CONCORRENZA SLEALE: STORNO DI CLIENTI DA PARTE DI UN EX DIPENDENTE DELL’AZIENDA
A cura dell’ Avv. Giuliana Degl’Innocenti
La fattispecie da prendere in considerazione ai fini che qui interessa è quella della concorrenza sleale ed in particolar modo “lo storno dei clienti da parte di un ex dipendente”. Sul punto la normativa in questione prevede che costituisce condotta di concorrenza sleale lo storno di clienti di un’impresa effettuato da un ex dipendente avvalendosi di informazioni riservate. Presupposto per la configurabilità di un atto di concorrenza sleale è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, e la relativa idoneità della condotta di uno dei concorrenti ad arrecare pregiudizio all’altro, pur in assenza di un danno attuale. Su detta circostanza, infatti, si rileva che per integrare astrattamente tale situazione è sufficiente il contemporaneo esercizio, da parte di più imprenditori, di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune (così: Cass. 99/159). Si evidenzia, infatti, come nel momento in cui l’ex dipendente utilizza la professionalità acquisita alle dipendenze di altro imprenditore, si applicano le regole della correttezza professionale, che rinviano al buon costume commerciale, la cui linea di confine può individuarsi nel divieto della concorrenza parassitaria, volta a sviare a proprio vantaggio i valori aziendali di imprese preesistenti, ed in particolare quella di provenienza. E’ doveroso però fare presente come l’illiceità della condotta concorrenziale non deve essere ricercata episodicamente, bensì desunta dalla qualificazione tendenziale dell’insieme e dalla manovra posta in essere per danneggiare il concorrente, o per approfittare sistematicamente del suo avviamento sul mercato.
La lacuna, però, all’interno della normativa in questione, che a mio avviso emerge analizzando la presente disciplina, riguarda tutte quelle situazioni concernenti ipotesi di atti pregiudizievoli posti in essere ai danni di una impresa da parte di soggetti non qualificabili come imprenditori: è il caso di liberi professionisti o lavoratori autonomi in generale, che realizzino detti comportamenti lesivi nei confronti dell’azienda per la quale hanno lavorato in passato, giovandosi di conoscenze e contatti acquisiti durante la loro permanenza alle dipendenze della predetta impresa, senza che sia, tuttavia, configurabile nella loro attività successiva, un’organizzazione di tipo imprenditoriale e quindi senza poter essere assoggettati alla legislazione in materia di atti di concorrenza sleale. Sia la dottrina che la giurisprudenza sul punto, infatti, è molto chiara stabilendo che per le professioni intellettuali la qualifica di imprenditore è esclusa in via di principio dal legislatore. Si applicano le norme imprenditoriali alle professioni intellettuali solo se l’esercizio della professione costituisce elemento di una attività organizzata in forma di impresa. L’artista o il professionista che svolge la propria attività da solo non diventerà mai imprenditore nemmeno se accorpa diversi collaboratori per simboleggiare un’impresa organizzata. Occorrerebbe, pertanto, un intervento da parte del Legislatore al fine di poter prevedere forme di tutela specifica anche per tali ipotesi che sfuggono agevolmente alla normativa soprarichiamata per i motivi anzidetti creando non pochi disagi.
Per quanto attiene, invece, ai rimedi previsti dall’ordinamento per far fronte ai pregiudizi prodotti dal comportamento anticoncorrenziale si annota che l’imprenditore pregiudicato dall’atto ha a disposizione :
1) L’azione inibitoria: la disciplina sanzionatoria della concorrenza sleale prevede, infatti, la possibilità di ottenere una tutela specifica (inibitoria). Non sono espressamente previste forme di tutela provvisoria cautelare. Si ritiene perciò unanimemente che possa applicarsi, in materia, l’art. 700 c.p.c.. La sentenza inibitoria deve contenere anche gli opportuni provvedimenti affinché siano eliminati gli effetti dell’atto pregiudizievole.
2) Il risarcimento del danno: per ottenere tale forma di tutela derivante dalla concorrenza sleale l’art. 2600 c.c. richiama il criterio generale di imputazione soggettiva dell’art. 2043 c.c. Va dunque, in linea di principio, sempre provato il danno, come presupposto del risarcimento e il nesso di causalità.
3) La pubblicazione della sentenza. La giurisprudenza maggioritaria, a differenza della dottrina, tende a valorizzare il collegamento testuale tra la condanna alla pubblicazione e l’accertamento dell’elemento soggettivo (dolo o colpa, che si presume), ed a sfumare il collegamento con la condanna risarcitoria.