Emanuele Massara

I Rohingya sono una popolazione musulmana di origine birmana che nel VIII secolo dimorava nel regno indipendente di Arakan, oggi conosciuto come Stato-Rakhine del Myanmar.

Anteriormente al secondo conflitto mondiale, l’Arakan era sotto dominazione inglese. Dapprima, i dominatori britannici promisero ai Rohingya l’autonomia di questa regione, ma, in occasione della seconda guerra mondiale e in vista dell’espansione giapponese verso il sud-est asiatico, abbandonarono l’Arakan e, venendo meno all’impegno preso rispetto all’autonomia dello Stato-Rakhine, posero le basi di una tensione etnica che dura tutt’oggi. Infatti, le trame separatiste dei Rohingya portarono a uno scontro tra la maggioranza Buddista e la minoranza Musulmana, causando diverse migrazioni degli stessi musulmani nella regione nord-orientale del subcontinente indiano a partire dal 1978.

Facendo un passo indietro nel tempo, la Birmania ottiene l’indipendenza nel 4 gennaio 1948 e, in contemporanea, U Nu viene nominato primo ministro. In questi anni, i Rohingya vivono un periodo abbastanza favorevole: infatti, a essi viene riconosciuta la possibilità di ricoprire cariche pubbliche. La situazione muta con il colpo di stato del 1962 compiuto dal generale Ne Win, il quale impronta lo stato a una dittatura, incentrata sulla repressione di qualsiasi minaccia alla sicurezza e alla stabilità del governo. In linea con questo indirizzo politico, i Rohingya, considerati un pericolo separatista, vengono esclusi da qualsiasi carica e ufficio pubblico. La condizione degli stessi si aggrava ulteriormente nel 1982 con l’entrata in vigore del “Citizenship Act”, ossia una legge che nega loro la cittadinanza birmana. In particolare, essa designa tre classi di cittadini, a ognuna delle quali attribuisce tre diverse “scrunity cards[1] e differenti regimi giuridici:

  • full citizens[2], ai quali venne assegnata la scheda rosa, che comprendevano Burmans (Buddisti), Kachin, Kayah, Karen, Mon, Arakan Buddhist, Shan e diversi altri gruppi etnici residenti in Myanmar prima del 1823, anno della prima campagna militare degli inglesi in Myanmar. Essi godevano di piena cittadinanza e di pieni diritti.
  • associate citizens[3], titolari della scheda blu, che includevano figli di matrimoni misti con uno dei due genitori appartenente ai full citizens, ovvero individui che hanno vissuto in Myanmar per cinque anni consecutivi o per otto anni su 10 prima del riconoscimento dell’indipendenza nel 1948. Questi potevano percepire un reddito, ma al contempo erano esclusi da cariche politiche.
  • naturalized citizens[4], in possesso della scheda verde, in cui rientrava la prole di migranti arrivati in Myanmar durante il periodo del dominio coloniale britannico. Nello specifico, la naturalizzazione consiste nell’atto legale o processo attraverso cui un non-cittadino di un paese acquisisce la cittadinanza del paese stesso, sebbene non sia nato all’interno del suo territorio.

Tuttavia, i Rohingya non rientravano in alcuna di queste categorie, ma erano considerati “Myanmar residents[5], dunque né cittadini né stranieri, bensì Bengalesi apolidi [6]. Tale legge, di fatto, si dimostra problematica, in quanto è vero che i legami transnazionali siano diffusi, ma allo stesso tempo risultano difficilmente dimostrabili a causa dell’inesistenza della documentazione necessaria. Da questa situazione scaturiscono una serie di problemi che i Rohingya devono affrontare nel proprio paese. In Myanmar, infatti, molti bambini Rohingya e, insieme a loro, gran parte della popolazione dello Stato-Rakhine, sono costretti a lavori forzati e, in caso di rifiuto, rischiano di essere uccisi. Le donne non possono intraprendere alcuna attività lavorativa retribuita, ma solo gli uomini possono guadagnarsi da vivere, mantenendo al contempo la propria famiglia. Le autorità birmane, peraltro, hanno limitato la libertà di circolazione di tali persone, non permettendo spostamenti al di fuori del proprio villaggio. Altri problemi cardini sono la mancanza di cibo, rispetto alla quale, ad oggi, si riscontra che il 60% di bambini Rohingya soffrono di malnutrizione cronica; la totale privazione del diritto alla salute, aggravata dalle restrizioni imposte in materia di libertà di circolazione; infine, la negazione del diritto allo studio, a causa del mancato riconoscimento della cittadinanza birmana. Essi, infatti, hanno accesso soltanto all’istruzione primaria, mentre gli è negata la possibilità di frequentare, in qualità di studenti a tempo pieno, qualsiasi università. Peraltro, non possono neanche ricoprire cariche pubbliche, tantomeno essere assunti come docenti nelle scuole di carattere governativo.

Nel corso degli anni, a causa del progressivo aggravamento delle loro condizioni di vita e delle continue persecuzioni da parte del Tatmadaw [7], i Rohingya sono fuggiti dal Myanmar dando luogo a diverse ondate migratorie verso il Bangladesh: dalle prime nel 1978 e nel 1992, sino a quella del 2017[8], che ha portato a una delle più violente e persistenti crisi umanitarie degli ultimi decenni, con 655000 Rohingya costretti a rifugiarsi nel Cox’s Bazar[9]. Attualmente, i Rohingya presenti in Bangladesh sono circa 900000, di cui 55% bambini[10], e costituiscono più di un terzo della popolazione residente in questa regione. L’81 % di questi sono giunti proprio in occasione dell’ultima grande migrazione del 2017.

La legislazione vigente del Bangladesh non prevede alcuna disciplina specifica in materia di diritti dei rifugiati, tuttavia è possibile individuare alcuni riferimenti normativi nella Costituzione del 1972: in primo luogo, l’art.25, che sancisce il dovere dello Stato di fondare le relazioni internazionali sul rispetto della sovranità nazionale e del principio di uguaglianza, del principio di non interferenza negli affari interni degli altri paesi, del principio di risoluzione pacifica delle controversie internazionali, del diritto internazionale e delle disposizioni enunciate dalla Carta delle Nazioni Unite. In forza di tali previsioni, dunque, lo Stato dovrebbe: sforzarsi di rinunciare all’uso della forza nell’ambito dei rapporti internazionali, in favore di un generale e completo disarmo; garantire e sostenere il diritto di ognuno alla libera autodeterminazione; sviluppare il proprio sistema sociale, economico e politico; aiutare le persone oppresse in giro per il mondo, agendo in contrapposizione all’imperialismo, al colonialismo e razzismo.  In secondo luogo, l’art. 31, il quale prevede eguale protezione dalla legge per ogni cittadino e ogni altra persona che si trova in quel determinato momento all’interno del paese. Infine, l’art.32, che garantisce il diritto alla vita e alla libertà personale di tutti. Manca, dall’altro lato, un formale riconoscimento del diritto allo studio dei rifugiati: l’istruzione è, infatti, fornita informalmente solo a livello della scuola primaria grazie ad alcuni volontari, mentre l’istruzione superiore gli è totalmente preclusa[11].

Sul piano istituzionale, invece, in questo ambito sono attribuite talune competenze al Ministro dell’Alimentazione e della Gestione dei Disastri (MFDM), responsabile in materia di rifugiati e della coordinazione delle attività nei campi profughi, e all’Ufficio del Commissario per il Soccorso e il Rimpatrio dei rifugiati (RRRC), responsabile di taluni compiti amministrativi, quali gestione dei campi, consegna di materiale umanitario, istruzione e sanità[12].

Tuttavia, tutte queste disposizioni non trovano applicazione concreta nella realtà, bensì rimangono prive di effettività.

In secondo luogo, sul piano internazionale, il diritto umanitario è racchiuso principalmente in due importanti convenzioni: la Convenzione di Hague, costituita da due conferenze internazionali rispettivamente del 1899 e del 1907, e la Convenzione di Ginevra del 1951 delle Nazioni Unite.

Il punto più importante della Convenzione di Hague voleva essere la creazione di una corte internazionale per la risoluzione di controversie internazionali, considerata necessaria per rimpiazzare e sostituire le circostanze della guerra. Mentre gran parte delle maggiori potenze, quali USA, Inghilterra, Russia, Francia, Cina e Persia, erano a favore di questo arbitrato internazionale, pochi paesi, guidati dalla Germania, posero il veto. Dunque, il maggior effetto della stessa convenzione è stata la proibizione dell’utilizzo, all’interno della guerra, di alcune tecnologie moderne, quali “all forms of chemical and biological warfare […], Asphyxiating, Poisonous or Other Gases […], Bacteriological Methods of Warfare”[13]. Il Protocollo in esame è stato implementato a seguito dell’uso di mustard gas e metodi di guerra analoghi durante la Prima Guerra Mondiale e a causa del timore di un possibile ricorso in futuro ad armi chimiche e biologiche. Un corpo di disposizioni di tale convenzione, denominato “ius ad bellum”, sancisce talune giustificazioni che ammettono alla possibilità di condurre una guerra o di fare utilizzo in generale di forze armate. Si parla, invece, di “ius in bello” in riferimento a quelle disposizioni che regolano la condotta delle parti belligeranti nella conduzione di un conflitto armato, cercando di minimizzare le sofferenze e di proteggere tutte le vittime del conflitto nel modo più ampio possibile.

La Convenzione di Ginevra, d’altro canto, comprende norme che trovano applicazione in tempo di guerra, cercando anch’essa di proteggere, di evitare sofferenze non necessarie e di salvaguardare i diritti fondamentali delle persone, combattenti e non combattenti, tra cui si evidenziano soldati feriti e malati, prigionieri di guerra, civili e personale medico e religioso. A tal proposito, stabilisce, nell’ambito del diritto internazionale, degli standard minimi di trattamento umanitario in favore delle vittime della guerra: ad esempio, i rifugiati hanno diritto ad adeguate condizioni di vita, cibo, abitazione, salute mentale e fisica.

Nel diritto internazionale, la definizione di “rifugiato” non trova in generale una definizione unanime. Tuttavia, dopo la prima guerra mondiale, la lega delle Nazioni Unite sancisce, sulla base delle legislazioni nazionali dei vari stati contraenti e sulla base della protezione e promozione dei diritti di tutti gli esseri umani senza distinzioni garantita dalla Carta dell’ONU del 1945, una definizione di rifugiato come “a person who owing to a well-founded fear of being persecuted for reasons of race, religion, nationality, membership of a particular social group or political opinion, is outside the country of his nationality, and is unable to or owing to such fear, is unwilling to avail himself of the protection of that country or who, not having a nationality and being outside the country of his former habitual residence as a result of such events, is unable or, owing to such fear, is unwilling to return it[14]. La Convenzione di Ginevra era considerata eurocentrica, in quanto, dapprima, attribuiva lo status di rifugiato principalmente alle vittime della seconda guerra mondiale in ambito europeo: infatti, l’art. 1 par. 2 della convenzione sopracitato si applicava esclusivamente a quelle persone a cui era stato riconosciuto lo status di rifugiato prima dell’1 gennaio 1951, escludendo così diversi altri tipi di rifugiati contemporanei, tra cui quelli climatici, marittimi e, in particolare, i Rohingya. Successivamente, invece, il protocollo addizionale del 1967 rimuove questa limitazione geografica e temporale, conferendo protezione universale a tutti i rifugiati del mondo contemporaneo.

Infine, è necessario analizzare il “principio di non refoulement”, sancito dall’art. 33 della stessa convenzione[15], anche detto “Divieto d’espulsione e di rinvio al confine” o “Divieto di respingimento”:

  1. Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.
  2. La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese.

Il principio di non respingimento, in base a quanto prescritto, consiste nel divieto di trasferimento di un rifugiato o di un richiedente asilo in un territorio ove la sua vita o la sua libertà sarebbe messa in pericolo per motivi di razza, religione, cittadinanza, nazionalità, sua appartenenza a un gruppo sociale o per via delle sue opinioni politiche. Esso si applica non solo nei confronti di coloro ai quali sia stato già riconosciuto lo status di rifugiato, ma altresì ai soggetti che ne abbiano richiesto il riconoscimento, per tutto il periodo necessario ad espletare la relativa procedura. Gli stati devono accertare preventivamente, rispetto a un’eventuale espulsione o respingimento, se i soggetti in questione rispettino o meno i requisiti previsti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ossia devono verificare che tali individui non siano o non saranno a rischio di trattamenti contrari alle convenzioni internazionali. Le modalità di tale accertamento non sono delineate dal diritto internazionale, ma la loro definizione e il loro funzionamento sono rilasciati alla legislazione nazionale. Vi sono 3 eccezioni al divieto di respingimento, ossia 3 casi in cui lo stato può negare il riconoscimento dello status di rifugiato e la relativa ospitalità:

  • Se il richiedente asilo costituisce, per motivi seri, un potenziale pericolo per la sicurezza dello stato ospitante
  • Se il soggetto in questione sia stato condannato con sentenza definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, rappresentando così una minaccia per la collettività del paese ospitante
  • Sono esclusi da tale protezione, infine, i potenziali rifugiati per “motivi economici”, in quanto non soddisfano i requisiti del pericolo per la propria vita e la propria libertà, richiesti dall’art. 33 della convenzione.

Il principio di non respingimento trova esplicito riferimento anche nella Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, adottata nel 1984 ed entrata in vigore nel 1987, la quale vieta ulteriormente il trasferimento di una persona in un paese dove, per fondati motivi, la si ritenga in pericolo di essere sottoposta a torture o ad altre pene o a trattamenti crudeli, disumani e degradanti, ovvero di essere privata arbitrariamente della propria vita.

Riassumendo, il principio in esame si sostanzia nell’obbligo a carico degli stati di consentire l’accesso e protezione in via temporanea ai rifugiati, fintantoché non sia possibile individuare una soluzione alternativa conforme al diritto internazionale per preservare la loro integrità fisica e libertà personale.

Tuttavia, il Bangladesh non ha preso parte né alla Hague Convention, né alla Convenzione di Ginevra, tantomeno ai rispettivi protocolli: in risposta di ciò, il governo del Bangladesh ha addotto talune giustificazioni, in particolare rispetto alla mancata ratifica della Convenzione del 1951:

  • La convenzione è euro-centrica e pone l’accento su questioni geo-politiche piuttosto che concentrarsi sulle situazioni dei rifugiati.
  • Il problema dei rifugiati può essere risolto attraverso accordi bilaterali, evitando dunque convenzioni multilaterali.
  • L’adesione alla convenzione crea un intervento indebito da parte delle Agenzie delle Nazioni Unite.
  • L’adesione alla convenzione potrebbe mettere pressione al paese al fine di provvedere assistenza ai Rohingya.
  • L’accesso alla convenzione pone un obbligo a carico del paese ospitante di seguire il principio di non respingimento.
  • La legge contemporanea e le garanzie costituzionali e le prassi esistenti sono sufficienti a proteggere i rifugiati Rohingya.
  • La convenzione non si occupa né dei problemi di contrabbando e traffico di esseri umani, né dei fenomeni di migrazione economica, climatica e marittima.

Queste argomentazioni, però, non convincono le Nazioni Unite, le quali ritengono che la Convenzione in esame non trovi applicazione esclusivamente alla situazione europea, bensì abbia applicazione universale, includendo anche il contesto sud-asiatico.

Nonostante la mancata adesione alla Convenzione di Ginevra, il Bangladesh, in quanto facente parte del Comitato Esecutivo dell’UNHCR[16], è in egual modo soggetto al principio di non respingimento, il quale pone a carico dello stato gli stessi obblighi di rispetto degli standard internazionali previsti nell’ambito dei diritti umani e di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati, non potendo in alcun modo esimersi da tali responsabilità. Il principio di non refoulement, infatti, è attualmente ritenuto principio di diritto internazionale consuetudinario e, in quanto tale, vincolante, così come contemplato dall’art. 33[17], non solo per gli stati aderenti alla convenzione di Ginevra, bensì per la generalità degli stati terzi. Tuttavia, è necessario circoscrivere il contenuto di tale disposizione rispetto agli stati non aderenti alla convenzione. Questi ultimi, infatti, sarebbero onerati solamente di obblighi di non facere, consistenti nel divieto di respingimento verso lo stato di provenienza, essendo invece esonerati dagli obblighi positivi di accoglimento e protezione del richiedente, ovvero di verifica delle condizioni necessarie al riconoscimento dello status di rifugiato. In altri termini, gli stati non aderenti non sarebbero strettamente vincolati al rispetto degli standard minimi di protezione e accoglimento dei rifugiati stabiliti dalla convenzione del 1951[18].

Vi sono diverse altre convenzioni e documenti di diritto internazionale a cui il Bangladesh, in qualità di membro dell’UNHCR, è vincolato. In primo luogo, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 (UDHR), primo documento internazionale a riconoscere a tutti il diritto di richiedere e ricevere asilo da persecuzioni. Questa dichiarazione, infatti, contiene varie disposizioni che trovano applicazione per tutti gli esseri umani, indipendentemente da dove essi si trovino, quali, ad esempio, il diritto di ognuno a non essere soggetto ad arresto, detenzione o esilio in modo arbitrario; il diritto di ognuno ad avere una nazionalità; il diritto di ciascuno alla libertà di circolazione e residenza entro i confini di qualsiasi stato, per il quale tutti hanno il diritto di lasciare un paese e tornare in quello di origine. Sebbene si tratti di una dichiarazione dei diritti non propriamente vincolante per il Bangladesh, questa contiene allo stesso modo norme di diritto cogente, per cui tutti gli stati hanno il dovere di rispettare e garantire i diritti enunciati al suo interno. In secondo luogo, il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, che stabilisce che gli stati debbano assicurare i diritti civili e politici di tutti gli individui entro il proprio territorio e assoggettare gli stessi alla propria giurisdizione. Sulla base di questa convenzione, inoltre, a ciascuno è riconosciuta la libertà di circolazione e di scelta della propria residenza, senza alcuna restrizione, ad eccezione di quelle previste dalla legge per esigenze di sicurezza nazionale, ordine pubblico o di bilanciamento con altri diritti di pari rango previsti all’interno del trattato stesso. Nessuno, dunque, può essere espulso di forza dal territorio di uno stato, tantomeno può essere privato del diritto di ingresso nel proprio paese di origine. Infine, bisogna far riferimento alla Convenzione sui diritti dell’Infanzia del 1989, in forza della quale gli stati membri devono assicurare ai bambini richiedenti asilo o ai quali sia stato già riconosciuto lo status di rifugiato adeguata protezione e assistenza umanitaria, aiutarli a rintracciare e ritrovare i genitori o altri membri della famiglia e, se questi non vengono rinvenuti, a tali bambini deve essere garantita la stessa protezione assicurata a tutti gli altri privati della propria famiglia.

È fondamentale rilevare, inoltre, che anche il Myanmar, oltre al Bangladesh, avrebbe il dovere di rispettare e preservare i diritti fondamentali dei Rohingya. Esso, infatti, è tenuto al rispetto della Carta delle Nazioni Unite, in quanto membro di tale organizzazione, e dei diversi trattati internazionali in materia di diritti umani da esso stesso ratificati, in forza dei quali le autorità governative dello stato dovrebbero adottare talune misure in favore della cessazione del conflitto interno tra la maggioranza Buddista e la minoranza musulmana, assicurando così uguali opportunità e uguali diritti a tutti i gruppi etnici e religiosi presenti in Myanmar. Nonostante ciò, è evidente come tali principi non vengano per nulla rispettati e fatti rispettare dalle autorità birmane, le quali, al contrario, si rendono protagoniste di torture e persecuzioni contro la popolazione.

Attualmente, la condizione dei Rohingya è ancora decisamente problematica. Molti di questi vivono nel rifugio più grande e popoloso al mondo in Cox’s Bazar, in condizioni di vita estreme. Oltre che individui totalmente apolidi, indipendentemente dal riconoscimento formale dello status di rifugiato da parte delle Nazioni Unite, in Bangladesh non sono registrati né come rifugiati né come richiedenti asilo, venendo meno, di conseguenza, anche i rispettivi diritti connessi a tale status. Infatti, a dimostrazione di ciò, tutti i Rohingya giunti in Bangladesh, in particolare dal 2017 in avanti, sono ufficialmente denominati “forcibly displaced Myanmar nationals” (FDMN)[19]. Peraltro, a essi è negato il diritto al lavoro: possono soltanto svolgere mansioni occasionali, rispetto alle quali vengono sottopagati, sono privi di protezione legale e soggetti a pratiche di lavoro non etiche. Il governo del Bangladesh, inoltre, non garantisce formalmente l’istruzione ai rifugiati, soffocando le speranze delle famiglie per un futuro economicamente migliore e privando diverse generazioni delle capacità e competenze necessarie per il futuro. L’educazione viene fornita solo informalmente, attraverso talune lezioni tenute in abitazioni private o nelle Madrase[20], in cui viene insegnato solamente il Corano, risultando così insufficiente a colmare la mancanza di un’istruzione di portata più ampia. Un’ulteriore preoccupazione è data dalla mancanza della legge e dell’ordine pubblico. I campi in Cox’s Bazar sono teatro di violenze, corruzione, estorsioni, traffici illeciti, tutte attività in mano a gruppi violenti, che si muovono e agiscono liberamente all’interno di questi rifugi. L’unica forma di sicurezza e difesa interna ai campi è affidata alle mani di poche sentinelle, disarmate e non addestrate, scelte tra i rifugiati, mentre la polizia del Bangladesh, soprattutto di notte, concentra la sua attenzione principalmente sulla sicurezza e protezione della popolazione che si trova al di fuori di tali aree. Di conseguenza, non sono infrequenti intimidazioni, rapimenti, omicidi e altre forme di violenza, rispetto alle quali la polizia raramente interviene o investiga. Tutto questo richiederebbe un intervento immediato da parte del governo del Bangladesh, in collaborazione con la comunità internazionale, il quale dovrebbe riconoscere che il ritorno dei Rohingya in Myanmar è soltanto una prospettiva a lungo termine, ancora profondamente incerta.

A conferma di ciò, l’Atrocities Prevention Report del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America risalente al 17 marzo 2016:

“The situation in Rakhine State is grim, in part due to a mix of long-term historical tensions between the Rakhine and Rohingya communities, socio-political conflict, socio-economic underdevelopment, and a long-standing marginalization of both Rakhine and Rohingya by the Government of Burma. The World Bank estimates Rakhine State has the highest poverty rate in Burma (78%) and is the poorest state in the country. The lack of investment by the central government has resulted in poor infrastructure and inferior social services, while lack of rule of law has led to inadequate security conditions”[21].

Nell’agosto del 2016, l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha presieduto una commissione di nove membri in materia di violazione dei diritti umani nello Stato-Rakhine in Myanmar. A seguito delle valutazioni e dei report conseguiti in quest’area, Kofi Annan ha espresso forte preoccupazione rispetto alla situazione corrente, richiamando la comunità internazionale a intervenire.

La popolazione Rohingya, inoltre, è stata soggetta negli ultimi anni a diversi massacri e persecuzioni. In proposito, nel novembre del 2016, John McKissick ha accusato il Myanmar di “ethnic cleansing[22], volto a liberare tale zona dalla minoranza musulmana. La stessa accusa è stata posta in seguito dal principe della Giordania AL-Hussein. Sulla stessa linea si pone il primo ministro della Malaysia, il quale accusa l’autorità del Myanmar di vero e proprio genocidio[23]nei confronti dei Rohingya. Il 7 settembre 2017, il quotidiano britannico The Guardian ha notificato il “Tula Toli massacre”, ossia un’uccisione di massa di individui Rohingya da parte dell’esercito birmano nel villaggio Tula Toli nel Maungdaw District dello Stato-Rakhine in Myanmar.

Dinanzi a questa situazione, nel 2017, dopo un primo tentennamento, il governo del Primo Ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina, ha aperto i confini dello stato per permettere l’accesso ai Rohingya, dichiarando che avrebbe potuto provvedere ai bisogni di un milione di questi, oltre ai 160 milioni già cittadini del paese[24]. Inoltre, lo stesso ministro, all’assemblea generale delle Nazioni Unite, ha delineato un piano per porre fine alla crisi, comprendente 5 punti principali:

  1. Un richiamo al governo del Myanmar, al fine di cessare incondizionatamente l’ethnic cleansing una volta per tutte
  2. Un richiamo alle Nazioni Unite, al fine della realizzazione di missioni di ricognizione per permettere l’accertamento dei fatti e dei crimini commessi nello Stato-Rakhine
  3. La creazione di “safe zones” in Myanmar per la protezione dei civili, sotto supervisione delle Nazioni Unite
  4. Il rimpatrio dei Rohingya in Myanmar
  5. L’immediata e piena implementazione del report della commissione presieduta dall’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan sulla proposta di risoluzione della crisi

Tuttavia, tutte queste richieste sono state completamente disattese.

La risposta umanitaria che oggi è stata messa in atto per tentare di porre un argine a questa profonda crisi umanitaria trova il suo fondamento nel World Humanitarian Summit delle Nazioni Unite, che ha avuto luogo nel 2016, in cui un certo numero di organizzazioni umanitarie, paesi finanziatori e agenzie hanno firmato “The Grand Bargain[25], anche conosciuto come “Localization[26], ossia un accordo che prevede maggiore supporto e designa diversi strumenti di finanziamento in favore dei soccorritori locali e nazionali al fine di permettere un’adeguata risposta umanitaria alla crisi. Dunque, l’obiettivo di questo progetto è l’allocazione di risorse umanitarie e di fondi direttamente nelle mani dei soccorritori locali, in modo che questi possano poi direttamente utilizzarli nel miglior modo possibile, in quanto maggiormente consapevoli delle esigenze locali. In sostanza, quando parliamo di “locali”, facciamo riferimento a quegli attori più prossimi alle autorità nazionali, trattandosi in genere di organizzazioni sociali e civili. Subito dopo la grande migrazione del 2017, il Cox’s Bazar è diventato il fulcro di una risposta umanitaria di larga scala grazie, dapprima, agli sforzi di numerosi volontari, e, in seguito, nel giro di poche settimane, anche grazie all’intervento di diversi attori internazionali, i quali, entrando in contatto con vari governi nazionali, eserciti e Agenzie delle Nazioni Unite, hanno trasferito il rifugio in questione in una dimensione prettamente politica. Oggi, la risposta umanitaria è coordinata dal Primo Ministro del Bangladesh in collaborazione con gli altri ministri del governo, attraverso una Task Force nazionale presieduta dal Ministro degli Esteri. Inoltre, l’azione viene ricondotta a livello distrettuale, nel Cox’s Bazar, grazie all’Ufficio del Commissario per il Soccorso e il Rimpatrio dei rifugiati (RRRC) e, altresì, in particolare, al c.d. “Inter Sector Coordination Group” (ISCG), ossia un meccanismo di risposta umanitaria subordinato al “Strategic Executive Group” (SEG), composto dai responsabili delle varie organizzazioni umanitarie, dai finanziatori e dai rappresentanti nazionali delle ONG, e presieduta congiuntamente dal Coordinatore Residente delle Nazioni Unite (RC)[27], dall’ Organizzazione Internazionale per l’Immigrazione (IOM)[28] e dall’Alto Commissario della Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Dinanzi a questo grande meccanismo di aiuti umanitari, sono emerse, tuttavia, talune problematicità non di poco conto[29]: è stato rilevato, infatti, che la parte più povera della popolazione ospitante, residente in Bangladesh, non stia ricevendo la giusta attenzione, ossia questa, soprattutto nelle zone del Teknaf e dell’Ukhiya, viene del tutto ignorata sia dai soccorritori locali che dalle agenzie umanitarie internazionali. In effetti, tutti gli aiuti umanitari, o quasi, provenienti dalla comunità internazionale, sono devoluti alla popolazione Rohingya. Al contempo, però, non mancano denunce da parte di rappresentanti di varie ONG, i quali segnalano che non è corretto parlare di mancanza di sostegni umanitari alla comunità locale, in quanto, il più delle volte, quando anche questi vengono corrisposti ai vari consigli amministrativi locali, ossia i c.d. “Union Parishad[30], tali amministrazioni locali finiscono per intascarsi quanto ricevuto. Dunque, ad oggi, una percentuale significativa della popolazione più povera residente in Bangladesh non ha ricevuto alcun tipo di assistenza. In aggiunta, tali comunità locali non hanno alcuna rilevanza nel processo di designazione dei destinatari e di distribuzione degli aiuti umanitari: è stato constatato, infatti, che l’83% dei loro componenti non è mai stato chiamato in causa né da ONG, né dal governo, per discutere la conduzione di tali operazioni.

La risposta della popolazione ospitante, residente in Bangladesh, ha subito un’evoluzione nel corso del tempo. A tal proposito, è possibile identificare tre diverse fasi, ognuna delle quali è caratterizzata da un diverso approccio delle comunità locali rispetto alla grande migrazione dei Rohingya. Inizialmente, tali comunità dimostrano grande solidarietà verso i rifugiati, prestando loro assistenza rispetto ai bisogni primari, quali cibo, ospitalità, vestiti e medicinali. Le motivazioni alla base di tale accoglienza possono essere molteplici. Innanzitutto, le analogie religiose: ad eccezione di un piccolo gruppo Hindu e pochi altri Rohingya di matrice Buddista, la maggior parte dei rifugiati in Cox’s Bazar sono musulmani come la popolazione residente in Bangladesh. In secondo luogo, la vicinanza culturale, data soprattutto dalle due lingue pressocché identiche. Inoltre, le somiglianze e gli elementi comuni nell’aspetto fisico. In aggiunta, è importante segnalare la forte relazione tra le due popolazioni stabilitasi tra il XVIII e XIX secolo, in occasione di alcuni scambi culturali e commerciali, che ha portato alla creazione di una “frontier culture[31]. Infatti, durante il periodo coloniale, a causa dell’annessione dell’Arakan all’Inghilterra nel 1826, molte persone dal Bangladesh sono state indotte a spostarsi nella nuova regione di dominazione inglese per via delle numerose terre coltivabili e impiegabili per la produzione di riso. Nondimeno, anche la collocazione geografica ha influenzato l’approccio solidaristico della popolazione locale: la maggior parte dei gruppi etnici minoritari del Myanmar vivevano nelle zone confinanti con il Bangladesh (in particolare i Rohingya), India, Cina e Thailandia. Per via di questa vicinanza, queste diverse comunità, entrando in contatto, hanno finito per influenzarsi e mescolarsi reciprocamente, anche grazie a diversi matrimoni che hanno avuto luogo tra i Rohingya e i Bangladesi. Infine, su un piano prettamente storico, un ulteriore fattore di influenza è stata la Guerra di liberazione del Bangladesh del 1971, in occasione della quale molti Bangladesi sono fuggiti in India per via di una forte repressione militare da parte delle forze armate Pakistane. Di conseguenza, questa vicenda storica, soprattutto secondo le élites politiche del Bangladesh, ricorda ampiamente l’esperienza corrente dei Rohingya. La prima fase dura all’incirca da agosto 2017 fino alla fine di novembre dello stesso anno. La seconda, invece, inizia quando le organizzazioni internazionali e locali prendono il sopravvento nella risposta umanitaria, dal dicembre 2017 fino al primo tentativo di rimpatrio dei rifugiati nel novembre del 2018. In questa fase, le comunità locali cominciano a percepire le difficoltà e problematicità della situazione, iniziando soprattutto a preoccuparsi della persistenza della crisi emergenziale. Queste riflessioni portano, infine, alla terza fase, in cui i residenti ospitanti comprendono che la situazione, così prolungata nel tempo, è ormai precipitata, importando così ingenti conseguenze sulla stessa popolazione locale e sull’economia nazionale, tra cui salari più bassi, maggiore tassazione, minore offerta di lavoro e criticità nell’ambito della sanità e dell’ordine pubblico. In questa ultima fase, protrattasi sino ad oggi, la solidarietà lascia il posto a un diffuso risentimento. Peraltro, insorge una forte critica verso le modalità di distribuzione degli aiuti umanitari e dei fondi inviati dalla comunità internazionale, in quanto questi ignorano completamente le esigenze dei residenti locali più poveri, in favore dei quali non viene allocata alcuna risorsa.

In conclusione, analizzando la situazione in una prospettiva futura, non è ancora possibile prevedere un eventuale rimpatrio dei Rohingya in Myanmar. Le autorità birmane, ancora oggi, non hanno preso in carico i problemi fondamentali della negazione della cittadinanza, della privazione della libertà di circolazione, della sicurezza e di altri diritti violati. Attualmente, l’unica strada percorribile di medio-termine consiste nel rafforzamento della risposta umanitaria, sia sul piano internazionale che locale. In questo senso, sono già stati fatti grandi passi in avanti: ad esempio, oggi le condizioni dei campi sono notevolmente migliorate rispetto al passato, grazie all’implementazione dei drenaggi, al perfezionamento delle strade e ai diversi approvvigionamenti di beni essenziali. Tuttavia, questo non basta per porre fine alla crisi. È necessario continuare a mettere pressione alle autorità governative del Myanmar affinché queste permettano il reinsediamento della popolazione Rohingya nel loro paese di origine, purché questo avvenga nel rispetto dei diritti fondamentali della persona e del divieto di discriminazione, così come sanciti dal diritto internazionale umanitario.

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https://unsdg.un.org/2030-agenda/leadership/the-resident-coordinator

https://www.iom.int/mission


[1] Alim, Md. Abdul. “The International Humanitarian Law Principles and Its Applicability to Rohingya Situations.” Indian Journal of Law and Justice, vol. 9, no. 2, 2018, pp. 11-15. HeinOnline.

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Ibidem

[5] Ivi

[6] I Bengalesi sono una popolazione originaria del Bengala, una regione nord-orientale del subcontinente indiano, la cui maggior parte è divisa tra il Bangladesh e lo Stato federato indiano del Bengala Occidentale.

[7] Tatmadaw è la denominazione ufficiale dell’esercito birmano del Myanmar. In proposito: Ansar, Anas, and Abu Faisal Md. Khaled. “From Solidarity to Resistance: Host Communities’ Evolving Response to the Rohingya Refugees in Bangladesh. Journal of International Humanitarian Action”, 6, 2021, pp. 1-2. HeinOnline.

[8] Mohammad, Nour. “The Problem of Rohingya Refugees in Bangladesh: A Critical Analysis.” Kathmandu School of Law Review, vol. 5, no. 2,2017, pp. 23-24. HeinOnline.

[9] Il Cox’s Bazar è una delle aree più povere e remote del Bangladesh, situata nella costa sud-est a confine con lo Stato-Rakhine del Myanmar.

[10] Ovi, Dewan Alif, and Tanvira Mridha. “Education Rights of Rohingya Refugees Children in Bangladesh: An Analysis.” Jus Corpus Law Journal, vol. 2, no. 2, 2021 – 2022, pp. 27-28. HeinOnline.

[11] Ovi, Dewan Alif, and Tanvira Mridha. “Education Rights of Rohingya Refugees Children in Bangladesh: An Analysis.” Jus Corpus Law Journal, vol. 2, no. 2, 2021 – 2022, pp. 39. HeinOnline.

[12] Ibidem

[13] Alim, Md. Abdul. “The International Humanitarian Law Principles and Its Applicability to Rohingya Situations.” Indian Journal of Law and Justice, vol. 9, no. 2, 2018, pp. 9-11. HeinOnline.

[14]  Ivi

[15] Art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951.

[16] https://www.unhcr.org/about-us.html

[17] Art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951.

[18] https://www.altalex.com/documents/news/2019/12/12/rifugiati-principio-di-non-refoulement

[19] Khan, Abdul Kadir, and Tina Kontinen. “Impediments to Localization Agenda: Humanitarian Space in the Rohingya Response in Bangladesh.” Journal of International Humanitarian Action, 7, 2022, pp. 4-5. HeinOnline.

[20] Madrasa è il termine arabo impiegato per qualsiasi tipo di istituto di istruzione ed educazione, sia laici che religiosi (da intendersi come qualsiasi religione), sia di istruzione primaria che superiore.

[21] Alim, Md. Abdul. “The International Humanitarian Law Principles and Its Applicability to Rohingya Situations.” Indian Journal of Law and Justice, vol. 9, no. 2, 2018, pp. 11-15. HeinOnline.

[22] Ethnic cleansing consiste nell’espulsione di un gruppo dalle proprie abitazioni, senza che questa comporti ulteriormente la distruzione dell’integrità fisica dei soggetti. Questa fattispecie, dunque, non è sufficiente a integrare genocidio.

[23] La definizione di genocidio è riportata all’Art. 2 della “Genocide Convention” (Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide, 1948): “In the present Convention, genocide means any of the following acts committed with intent to destroy, in whole or in part, a national, ethnical, racial or religious group, as such:(a) Killing members of the group; (b) Causing serious bodily or mental harm to members of the group; (c) Deliberately inflicting on the group conditions of life calculated to bring about its physical destruction in whole or in part; (d) Imposing measures intended to prevent births within the group; (e) Forcibly transferring children of the group to another group

[24] Alam, Mayesha. “Enduring Entanglement: The Multi-Sectoral Impact of the Rohingya Crisis on Neighboring Bangladesh.” Georgetown Journal of International Affairs, 19, 2018, pp. 20-26. HeinOnline.

[25] Khan, Abdul Kadir, and Tina Kontinen. “Impediments to Localization Agenda: Humanitarian Space in the Rohingya Response in Bangladesh.” Journal of International Humanitarian Action, 7, 2022, pp. 1-15. HeinOnline.

[26] Ibidem

[27] https://unsdg.un.org/2030-agenda/leadership/the-resident-coordinator

[28] https://www.iom.int/mission

[29] Ansar, Anas, and Abu Faisal Md. Khaled. “From Solidarity to Resistance: Host Communities’ Evolving Response to the Rohingya Refugees in Bangladesh.” Journal of International Humanitarian Action, 6, 2021, pp. 1-14. HeinOnline.

[30] Ansar, Anas, and Abu Faisal Md. Khaled. “From Solidarity to Resistance: Host Communities’ Evolving Response to the Rohingya Refugees in Bangladesh.” Journal of International Humanitarian Action, 6, 2021, p. 9. HeinOnline.

[31] Ansar, Anas, and Abu Faisal Md. Khaled. “From Solidarity to Resistance: Host Communities’ Evolving Response to the Rohingya Refugees in Bangladesh.”Journal of International Humanitarian Action, 6, 2021, pp. 3-6. HeinOnline.

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