Dott.ssa Federica Santoro

Approvato dal Consiglio dei Ministri, nella simbolica giornata del 1° maggio e pubblicato in
Gazzetta Ufficiale il 4 maggio, il testo del nuovo Decreto Legge n. 48 – c.d. Decreto Lavoro 2023 –
il quale statuisce una serie provvedimenti volti ad introdurre un piano ah hoc di politiche per il
lavoro a sostegno delle famiglie e dei lavoratori. Dal nuovo taglio al cuneo fiscale per i redditi
medio bassi, al superamento del Reddito di cittadinanza o ancora dai maggiori controlli in materia
di sicurezza ad una maggiore flessibilizzazione nell’uso del contratto a termine.
Fra le numerose novità introdotte dal citato Decreto Legge n. 48 del 4 maggio 2023, quella che più
ha suscitato l’interesse degli addetti ai lavori è stata indubbiamente la Riforma sul contratto a
termine, rappresentativa di una delle principali misure contenute nel testo del provvedimento
presentato dall’Esecutivo al tavolo di Palazzo Chigi.
Il Governo Meloni modifica le fondamenta del contratto a termine superando la rigidità delle
causali previste dal Decreto Dignità reintroducendone la flessibilità antecedente, nel tentativo di
operare una maggiore liberalizzazione di tale tipologia contrattuale, mediante l’introduzione di
nuove causali che consentiranno un maggior margine di manovra al datore di lavoro. Le norme
contenute nel provvedimento, come anticipato, sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale del 4
maggio 2023 ed entrate in vigore a far data da venerdì 5 maggio 2023.
Giova rammentare come la disciplina del contratto a termine sia stata oggetto, nel susseguirsi del
tempo, di ripetute modifiche, ora per adeguarne il perimetro applicativo alle mutate esigenze sociali,
ora per porre un freno alle diverse posizioni giurisprudenziali oggettivamente restrittive e distanti
dal tenore letterale della norma. Dalla spinta alla liberalizzazione con la disciplina del Jobs Act del
2015 ed il c.d. Decreto Poletti dell’anno precedente, alla maggiore drasticità con il Decreto Dignità
ed il suo regime di “causali stringenti”, si è oggi giunti ad una soluzione forse intermedia. Appare
evidente come l’intenzione del Legislatore sia quella di convergere verso un maggiore ricorso del
contratto a termine il cui utilizzo è comunque affidato – fermi restando i vincoli di derivazione
europea – al controllo sindacale mediante le previsioni dei Contratti Collettivi.
Per quanto concerne le causali di legittimazione nell’uso del contratto a tempo determinato –
protratto oltre i 12 mesi – come si avrà modo di osservare nel corso del proseguo, sarà la
Contrattazione Collettiva espressa dai sistemi comparativamente più rappresentativi, a disciplinarne
il ricorso legittimo. Solo in difetto di previsioni contenute nei Contratti Collettivi opererà, in via
subordinata e soltanto sino al prossimo 30 aprile 2024, la clausola di legittimazione generale delle
“ragioni tecniche, organizzative e produttive” precisate dalle parti individuali del rapporto di lavoro.
Come è agevole comprendere, la nuova disciplina del Decreto Lavoro, ammette l’intervento
dell’autonomia individuale soltanto in mancanza di regole puntuali predisposte dai Contratti
Collettivi Nazionali di Lavoro. Il ruolo della Contrattazione Collettiva deve essere pertanto inteso
in termini vincoli di sistema nell’uso del contratto a termine.
Più specificamente, la nuova Riforma conferma la possibilità di stipulare liberamente tale tipologia
contrattuale per i primi 12 mesi, prevedendo – per quei rapporti protratti oltre tale scadenza e sino ad
un massimo di 24 mesi – nuove casuali sostitutive di quelle previste dal Decreto Dignità, le
quali permettono al datore una più agevole prosecuzione del rapporto di lavoro.
In seguito, alle modifiche decise a Palazzo Chigi, i contratti a termine potranno avere durata
superiore ai 12 e non eccedente i 24 mesi qualora ricorrano una delle seguenti condizioni di
legittimazione:

  1. specifiche esigenze previste dai Contratti Collettivi;
  2. esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, individuate dalle parti, in caso di
    mancato esercizio da parte della Contrattazione Collettiva, e in ogni caso entro il termine del
    30 aprile 2024;
  3. esigenze sostitutive di altri lavoratori.
    In sintesi, il nuovo provvedimento conferma una “acausalità” del primo contratto a termine sino ai
    12 mesi, riconoscendo stabilmente alla Contrattazione Collettiva il ruolo di individuare i casi in
    riferimento ai quali è, altresì possibile, apporre un termine di durata superiore ai 12 mesi – nonché
    prorogare oltre tale termine ovvero procedere ad un rinnovo contrattuale – fermo restando
    comunque, il riconoscimento della causale sostitutiva. Soltanto in difetto di previsioni da parte della
    Contrattazione opererà, in via subordinata e limitatamente sino al prossimo 30 aprile 2024 la
    clausola di legittimazione generale delle “ragioni tecniche, organizzative e produttive”
    specificamente individuata dalle parti. Resta dunque, al professionista l’onere di verificare caso per
    caso il quadro normativo-contrattuale di riferimento nonché la responsabilità di adoperare il
    contratto a termine per le sue finalità “naturali” al fine di non esporre il datore di lavoro al rischio di
    un contenzioso giudiziale con il lavoratore.
    Mediante il Comunicato Stampa n. 32 del 1° maggio 2023 viene poi finalmente definito, il
    parametro di computo del periodo di prova per i rapporti di lavoro a tempo determinato, sino ad ora
    mai chiaramente esplicitato. E’ stata pertanto statuita una regola univoca di riparametrazione del
    periodo di prova nei contratti a termine anche di breve durata. La nuova disciplina si è poi
    preoccupata di stabilire la durata minima e massima di tale periodo.
    Giova rammentare come, il periodo di prova configura una clausola civilistica prevista all’art. 2096,
    con la quale il datore di lavoro ed il lavoratore subordinano l’assunzione definitiva all’esito positivo
    di un periodo di prova. Benché non sia obbligatorio, la sua funzione è quella di tutelare l’interesse
    reciproco delle parti all’instaurazione del rapporto di lavoro: da un lato il datore di lavoro ha la
    possibilità di verificare l’attitudine professionale del lavoratore – e la sua complessiva idoneità in
    relazione alle mansioni affidate ed al contesto aziendale – dall’altro il lavoratore può valutare la sua
    convenienza a ricoprire quella particolare posizione occupazionale.
    Secondo le più recenti disposizioni dell’ articolo 7 comma 2 del Decreto Trasparenza 2022, nel
    rapporto di lavoro a termine, la prova è stabilita “in misura proporzionale alla durata del contratto
    ed alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”. Nessun nuovo periodo di prova
    può essere contemplato in caso di rinnovo contrattuale per lo svolgimento delle medesime
    mansioni. Stante il disposto normativo, il Legislatore non si è preoccupato di fornire al contempo un
    parametro utile agli addetti ai lavori per un corretto riproporzionamento di tale periodo sicché, di
    recente l’Esecutivo è intervenuto rivisitando la disciplina sul patto di prova nei contratti a termine
    ed introducendo nuovi parametri di computo.
    Alla luce delle nuove modifiche normative intervenute con il Decreto Lavoro, fatte salve le
    previsioni più favorevoli della Contrattazione Collettiva, la durata del periodo di prova è fissata in
    un giorno di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario a far data dall’inizio del
    rapporto di lavoro. In ogni caso la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni
    e superiore a quindici per i contratti con durata non superiore a sei mesi, e trenta giorni per quelli
    con durata superiore ai sei ed inferiori ai dodici mesi.

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