Diritto, animali e consapevolezza della finitezza del percorso di vita
a cura dell’Avv. Salvatore Magra
Si spera con queste considerazioni di aprire un dibattito.
L’ipertrofica produzione legislativa ha, con apparente paradosso, trascurato, quantomeno in una prima fase, il sufficiente ed esaustivo sviluppo della questione se gli animali possano considerarsi, e con quale ampiezza, soggetti di diritto. Progressivamente, è maturata la consapevolezza della necessità di enucleare dei princìpi legislativi, che tenessero conto della necessità di assicurare una sufficiente protezione agli animali, in rapporto alla possibilità di maltrattamenti.
Per un costruttivo approccio in tale materia, è opportuno analizzare le questioni, attraverso una prospettiva di diritto comparato. Da tale angolazione, emergono la possibilità e la necessità di prevedere doveri dell’uomo nei confronti degli animali, come prius necessario per un’evoluzione della qualità della disciplina sugli animali. In tal modo, si procede a un superamento della reificazione dell’essere vivente non umano. Istituti come il mobbing sino stati costruiti a partire dall’etologia, attraverso lo studio del comportamento dei volatili (in particolare dell’etologo Konrad Lorenz), per isolare ed estromettere un soggetto predatore dall’aggregazione. Ciò può suggerire l’idea che a volte gli esseri viventi non umani codificano “di fatto” istituti, poi incorporati nell’ordinamento umano e questo, con ulteriore passaggio logico, suggerisce l’esigenza di proteggere adeguatamente soggetti che, sia pure sul piano dell’istintualità, hanno, per certi aspetti, la possibilità dello sviluppo di una “logica”, da cui anche l’essere umano può apprendere.
E’ condivisibile l’affermazione, secondo cui “L’antropocentrismo etico ha proposto per secoli il monopolio dell’etica da parte dell’uomo. La negazione della possibilità di un’etica diversa ha contribuito incisivamente al processo di destatizzazione del non umano, privato della funzione relazionale che deriva dalla prospettiva etica stessa. Questo assioma, animale senz’etica e dunque escluso dalla formula di protezione dell’etica stessa, è stato contraddetto da voci sporadiche nei secoli. In tempi più recenti, l’affossamento dell’antropocentrismo etico è riproposto con maggior tenacia sia in ragione degli studi della biologia evoluzionistica, sia grazie alla riflessione che si avvale di una visione coniugati va tra scienza ed etica, ovvero tra scienza che produce e che solleva problemi ed elemento etico, il che come noto ha avuto come sbocco gli studi di bioetica” (cfr. “Il difficile binomio animali-diritto: riflessioni”, in http://www.giappichelli.it/stralci/3482915.pdf).
L’uomo ha consapevolezza di dover morire e, secondo una linea di pensiero, si distingue in questo dagli altri esseri viventi. In particolare, lo psicanalista Valerio Albisetti nel suo volume “Da Freud a Dio” (Edizioni Paoline) scrive a pag. 70 “(…) Il piccolo Valerio intuiva, forse sapeva. Osservava gli altri animali della campagna, che non sapevano di dover morire. Finché un giorno, osservando acutamente la morte dei suoi simili, capì che questo saper di dover morire da parte degli esseri umani è il loro vero segreto, la loro vera chiave di lettura per vivere”. Questa prospettiva psicospirituale attua una scissione fra la condizione umana e la condizione non umana,e attribuisce all’uomo una consapevolezza di matrice apparentemente più ampia, rispetto a quella degli altri esseri viventi, attingendo a una opzione intellettualistica, che tiene conto di una certa percezione della realtà, la quale , peraltro, per certi aspetti, potrebbe essere diversa da come ci appare. L’obiezione all’idea che i nostri sensi non consentono di percepire l’intera gamma delle sfumature della realtà viene talvolta sviluppata, attraverso l’argomento, in base a cui possiamo pur sempre amplificare i nostri sensi, attingendo a “protesi esterne” (ad esempio: microscopi o cannocchiali, per il senso della vista). Peraltro, non è scontato che in questa maniera possa pervenirsi a una visione soddisfacente della realtà esteriore, in quanto affidiamo l’amplificazione dell’apparato sensoriale pur sempre a elementi esterni, rispetto alla nostra struttura organica e mentale. Ciò rende verosimile l’idea che non tutto quel che percepiamo può essere effettivamente corrispondente alla realtà nella sua struttura primigenia. La consapevolezza può avere anche sfaccettature diverse dalla concezione a priori che noi abbiamo del concetto, che d’altronde varia da persona a persona.
La profondità di pensiero dell’Albisetti emerge, ma può aggiungersi che l’istinto di conservazione è presente in ogni essere vivente, ivi comprese le piante e bisogna evitare di debordare la prospettiva in una visione antropocentrica. La consapevolezza di dover morire va adeguatamente ridefinita.
Esiste uno stereotipo di natura razionalista che rappresenta l’animale come privo di soggettività, con la conseguenza che i medesimi sono considerati non in grado di percepire ciò che riguarda la tavola di valori, proprio dell’essere umano.
Ove si abbandoni la visione dell’animale come una sorta di “macchina” ed emerga la sua realtà di essere senziente, si possono percepire con maggior consapevolezza sia le diversità, sia le affinità con il modo di percepire la realtà, non univoca, dell’essere umano. L’idea alla base della concezione dell’animale come un “essere meccanico” sconta l’inconveniente di un pregiudizio antropocentrico.
Una ricostruzione del pensiero di Heidegger[1] implica che la morte è riservata all’uomo, perché un animale può solo “perire”, proprio per l’assenza di comprensione della morte. L’autoconsapevolezza è legata al pensiero, con la conseguente percezione della finitezza della propria vita. Ciò si collega con l’attitudine a esprimere un linguaggio, che è il veicolo, attraverso cui si percepiscono i meccanismi vitali (ma siamo sicuri che gli animali e le piante non posseggano un linguaggio?).
Si potrebbe anche pensare di distinguere fra alcune specie animali e altre, nel senso che in tali soggetti la vita s’identifica con la consapevolezza di sé come “altro”, rispetto al mondo circostante e con la conseguente consapevolezza di una propria identità.
In etologia si è costatato che, quando un animale sente appressarsi il momento della conclusione della vita, si allontana dal branco e sceglie un luogo isolato.
E’ possibile affermare che la percezione della fine della vita negli animali sia presente soprattutto nella fase in cui la morte si approssima, e che la battaglia con la paura della morte si circoscriva alla fase finale dell’esistenza, mentre nell’uomo si protrae per un periodo più lungo.
Si può ulteriormente sviluppare la questione, considerando che un animale soffre immensamente quando perde un essere umano, cui è molto affezionato e pertanto, il medesimo essere percepisce in modo assai intenso un vissuto di perdita.
Gli animali percepiscono il dolore, sia pure con differenza nelle modalità di percezione tra una specie e l’altra.
[1] Cfr. PAGANO, L’uomo senza tempo. Riflessioni antropologiche sulla temporalità nell’epoca dell’accelerazione, Milano, 2011 pag. 69.