiamo aderito all’esigenza uti cives di salvaguardare il futuro dell’umanità.
La cosa che rattrista e induce allo smarrimento è, però, la palpabile considerazione che la classe politica seduta agli scranni del nostro (non del loro) Parlamento non ha alcun rispetto verso l’elettorato attivo che, suo malgrado, la ha fatta accomodare su quelle preziose poltrone, assistendo sistematicamente a una vomitevole accozzaglia di insultatori di turno, scarica barile, e “segni verbali” di bassa lega.
Il distinguo è che, nella scenografia bulimica della politica, la faccia (questa volta senza la mascherina) palesata dagli attori non è mai quella della “solidiarietà”, bensì quella del “potere”, fatta di isterismi, dilettantismi e mancanze, deliranti, di soluzioni di continuità.
Dall’altra parte dello schermo – perché la modalità prossemica ci ha portato adesso, toto mundo, non più e non solo alle dinamiche di interazione virtuale attraverso gli smartphone, ma allo zapping televisivo nella speranza di una parola di conforto – NOI siamo rimasti inermi a cercare il barlume di una buona notizia, di una prospettiva, di un “messaggio”, di un “segno” che ci indicasse la via per uscire da questa assurda situazione, per poi assistere, ancora, allo spettacolo nell’arena degli stolti.
La mancanza di coesione e l’ostentazione dell’egoismo istituzionale a tutto tondo, che si respira anche e, soprattutto, in uno scenario geopolitico comunitario e globale, non fa altro che irrigidire ancor di più le nostre aspettative verso il politichese, trovandoci a rileggere, ancora una volta, dopo la parentesi del terrorismo, quella sapiente riflessione di Karl Popper su “la società aperta e i suoi nemici”.
Un nuovo, ennesimo, “world disorder”, avrebbe ricordatoci Ken Jowitt, che ancora, però, non ci lascia comprendere la reale vastità del disagio sociale: siamo ancora troppo presi dalle nostre comode e lussuose smart home, e la chiusura dentro un recinto virtuale non riesce – ciò nonostante – a farci comprendere che una buona metà della popolazione mondiale vive senza un tetto, non ha acqua corrente e non ha cibo, non ha gambe o braccia portate via da una guerra capitalistica senza Dio e senza bandiere ma, a dispetto di noi, ha fede.
Noi, spesso, a torto li definiamo tribali, perché le loro divinità, forse, non sono aggraziate e pompose come quelle che con superficialità ossequiamo nei nostri templi religiosi quando ci agghindiamo nelle feste comandate; ma, a differenza nostra, quelle comunità che con disprezzo definiamo “da terzo mondo”, hanno la ricchezza della speranza: l’aspettativa di un futuro e del sovrannaturale che li aiuterà, anche se scalzi e con un tetto di canne.
Ma in questo momento di smarrimento, dove anche quei “segni” sacri sembrano disorientati, abbiamo ritrovato, attraverso la forza della multimedialità, quell’icona che il Papa buono ci aveva regalato attraverso “la fontana al centro del villaggio”; ecco, allora, che per mano di un Pastore alla guida di un gregge smarrito, quella piazza deserta, come d’incanto, ritorna pulsante in tutta la sua austera maestosità, ricca di contenuti forti: una scena fatta di ultimi, di emarginati, di educatori e di quanti, in questa guerra senza volto, stanno combattendo in una trincea fatta di amore, compassione e di sacrificio estremo.
Che a Napoli – senza voler fare torto al Nord come al Sud – vi sia un “paniere” nei vicoli dei quartieri con scritto “chi non ha, prenda, chi ha, metta”, non dovrebbe essere una eccezione, ma la regola della nostra comunità civile, se così pretendiamo di continuare a definirla.
Eppure, il “segno” più importante che abbiamo visto e che forse mai metabolizzeremo, è quella fila interminabile di camion verde cachi con dentro i nostri Cari, senza un volto e senza un nome, in partenza per chissà dove e senza il futuro della memoria.
Così come quelle fosse comuni nella capitale della modernità, una grande mela ormai marcia dentro e fuori; una megalopoli non troppo distante da noi, non troppo diversa da quella degli altri nostri fratelli di Huan.
E, allora, accanto a questa mesta e silenziosa cerimonia del “distacco” non può trovare riscontro quella statistica nuda e cruda, snocciolata a suon di numeri (e mai di nomi, salvo che si tratti di “scienziati” di contorno) alla sera, nella conferenza di routine a reti unificate.
E, allo stesso qual modo, non si riesce a comprendere la logica di quel commiato di Stato, uti singuli, nel rispetto di quella stessa morte che non può – e non deve – trovare in sé, proprio malgrado, anche quella metafora della “livella” di Antonio De Curtis.
E’ inqualificabile e intollerabile trovarsi, per caso, a leggere trafiletti riportati in sordina a fondo pagina di emendamenti che, quando si sono riaperte finalmente le porte del nostro (non del loro) Senato, plaudono a una norma emendatrice per le catene gerarchiche che non hanno dotato i loro “figli” al fronte di dispositivi individuali di protezione;
non è etico, non è serio, e non è accettabile, nel rispetto di tutte quelle donne e quegli uomini che hanno ripetuto a memoria, ancora una volta mentre erano intubati nella loro agonia senza affetti e senza una sepoltura, quel dovere di Ippocrate che li aveva portati a scegliere l’altro, piuttosto che se stessi;
non è morale ed è disumano, nel rispetto di tutte quelle donne e uomini che hanno prestato fedeltà alle Istituzioni scolpite in quella Carta e che, a mani nude, continuano a difendere, tenendo fermi i puntelli di quella “casa di tutti” che Giorgio La Pira stenterebbe oggi a riconoscere.
Non è una guerra quella che stiamo combattendo. E non lo è per svariati motivi: in guerra non si arriva al cibo, noi invece facciamo la fila al supermercato, ma l’approvvigionamento non manca e in quelle situazioni dove mancano le risorse economiche, arrivano le opere di carità.
In guerra conosco il nemico e posso concludere il conflitto stilando un trattato di pace, un patto di non belligeranza, sulla base delle reciproche volontà. Qui il nemico non lo conosciamo e non possiamo dialogarci.
Stiamo chiusi in casa sì, ma in guerra (quanto meno in quelle forme di guerra che l’umanità ha sempre combattuto) la casa viene spesso rasa al suolo dalle bombe.
In guerra si ha paura, noi invece siamo dominati dall’angoscia, poiché abbiamo perso tutti i riferimenti ordinari e consueti del vivere, come i bambini che stanno al buio della stanza.
In un colpo solo, questa minuscola catena di RNA, ci ha fatto ritornare ad una dimensione di necessità, propria delle cose della natura. Siamo chiamati dunque a rimanere immobili per conservare la specie, confinati per la pura sopravvivenza biologica.
Natura vs tecnica, l’eterno conflitto, dove il primo termine è immensamente più forte del secondo e lo stiamo comprendendo bene.
Fino a qualche settimana fa, un Prometeo scatenato ci consegnava l’immagine di un mondo, dove l’uomo, nel suo delirio di onnipotenza e nella vana illusione di poter dominare sugli uccelli del cielo e sui pesci del mare, erodeva la terra e la sua stessa umanità.
Una “società liquida” che di liquido ha ben poco. L’uomo nasce estremamente liquido, libero poiché non codificato da istinti.
Nella sua indeterminatezza è in preda a pochi basilari impulsi, come ha ben affermato Martin Heidegger, ha dovuto crearsi degli istinti artificiali, delle risposte rigide al uno stimolo, che sono le regole, gli apparati, e in questa ottica la tecnica – come spinta ad ottenere il massimo risultato col minimo sforzo, trasformando l’ambiente circostante – la fa da padrona.
Col tempo si è passati dallo spirito contemplativo verso il mondo al fine di comprenderne le leggi, tipico della visione greca, all’osservazione scientifica, tesa a manipolare, essendo essa la branca principale della tecnica.
E la tecnica oggi ha superato l’uomo, divenuto funzionario di apparati economici, che gli impongono un grado di efficienza sempre maggiore e dai quali non si può sganciare.
Dunque, non siamo liberi e non siamo “liquidi”. L’umanità non ha mai percorso binari così determinati e schemi di vita così rigidi.
L’incertezza sull’ informazione e la velocità con cui mutano e si relativizzano certi parametri sociali, non sono altro che un effetto voluto del sistema rigidissimo sopra evidenziato.
Una sorta di “disordine” su spinta nichilista, dove tutti i vecchi principi e parametri sembrano saltati, ma non se ne formano di nuovi.
Dobbiamo prendere spunto dal forzato lockdown, dalla frenata ai ritmi brutali di vita, che creavano sviluppo ma non progresso, per dirla come Pasolini, per ristabilire un ordine più umano delle cose, riscoprire quel “gnóti sautón, katametrón (conosci te stesso, realizza il tuo demone, secondo misura, dove la misura è la mortalità) e per compiere un lavoro interiore che male non fa: non si può viver una vita a propria insaputa!
Non siamo in guerra, ma siamo in uno stato di emergenza e una dichiarazione formale di questo tipo avrebbe dovuto imporre, senza dubbio, allo Stato di apprestare tutti i mezzi necessari per affrontare questa emergenza, pur in presenza di un invasore sconosciuto.
Procedere con il passo del viandante è utile solo se si ha una strategia precisa di intervento e si aggiusta il tiro man mano che la situazione di evolve, secondo le sue incognite.
In questo hanno fallito anche i più bravi della classe. Nello stato di emergenza è anche importante abbassare il grado di polemica. Fare opposizione politica, quando il Paese sta affrontando una situazione assolutamente eccezionale, è a dir poco scellerato e squallido.
Occorre dare risposte certe e univoche, fare fronte comune per offrire soluzioni. Ma, parliamo di un’altra Italia e, a quanto pare, di un altro Mondo.
Quando avremo ricominciato a vivere, dovremo trovare il modo di organizzare la vita secondo etica e democrazia e, perché no, porre come termini dell’etica la felicità e la bellezza.
E forse non abbiamo altra scelta, diversamente stiamo solo preparando la nostra rovina.
Il nostro futuro, ci domandiamo adesso, quale sarà: già ci eravamo fatti un’idea rileggendo le proiezioni di Marshall Mc Luhan allorquando, nel 1964, scrivendo “Understanding media”, avrebbe ipotizzato che i media non sarebbero stati solo un messaggio e che, di lì a poco, avrebbero assunto la funzione di “massaggio”, una sorta di “extensions of man” nel caos del “villaggio globale”.
Una ragnatela, quella che qualche decennio dopo Tim Bernees Lee avrebbe architettato virtualmente, che ha avuto il pregio di erodere le barriere e costruire le comunità, uno slogan che i cyber antropologi, come Elizabeth Mc Reid, si sforzano di diffondere nell’electropolis: “ deconstructing the boundaries, constructing communities”.
Ma il nostro futuro, purtroppo, sarebbe stato sagacemente disegnato qualche tempo più avanti da George Orwell, in una “fattoria degli animali” chiassosa e pasticciona, non tanto dissimile dall’arena pubblica della politica di oggi; un passo indietro, fino al 1984, dove quel Big Brother è adesso pronto, a suon di “App” istituzionalizzata, a violentare le nostre libertà e il nostro lavoro, che di “agile” e di “smart” avrà soltanto il controllo predatorio.
Starà a NOI decidere; starà a NOI consentire che la nostra amata ITALIA sia descritta, nel silenzio assordante della politica, come uno spaghetto a forma di cappio.
In questi giorni abbiamo sentito più volte ripetere uno stupido –disdicevole – aforisma di Sir Winston Churchill (quello stesso statista che, troppe volte, ha messo gli italiani alla berlina) che recita: “la Germania dovrebbe essere bombardata regolarmente ogni 50 anni anche senza motivo”.
Ci piace, piuttosto, richiamare le riflessioni di Karl Popper secondo cui: “la lezione che noi dovremmo apprendere da Platone è esattamente l’opposto di quello che egli vorrebbe insegnarci…lo sviluppo stesso di Platone dimostra che la terapia che raccomandava è peggiore del male che tentava di combattere. Arrestare il cambiamento politico non costituisce un rimedio e non può portare la felicità. Noi non possiamo mai più tornare alla presunta ingenuità e bellezza della società chiusa. Il nostro sogno del cielo non può essere realizzato sulla terra”.
Forse solo allora, riuscendo a comprendere che “est modus in rebus”, potremmo essere anche in grado di cancellare l’ “Io” e il “Mio” dalla religione, dalla politica e dall’economia, cosicchè “saremmo presto liberi e porteremmo il cielo in terra”, avrebbe proseguito Mahatma Gandhi.
Il bello della nostra amata Costituzione è questo: la libertà di espressione, la possibilità di poter dissentire e palesare la propria critica, anche attraverso un foglio di carta, che potrà farci vedere “il cielo stellato” sopra di noi e la “legge morale” dentro di noi.
Buona Pasqua.
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