Consiglio di Stato sezione IV sentenza 27 aprile 2012 n 2472
Forze Armate, accesso, discriminazioni, sesso, prove fisiche, punteggio
La quarta sezione
(Presidente Giaccardi – Relatore Greco)
Fatto
La signora Valentina M. ha impugnato, chiedendone la riforma previa sospensione
dell’esecuzione, la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio ha respinto il ricorso da lei
proposto avverso gli atti del concorso indetto con bando del 14 dicembre 2006 per l’ammissione
di 141 allievi della 1^ classe dei corsi normali dell’Accademia Navale di Livorno per l’anno
accademico 2007/2008.
A sostegno dell’appello, ha dedotto:
1) motivazione erronea, per inesatta individuazione dei presupposti di riferimento;
motivazione incongrua, irragionevole, contraddittoria, illogica, apodittica e irrazionale;
violazione dell’art. 25, comma 2, del decreto legislativo 11 aprile 2006, nr. 198 (con riferimento
alla reiezione delle censure articolate avverso il bando di concorso, nella parte in cui
equiparava le prove di efficienza fisica alle prove di esame, prevedendo per esse l’assegnazione
di un punteggio, senza introdurre correttivi che tenessero conto della diversità fisiologica dei
sessi);
2) omesso esame delle censure proposte con il ricorso in primo grado, siccome erroneamente
definite “teoriche e prive di riflesso pratico” (con riferimento alle ulteriori doglianze con cui si
era denunciata violazione del principio di eguaglianza e del divieto di discriminazione tra i
sessi).
Il Ministero della Difesa, nel costituirsi, ha depositato ampia relazione e documenti a sostegno
della correttezza del proprio operato, con argomentazioni cui la parte appellante ha replicato
con successive memorie.
All’esito della camera di consiglio del 6 ottobre 2009, la Sezione ha respinto la domanda
cautelare formulata dalla appellante.
All’udienza del 27 marzo 2012, la causa è stata trattenuta in decisione.
Diritto
1. L’odierna appellante, signora Valentina M., ha partecipato al concorso indetto (d.m. 14
dicembre 2006) per l’ammissione di allievi della 1^ classe dei corsi normali dell’Accademia
Navale di Livorno per l’anno accademico 2007/2008, e in particolare alla prova per
l’ammissione a 13 posti (poi ridotti a 10) nel Corpo Sanitario Militare Marittimo. All’esito delle prove scritte e orali sostenute, ha riportato il punteggio medio di 23/30,
corrispondente al tredicesimo posto in graduatoria (e, quindi, a posizione utile per risultare
vincitrice a seguito di rinuncia di tre dei vincitori); tuttavia, a seguito delle prove di efficienza
fisica, il punteggio conseguito per le stesse ha comportato il suo posizionarsi al diciannovesimo
posto della graduatoria finale, e quindi l’esclusione dal novero dei vincitori.
Pertanto, la sig.ra M. ha impugnato l’esito della procedura concorsuale unitamente al bando
della stessa, nella parte in cui: a) prevedeva per le prove fisiche l’assegnazione di un punteggio
di merito, che andava a sommarsi a quelli conseguiti dai candidati nelle precedenti prove
d’esame; b) non differenziava, a tal fine, fra i candidati di sesso diverso in ragione delle
diversità fisiologiche tra i due sessi.
Secondo l’istante, tali caratteristiche del bando di concorso avevano l’effetto di determinare
una discriminazione tra i sessi, in violazione del divieto di discriminazione indiretta contenuto
nel decreto legislativo 11 aprile 2006, nr. 198 (e specificamente, per quanto concerne l’accesso
alle Forze Armate, dagli artt. 32 e 33 di detto decreto), come comprovato dalla circostanza che
i punteggi medi riportati dai candidati di sesso maschile nelle prove fisiche erano ampiamente
superiori a quelli dei candidati di sesso femminile.
Il T.A.R. del Lazio, nel respingere il ricorso ha osservato:
– che il possesso di requisiti minimi di efficienza fisica per l’arruolamento nelle Forze Armate
si giustifica in ragione delle funzioni che il personale da reclutare è chiamato ad assolvere,
corrispondendo quindi a un’esigenza connaturale alla policy delle Forze Armate stesse;
– che, conseguentemente, la previsione di prove di efficienza fisica appare immune da profili
discriminatori ai sensi degli artt. 3, comma 3, 4 e 4 bis del decreto legislativo 9 luglio 2003, nr.
216, come modificato dal d.l. 8 aprile 2008, nr. 59, convertito nella legge 6 giugno 2008, nr.
101;
– che, in ogni caso, i requisiti minimi di efficienza previsti dal bando – ancorché uguali per
uomini e donne – erano del tutto alla portata di qualunque candidato, come dimostrato dal
fatto che più di un candidato di sesso femminile è rientrato fra i vincitori;
– che, peraltro, la stessa ricorrente, pur risultando insufficiente in alcune delle prove fisiche,
ha superato il punteggio minimo complessivo di 1 previsto dal bando, ed ha quindi superato le
prove pur senza raggiungere un risultato finale idoneo a consentirle di rientrare fra i vincitori;
– che, di conseguenza, le doglianze formulate in ricorso erano del tutto teoriche e prive di
ricadute pratiche.
Avverso la richiamata sentenza del T.A.R. capitolino, è insorta l’originaria ricorrente con
l’appello oggi all’esame della Sezione.
2. Tutto ciò premesso, l’appello si appalesa fondato e pertanto meritevole di accoglimento. 3. Innanzi tutto, la Sezione non condivide – e, prima ancora, fatica a comprendere –
l’argomentazione incentrata su una sorta di “prova di resistenza” sulla base della quale il
primo giudice ha ritenuto non meritevoli di approfondimento le censure in diritto articolate
dalla ricorrente nel merito della disciplina concorsuale.
In sostanza, in sentenza si assume che l’istante non avrebbe titolo né interesse a dolersi di
alcunché, avendo di fatto superato le prove di efficienza fisica la cui illegittimità intenderebbe
far valere: ciò in quanto il bando di concorso prevedeva per il superamento delle dette prove
una soglia minima di punteggio (superata dalla ricorrente), tale da consentire un esito positivo
anche per i candidati che non avessero superato due delle quattro prove de quibus.
È del tutto evidente l’inaccettabilità di questo argomentare, con il quale si oblitera, da un lato,
che la prova fisica non può essere considerata in modo “atomistico” e avulso da una
considerazione globale dei risultati concorsuali (essendo ovvio che il “bene della vita” cui la
ricorrente aspira è, appunto, il superamento del concorso nel suo complesso), e per altro verso
che col ricorso introduttivo è stata censurata anche e soprattutto la disciplina concorsuale in
parte qua, considerata causa determinante dell’esito sfavorevole riportato dall’interessata.
4. Ciò premesso, è evidente che, prima ancora di esaminare le circostanze di fatto dalle quali
l’Amministrazione e il T.A.R. hanno ritenuto di desumere l’irrilevanza delle doglianze attoree,
occorre approfondire nel merito le censure articolate dalla ricorrente (e riproposte con l’odierno
appello) in punto di violazione, nella lex specialis del concorso, del divieto di discriminazione
tra i sessi.
4.1. Con riguardo alla vicenda che occupa, vengono in rilievo il generale divieto di
discriminazione nell’accesso al lavoro di cui all’art. 27 del richiamato d.lgs. nr. 198 del 2006 e,
più specificamente, l’analogo divieto vigente per l’accesso alle Forze Armate ai sensi del
successivo art. 33; per quanto qui interessa, occorre evitare sia le discriminazioni dirette che
quelle indirette, definite dal precedente art. 25, rispettivamente, come “qualsiasi disposizione,
criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un
comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i
lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a
quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga” (comma 1) e
“quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento
apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una
posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino
requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i
mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari” (comma 2).
Per quel che concerne il reclutamento del personale militare, il già citato art. 33 stabilisce che
lo stesso “è effettuato su base volontaria secondo le disposizioni vigenti per il personale maschile, salvo quanto previsto per l’accertamento dell’idoneità al servizio militare del
personale femminile dai decreti di cui all’articolo 1, comma 5, della legge 20 ottobre 1999, n.
380, e salve le aliquote d’ingresso eventualmente previste, in via eccezionale, con il decreto
adottato ai sensi della legge medesima”.
Il richiamato art. 1 della legge nr. 380 del 1999 (in vigore all’epoca del concorso di che
trattasi), nel demandare a successivi interventi la regolamentazione del reclutamento del
personale femminile, ribadisce che fra i criteri direttivi di tale disciplina avrebbe dovuto
rientrare quello di “assicurare la realizzazione del principio delle pari opportunità uomo-
donna, nel reclutamento del personale militare, nell’accesso ai diversi gradi, qualifiche,
specializzazioni ed incarichi del personale delle Forze armate e del Corpo della guardia di
finanza” (comma 2, lettera a).
4.2. Tutto ciò premesso, ad avviso della Sezione è immune da censure la scelta
dell’Amministrazione di qualificare nel bando concorsuale le prove di efficienza fisica alla
stessa stregua delle prove d’esame (scritte e orali), prevedendo per esse l’attribuzione ai
candidati di un punteggio destinato a sommarsi a quelli riportati nelle altre prove concorsuali,
e quindi a incidere nella determinazione della graduatoria finale.
Tale opzione, ancorché forse contraddittoria rispetto alla conclamata volontà di considerare le
prove fisiche come finalizzate unicamente all’accertamento dell’idoneità fisica dei candidati
(ciò che evidentemente ne avrebbe comportato una disciplina diversa, la quale le ponesse a
valle dello svolgimento del concorso e della formazione della graduatoria), non risulta ex se
contrastante con i principi innanzi richiamati in tema di pari opportunità fra i generi: e, anzi,
risulta effettivamente aderente alle esigenze evidenziate dall’Amministrazione come connesse
alla policy del reclutamento nelle Forze Armate, nel senso della necessità di assicurare che a
queste accedano soggetti fisicamente in grado di assolvere i compiti d’istituto.
Ciò che, invece, è suscettibile di produrre effetti indiretti discriminatori e distorsivi degli esiti
della procedura è la previsione di identici punteggi per i candidati dei due sessi, sia in termini
assoluti che con riguardo all’individuazione della “soglia” minima che gli aspiranti dovevano
superare (in ciascuna delle quattro prove e nel punteggio complessivo) per non essere giudicati
inidonei.
Tale identità si scontra con il dato di comune esperienza per cui le caratteristiche dei due sessi
comportano potenzialità differenziate fra di essi quanto alla possibilità di conseguimento di
determinati standard di rendimento nelle attività comportanti sforzo fisico; in altri termini (e
per restare al caso che occupa), come è dato evincere da una seppur sommaria consultazione
degli annali relativi a determinate specialità sportive, ben diversi sono i risultati che gli
uomini e le donne possono conseguire quanto al tempo impiegato per percorrere 1000 metri di
corsa, ovvero 25 metri a nuoto, o ancora per eseguire un certo numero di flessioni sulle braccia. Pertanto, una disciplina concorsuale che fissi identici livelli di riferimento per i due sessi nella
valutazione delle prove fisiche appare ex se contrastante con gli evocati principi in tema di
pari opportunità, oltre che con il più generale principio di eguaglianza (nella comune accezione
che non solo impone di trattare in modo identico situazioni identiche, ma impedisce anche di
trattare in modo identico situazioni oggettivamente diverse).
5. A fronte dei rilievi che precedono, poco pregio hanno gli opposti rilievi dell’Amministrazione
appellata, laddove evidenzia il livello poco elevato delle ricordate “soglie” minime previste per
le prove di efficienza, ciò che sarebbe dimostrato dal fatto che più di un candidato di sesso
femminile è rientrato fra i vincitori.
Innanzi tutto, l’argomentazione risulta basata su un’impropria valutazione “empirica” ex post,
laddove è evidente che la verifica sulla sussistenza o meno di profili discriminatori va condotta
ex ante e la sua conclusione positiva non è esclusa per il semplice fatto che, malgrado la
sussistenza della discriminazione, taluno dei soggetti discriminati sia riuscito – in ipotesi – a
superare egualmente la prova concorsuale.
In secondo luogo, il carattere discriminatorio della disciplina va apprezzato non soltanto con
riferimento alla sua idoneità a impedire in toto il superamento del concorso, ma anche sotto il
profilo della sua capacità di incidere sui punteggi conseguiti e quindi sulla graduatoria finale,
in modo da precostituire un’ingiusta posizione di vantaggio per i candidati di sesso maschile.
6. In conclusione, alla luce dei rilievi che precedono s’impone la riforma della sentenza
impugnata e l’accoglimento del ricorso di primo grado, con l’annullamento degli atti impugnati
nei limiti dell’interesse della ricorrente (e, quindi, con l’obbligo dell’Amministrazione di
ripetere le prove fisiche sulla scorta di una disciplina immune dai vizi qui ravvisati).
7. In considerazione della novità delle questioni esaminate, sussistono giusti motivi per
compensare integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando
sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza
impugnata, accoglie il ricorso di primo grado nei sensi di cui in motivazione.
Compensa tra le parti le spese del doppio grado del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.