Dott. Jacopo Scarpellini
La recente morte di un quindicenne napoletano[1], a seguito di una tentata rapina nei confronti di un carabiniere che ha poi sparato al ragazzo, consente di interrogarsi ancora una volta sul fenomeno della devianza minorile.
Giova preliminarmente precisare che, in ambito criminologico, con riferimento ai minori si è soliti utilizzare il termine “devianza”, al posto di “delinquenza”, in quanto il primo, concettualmente più ampio, abbraccia anche una serie di condotte che esulano dalla violazione di norme penali e quindi dalla commissione di reati, concernendo altresì anche quei comportamenti che infrangono regole sociali, morali o di costume[2].
Per quanto concerne la devianza criminale, inerente quindi la commissione di reati, come noto l’ordinamento italiano prevede per l’imputabilità del minorenne la duplice condizione del compimento del quattordicesimo anno di età (art. 97 c.p.) e dell’accertamento della capacità di intendere e di volere (art. 98 c.p.).
Il codice penale individua dunque due fasce di età rilevanti ai fini dell’imputabilità dei minorenni: la prima riguarda chi al momento del fatto non aveva ancora compiuto 14 anni, il quale non è imputabile ai sensi dell’art. 97 c.p. in considerazione della presunzione assoluta di incapacità di intendere e di volere stabilita dal legislatore.
La seconda fascia di età comprende chi al momento del fatto aveva compiuto 14 anni ma non ancora 18; in tal caso la legge prevede una dichiarazione di imputabilità da operarsi caso per caso a seconda della capacità di intendere e volere dell’agente al momento del fatto.
L’accertamento dell’imputabilità nei confronti del minore ultra quattordicenne deve peraltro svolgersi in concreto, cioè in base alle capacità cognitive e volitive del soggetto al momento della commissione del fatto, al fine di verificare se questi presenta con riferimento al fatto delittuoso “un grado di maturità tale da rendersi conto del suo disvalore sociale“[3].
Tale bipartizione in punto di imputabilità si riflette necessariamente anche sulla classificazione delle forme di devianza criminale minorile, idealmente distinguibile ancora una volta tra infraquattordicenni e infradiciottenni.
La devianza degli infraquattordicenni, nell’ambito della c.d. “infanzia penale”[4], può ulteriormente differenziarsi a seconda che il fatto venga commesso nell’infanzia (0-6 anni), nella fanciullezza (6-11 anni) o nella preadolescenza (11-14 anni).
I reati commessi nell’infanzia penale, peraltro, sono per la stragrande maggioranza dei casi ascrivibili alla fascia della preadolescenza[5], periodo che negli ultimi decenni sembra essersi drammaticamente contratto.
La devianza negli infradiciottenni invece corrisponde al periodo dell’adolescenza, momento di sviluppo e transizione dall’infanzia all’età adulta in cui si struttura la personalità dell’individuo.
Ritorna in questo caso il tema dell’accertamento dell’imputabilità, aspetto centrale tanto dal punto di vista processuale, posto che consente o meno la procedibilità nei confronti del minore autore del reato, quanto dal punto di vista del diritto penale (in punto di elemento soggettivo del reato, dato che la capacità di intendere e di volere è condizione necessaria per muovere all’agente un rimprovero personale per il fatto commesso)[6] nonché criminologico poiché permette di cogliere “il grado di percezione che il minorenne ha avuto del significato dell’atto nell’ambito del contesto sociale in cui lo ha realizzato“[7].
Gli studi criminologici in tema di devianza minorile sposano ormai in misura maggioritaria teorie multifattoriali, che considerano fattori genetici, psicopatologici, familiari e sociali come elementi che conducono attraverso un’azione sinergica l’agente verso la commissione di un reato[8].
Ad ogni modo sarebbe un errore pensare che gli insegnamenti di Cesare Lombroso siano definitivamente tramontati, alla luce degli studi che, sempre in un’ottica multifattoriale della criminogenesi, sottolineando l’importanza della genetica e dell’antropologia all’interno della criminologia caldeggiano una società in cui sia possibile valutare “quanto della variabilità genetica individuale sia compatibile con la struttura sociale“[9].
Le differenti chiavi di lettura del fenomeno della devianza criminale minorile si possono cogliere altresì attraverso le risposte sociali e di politica criminale che lo stato propone a protezione della incolumità pubblica e per la rieducazione (o meglio educazione) del minore autore di reato[10].
Secondo tale impostazione sono identificabili cinque modelli di giustizia minorile, di seguito brevemente esposti.
Il primo modello, definito “educativo”, considera il giovane deviante un soggetto patologico da curare e rieducare; tale modello è stato aspramente criticato da chi “invitava a considerare i soggetti in età evolutiva non solo esclusivamente sul piano intrapsichico, ma in una dimensione saldata psico-sociale, in cui prevalenti erano le contestualizzazioni offerte dalla famiglia, dalla scuola e dall’ambiente sociale”[11].
Il secondo modello è quello chiamato “deterrente”, con evidenti richiami alla giustizia retributiva che caratterizza l’ordinamento penale per gli adulti. Una concezione del sistema penale minorile di tal fatta era concepita come risposta alle vicende migratorie che riguardavano il nostro paese soprattutto durante gli anni ’80 del secolo scorso.
Il terzo modello viene definito interazionista, in quanto mira a trattare la criminalità giovanile anche tramite strumenti differenti rispetto a quella degli adulti, evitando la stigmatizzazione del minore e conferendo alla pena una dimensione nuova rispetto a quella meramente retributiva.
Il quarto modello è quello della mediazione penale, definito anche modello restitutivo in quanto si propone di “ricucire” la fratture creata dal reato nel tessuto sociale attraverso un percorso di confronto tra vittima e reo che, soprattutto nell’ambito della giustizia minorile si trasforma così in un’occasione per la vittima di contribuire al processo rieducativo del minore.
L’ultimo modello, c.d. sistemico, prende le mosse dal sistema welfare inglese, in cui le contee si occupano in prima battuta delle criticità che avvengono in un determinato contesto sociale.
Ad ogni modo, quale che sia il modello adottato resta fermo quanto prima sottolineato in merito all’esigenza di un approccio multidisciplinare alla devianza criminale minorile, per una comprensione del fenomeno grazie all’interazione di molteplici professionalità.
Prima di analizzare le tendenze della criminalità minorile in Italia occorre premettere che in campo criminologico, il problema del “numero oscuro” non consente che una rappresentazione parziale dei reati commessi dai minorenni, come del resto per la criminalità degli adulti.
Nonostante ciò è possibile identificare comunque delle macro-aree nelle quali si manifesta la delinquenza minorile[12].
Innanzitutto è possibile identificare una devianza minorile per così dire “fisiologica”, dovuta al conflitto strutturale tra il minore in fase di crescita durante l’adolescenza e il mondo degli adulti; si tratta in questi casi di microcriminalità legata a reati di lieve entità quali furti, danneggiamenti o violazioni del codice della strada.
Accanto a tale criminalità minorile si pongono però altre espressioni di tale fenomeno, di gran lunga più preoccupanti, prima fra tutte la delinquenza legata alla criminalità organizzata.
I minori legati a tale ambiente svolgono perlopiù ruoli marginali all’interno dell’organizzazione; tuttavia, l’iniziazione il minore ai valori della subcultura mafiosa in fasi critiche dello sviluppo quali la preadolescenza o l’adolescenza, consente la fidelizzazione del giovane che potrà in futuro affiliarsi all’organizzazione, grazie alla interiorizzazione dei valori della subcultura criminale.
Ancora, occorre accennare seppur brevemente ai reati commessi da minori stranieri.
In tal caso è necessario distinguere tra i c.d. reati culturalmente motivati e i reati commessi dai minori per il mero sostentamento, la c.d. criminalità dei poveri.
Senza la pretesa di esaurire in tale sede un argomento di notevoli dimensioni, può senz’altro citarsi la definizione che autorevole dottrina ha enucleato per i reati culturalmente motivati, che si concretizzano quando “un comportamento realizzato da un soggetto appartenente a un gruppo culturale di minoranza sia considerato reato dall’ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza, e tuttavia all’interno del gruppo culturale del soggetto agente è condonato, o accettato come comportamento normale, o approvato o addirittura incoraggiato o imposto“[13].
In sede penale pertanto sarà necessario indagare in merito alla motivazione del reato in capo all’agente, posto che non solo si potrebbe cadere nella fallacia dell’attribuzione di reati culturalmente motivati ad un agente solo perché straniero, ma anche perché è necessario comprendere se una data norma culturale per quanto radicata in un paese sia o meno parte dell’identità culturale di un soggetto[14], soprattutto in un’ottica processuale incentrata sulla strategia difensiva della cultural defense.
È appena il caso di sottolineare tuttavia che la dottrina pare uniforme nel sostenere che il riconoscimento della diversità culturale, lungi dall’essere illimitato, troverà sempre uno “sbarramento” invalicabile costituito dai diritti fondamentali dell’individuo[15].
Da ultimo occorre rammentare quella criminalità giovanile, legata ai ceti medio-alti della popolazione, definita “il malessere del benessere”[16].
Tale forma di criminalità impone nuove forme di indagine in quanto nasce all’interno di nuclei familiari stabili e agiati, lontano da ambienti legati a subculture criminali e da rischi di marginalità o patologia sociale.
Peraltro, in tema di devianza minorile criminale, come è stato efficacemente sottolineato ogni rimedio pare giungere ormai troppo tardi, a causa di un ineliminabile difetto di sincronia temporale[17].
Pur tuttavia occorre indirizzare politiche di intervento in direzioni ben precise, comprendendo che la devianza minorile non è generata dalla società ma si genera nella società, perché il minore “che compie un crimine è quel pezzo della comunità in cui essa recrimina su se stessa, senza riconoscersi come oggetto della recriminazione“[18], reiterando così il crimine.
[1] Il riferimento è al giovane Ugo Russo, morto a Napoli il 1° marzo 2020.
[2] CORRERA – MARTUCCI, Elementi di criminologia, Padova, 2013, p. 141.
[3] Cfr. Cass., Sez. II, 13 settembre 1991, n. 9265.
[4] CORRERA – MARTUCCI, Elementi di criminologia, cit., p. 143. Col termine “infanzia penale” gli autori intendono riferirsi all’intero arco temporale in cui il minore non è imputabile, ovvero da 0 a 14 anni.
[5] MARTUCCI – CORSA, Fanciulli e devianza penale tra allarmismo e realtà. Fattori psicosociali e ruolo delle appartenenze etniche nei reati degli infraquattordicenni, in Minori e Giustizia, 2005, 4, p. 161.
[6] MARINUCCI -DOLCINI – GATTA, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, Milano, 2018, p. 419 ss.
[7] ZAPPALA’ (a cura di), La giurisdizione specializzata nella giustizia penale minorile, Torino, 2009, p. 22.
[8] CORRERA – MARTUCCI, Elementi di criminologia, cit., p. 157 ss.
[9] CATERA – PAONE, Revisione della letteratura e approfondimenti del rapporto tra criminalità e genetica: “Criminali si nasce o si diventa?”, in Diritto e Giustizia Minorile, Anno I, n. 1 -2012, p. 116.
[10] Sul punto, ESPOSITO, Profili di criminologia minorile, in Diritto e Giustizia Minorile, Anno II, n. 2-3 2013, p. 141 – 147.
[11] Ibidem, p. 143.
[12] CORRERA – MARTUCCI, Elementi di criminologia, cit., p. 159 ss.
[13] BASILE, Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Milano, 2010, p. 42.
[14] MERZAGORA, Lo straniero a giudizio, tra psicopatologia e diritto, Milano, 2017, p. 145 ss.
[15] Ibidem, p. 20.
[16] CORRERA – MARTUCCI, Elementi di criminologia, cit., p. 161 – 162.
[17] RESTA, L’infanzia ferita, Bari, 1998, p. 75.
[18] Ibidem, p. 79.
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