PATTO DI QUOTA LITE : ILLEGITTIMO SE NON PROPORZIONATO AL GIUDIZIO
Cass. Civ. SS.UU. sent. 19.10.2011 n° 21585
di Alessandra Carmen Impieri
In una recente pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, sent. 19.10.2011 n° 21585, è stato affrontato l’annoso problema della legittimità o meno del patto di quota lite, ossia l’accordo tra avvocato e cliente in base al quale si attribuisce al primo, quale compenso della sua attività professionale, una parte (quota) dei beni o diritti in lite, oppure si ragguaglia l’onorario al valore dei beni o dei diritti litigiosi, in ragione di percentuale o di una determinata somma.
Il divieto del patto di quota lite era in vigore fin dai tempi del diritto romano. Ulpiano è testimone di quanto fosse cosa lodevole per il difensore anticipare le spese di lite per poi ripeterle dal cliente, mentre non gli era permesso pattuire la corresponsione della metà dell’oggetto della lite.
Anche nel diritto intermedio tale divieto era sancito, perché una pattuizione di tal genere era considerato contra bonos mores. Nelle legislazioni preunitarie era considerato un reato, in quanto la commistione di interessi che il patto può creare ha sempre suscitato spavento e perché si è sempre temuto che i professionisti “abusino del bisogno che si può avere del loro ministero per far così abbandonare una certa parte del credito”, come scrivevano Diderot e D’Alembert.
Il Codice Penale del Regno delle Due Sicilie, il Parmense, il Sardo, il Toscano, l’Estense, punivano il difensore che approfittando dello stato di soggezione del proprio cliente, aveva preteso un compenso economicamente troppo oneroso.
Il preambolo dell’attuale Codice Deontologico Forense evidenzia che l’avvocato deve svolgere “la propria attività in piena libertà, autonomia ed indipendenza, per tutelare i diritti e gli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e contribuendo in tal modo all’attuazione dell’ordinamento per i fini della giustizia”. In dottrina si parla spesso del c.d. “principio di estraneità” del rapporto tra professionista e cliente. Il divieto del patto di quota lite nel nostro ordinamento rappresentava una norma eccezionale, prevista solo per avvocati e patrocinatori e non per le altre categorie di liberi professionisti: si tarttava di una vera e propria eccezione al principio generale di libertà negoziale.
Prima di iniziare la disamina degli importanti principi della sentenza in commento, occorre richiamare la normativa di riferimento:
– l’art. 2233, III comma, c.c. ante e post art. 2, comma II bis, del D.L. 4 luglio 2006, n. 233 (meglio noto come Decreto Bersani) convertito con L. 248 del 4 agosto 2006;
– l’art. 1261, I comma, c.c.;
– l’art. 45 del Codice Deontologico del Consiglio Nazionale Forense.
Prima dell’entrata in vigore del Decreto Bersani, l’art. 2233, III comma, c.c. stabiliva che “gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni”.
In linea con tale disposizione il dettato dell’art. 45 del Codice del Consiglio Nazionale Forense che, sancendo il divieto della “pattuizione diretta ad ottenere, a titolo di corrispettivo della prestazione professionale una percentuale del bene controverso ovvero una percentuale rapportata al valore della lite”, prevedeva una responsabilità anche disciplinare per il professionista .
Il cd. “patto di quota lite” era vietato in quanto deroga alle regole del D.M. 127/04 (Tariffario Forense).
Infatti l’avvocato in tal modo sarebbe stato retribuito a percentuale sul ricavato e non sulla base dell’attività effettivamente prestata, potendo ottenere in astratto guadagni elevatissimi con un’attività minima o guadagni minimi nonostante una consistente attività professionale.
Inoltre il patto di quota lite, collegando la retribuzione del professionista all’esito della controversia, avrebbe trasformato un’obbligazione di mezzi in un’obbligazione di risultato[1].
Intanto si consentiva la pattuizione scritta di un supplemento di compenso in aggiunta a quello previsto, in caso di esito favorevole della lite, purché contenuto in limiti ragionevoli e giustificato dal risultato conseguito (cd. palmario) in quanto non in sostituzione del compenso, ma in aggiunta all’onorario a titolo di premio o di compenso straordinario, in conseguenza dell’importanza delle prestazioni professionali o del valore della controversia[2].
Convertito in legge il Decreto Bersani, l’art. 2233, III comma, c.c., stabilisce che “sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati e i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali”.
La disposizione non ha soppresso direttamente ed espressamente il divieto del patto di quota lite in quanto essa si riferisce in generale ai patti sui compensi. Tuttavia la sostituzione del terzo comma dell’art. 2233 c.c. implica che viene meno il divieto esplicito e preciso concernente i patti “relativi a beni che formano oggetto della controversia”.
Dunque è valido un patto di quota lite purché l’accordo rivesta la forma scritta.
Sotto il profilo civilistico il patto ha efficacia solo tra le parti, non potendo essere opposto ai terzi.
La riforma e l’abolizione del divieto di patto di quota lite avrebbe potuto avere conseguenze discutibili come il disinteresse degli avvocati nei confronti di cause di scarso valore economico, oppure l’accaparramento di quote consistenti del risarcimento ottenuto per il cliente, con grave compromissione dell’esercizio dei diritti degli utenti.
Tuttavia l’art. 2, III comma, D.L. 4 luglio 2006 n° 223, così come convertito dalla L. 4 agosto 2006 n° 248 prescriveva, entro un anno dalla sua entrata in vigore, l’adeguamento delle disposizioni deontologiche, a pena di nullità delle stesse[3].
La versione attuale dell’art. 45 del Codice Deontologico consente all’avvocato di “pattuire con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, fermo il divieto dell’art. 1261 c.c. e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta, fermo il principio disposto dall’art. 2233 del Codice Civile[4]”.
Veniamo ora all’esame della massima de quo: “E’ illegittimo l’aumento del compenso richiesto in virtù del patto di quota lite, se sproporzionato rispetto all’impegno del professionista ovvero al risultato positivo della controversia. Infatti il compenso in questione è un compenso aggiuntivo per l’esito favorevole della causa di risarcimento danni, compenso che non deve essere tale da rappresentare un’ingiustificata falcidia, a favore del difensore, dei vantaggi economici derivanti dalla vittoria della lite, perché a tanto osta il divieto del patto di quota lite (secondo la previgente formulazione dell’art. 45 del Codice Deontologico Forense, applicabile nel caso ratione temporis) che non può essere dissimulato dalla previsione pattizia di un palmario per l’esito favorevole della lite”.
Il caso di specie riguardava un avvocato che aveva impugnato innanzi alla Corte di Cassazione la decisione con cui il Consiglio Nazionale Forense, in parziale riforma della pronuncia del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trani, gli aveva comminato la sanzione della censura in luogo di quella irrogata dal COA della sospensione dalla professione forense per due mesi.
L’addebito contestato riguardava la violazione dell’art. 45 del Codice Deontologico Forense, perché il professionista aveva concordato con il proprio assistito, in aggiunta al compenso previsto, un supplemento ulteriore, non contenuto in limiti ragionevoli, né giustificato dal risultato conseguito, in riferimento alla domanda introduttiva.
I giudici di Piazza Cavour innanzitutto hanno ritenuto inammissibile la richiesta di revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti in punto di fatto e delle valutazioni delle risultanze processuali operate dal Consiglio nazionale Forense ricordando che le stesse Sezioni Unite si erano già pronunciate sul punto[5].
Inoltre la Cassazione ha analizzato il concetto di proporzionalità del corrispettivo ancorandolo a due parametri:
- l’attività professionale svolta;
- il risultato conseguito.
Il compenso aggiuntivo richiesto dal professionista, in caso di esito favorevole della causa di risarcimento danni, non deve essere tale da rappresentare un’ingiustificata richiesta, a favore del difensore, dei vantaggi economici derivanti dalla vittoria della lite, in quanto ciò si pone in palese violazione del divieto di patto di quota lite (secondo la vecchia formulazione dell’art. 45 del Codice deontologico Forense, applicabile alla fattispecie in oggetto).
Nella fattispecie la rilevanza economica del compenso pattuito in relazione al valore della lite è stata ritenuta evocativa di un vietato “patto di quota lite” e quindi non proporzionata.
Ricordiamo che in precedenza la giurisprudenza di legittimità aveva giustificato il divieto di patto di quota lite o in base all’esigenza di assoggettare ad una disciplina uniforme, garantita da controlli pubblicistici, il contenuto patrimoniale del rapporto professionale, al fine di tutelare sia l’interesse del cliente, sia la dignità e la moralità del professionista[6], o viceversa alla considerazione che la dignità della professione forense risulterebbe pregiudicata tutte le volte in cui nella convenzione concernente il compenso sia comunque ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione giudiziale o stragiudiziale richiesta[7].
Da ultimo ricordiamo l’ultima pronuncia di legittimità in merito[8] la quale ha avuto modo di precisare, che, sul piano generale, non sussiste il patto di quota lite, non solo nel caso di convenzione che preveda il pagamento al difensore, sia in caso di vittoria che di esito sfavorevole della causa, di una somma di denaro ma non in sostituzione, bensì in aggiunta all’onorario, a titolo di premio (cosiddetto palmario) o di compenso straordinario per l’importanza e difficoltà della prestazione professionale (da accertare in concreto sulla scorta di idonei riscontri probatori), ma anche quando la pattuizione del compenso al professionista limitato agli acconti versati, sia sostanzialmente – anche se implicitamente – collegata all’importanza delle prestazioni professionali od al valore della controversia (presupposti questi, anch’essi, da verificare in concreto) e non in modo totale o prevalente all’esito della lite.
In altre parole, l’eliminazione espressa del divieto di patto di quota lite, collegata alla più generale abrogazione del divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, comporta la validità del patto di quota lite, fatto salvo l’obbligo di dare all’accordo la forma scritta.
CORTE DI CASSAZIONE SS.UU CIVILE
SENTENZA N. 21585 DEL 19 OTTOBRE 2011
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VITTORIA Paolo – Primo presidente f.f. –
Dott. LUPI Fernando – Presidente di sezione –
Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –
Dott. RORDORF Renato – Consigliere –
Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –
Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –
Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –
Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –
Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
Sul ricorso proposto da:
AVV.(omissis) ., elettivamente domiciliato in Roma, via del Tritone 102, presso l’avv. Nanna Vito, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce al ricorso; – ricorrente –
contro
CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, in persona del legale rappresentante pro tempore;
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI …, in persona del legale rappresentante pro tempore;
PROCURATORE GENERALE presso la Corte di Cassazione; – intimati –
avverso la decisione del Consiglio Nazionale Forense, del 18 marzo 2010, depositata il 22 ottobre 2010, pronunciata nel processo R.G. n. 152/09, notificata il 23 febbraio 2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27 settembre 2011 dal Consigliere Raffaele Botta;
udito l’avv. Nanna Vito;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L’avv. S.M. impugna la decisione con la quale il Consiglio Nazionale Forense, in parziale riforma della decisione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di …, gli ha comminato la sanzione della censura in luogo di quella irrogata dal COA della sospensione dalla professione forense per mesi due. L’addebito contestato al ricorrente concerneva la violazione dell’art. 45, p. 1, del Codice Deontologico Forense, per aver pattuito con il proprio assistito, in aggiunta al compenso previsto, un supplemento di compenso per un verso non contenuto in limiti ragionevoli e, per altro verso, non giustificato dal risultato conseguito, in riferimento alla domanda introduttiva.
Non si sono costituiti in giudizio gli intimati COA di Milano e il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione.
MOTIVAZIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta, da un lato, sotto il profilo della violazione di legge, la nullità del procedimento in ragione del mutamento della composizione del COA all’atto di adozione della decisione, rispetto a quella esistente alla prima udienza, quando era stato audito l’interessato e da questi depositata la documentazione a difesa e, dall’altro, sotto il profilo del vizio di motivazione, la “omessa o erronea o contraddittoria valutazione delle risultanze probatorie”.
1.1. Sotto il primo profilo è da ritenere corretta la decisione del Consiglio Nazionale Forense, che ha ritenuto inammissibile l’eccezione relativa al mutamento del Collegio perchè non dedotta nel corso del procedimento amministrativo ed infondata perchè a tale procedimento non si applica il principio dell’immutabilità del collegio giudicante. La decisione impugnata, infatti, ha pronunciato sul punto in coerenza con l’orientamento espresso da questa Corte, secondo cui: “In tema di procedimento disciplinare a carico di avvocati, la censura di irregolare composizione del Consiglio dell’ordine per mancata rituale convocazione di tutti i membri dello stesso, ove la relativa eccezione non sia già stata sollevata nel corso del procedimento disciplinare dinanzi al medesimo Consiglio dell’ordine, non può essere dedotta, come motivo di impugnazione, dinanzi al Consiglio nazionale forense, nè, tanto meno, per la prima volta, dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione” (Cass. S.U. 4 maggio 2004, n. 8431; 6 luglio 2005, n. 14214 e 28 ottobre 2005, n. 20997).
1.2. Sotto il secondo profilo, il motivo si risolve sostanzialmente nella richiesta di una revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti in punto di fatto e delle valutazioni delle risultanze processuali operate dal Consiglio Nazionale Forense ed è, quindi, inammissibile. Queste Sezioni Unite hanno, infatti, stabilito: “Le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, ai sensi del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 56, comma 3, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 gennaio 1934, n. 36, per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, nonchè, ai sensi dell’art. 111 Cost., per vizio di motivazione: tale vizio, peraltro, deve tradursi in omissioni, lacune o contraddizioni incidenti su punti decisivi, dedotti dalle parti o rilevabili d’ufficio, sicchè risultano inammissibili le doglianze con cui il ricorrente intenda far accertare in sede di legittimità i presupposti integranti una situazione di necessità, scriminante, in presenza della quale il medesimo non avrebbe potuto non tenere il comportamento censurato dall’organo disciplinare, risolvendosi in accertamenti in punto di fatto e valutazioni delle risultanze processuali che non possono essere oggetto di controllo in sede di legittimità” (Cass. S.U. 4 febbraio 2009, n. 2637). Nel caso di specie, peraltro, non sussiste il lamentato vizio di motivazione, in quanto la decisione impugnata evidenzia analiticamente l’esame delle risultanze istruttorie che giustificano il provvedimento adottato.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, sotto il profilo della violazione di legge, che non sia stato messo a sua disposizione l’esposto che avrebbe presentato il cliente, con conseguente lesione del proprio diritto di difesa.
2.1. il motivo è infondato. Premesso che la decisione impugnata esclude motivatamente l’esistenza di un esposto presentato dal cliente dell’incolpato e che quest’ultimo non dimostra in alcun modo che il supposto esposto realmente esista, va evidenziata l’irrilevanza della questione, in quanto, ai fini dei rispetto del diritto di difesa, quel che importa è che sia stata regolarmente formulata l’incolpazione, la quale nemmeno esige una minuta, completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l’illecito, ma solo la sufficienza della relativa lettura da parte dell’incolpato a porre quest’ultimo in grado di approntare la propria difesa in modo efficace, senza rischi di essere condannato per fatti diversi da quelli ascrittigli (v. Cass. S.U., 20 maggio 2003, n. 7891). Nel caso di specie nessuna adeguata censura è formulata in ordine alla formulazione dell’incolpazione: tanto più il diritto di difesa non è stato leso, essendo stato audito l’incolpato, acquisita la documentazione da questo prodotta e sentiti i testi addotti a discolpa.
3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, sotto il profilo della violazione di legge relativamente al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, che il collegio giudicante dopo aver esposto una propria interpretazione dell’art. 45 del Codice Deontologico Forense, non spiega perchè ha ritenuto che nel caso di specie non vi sia stato un corretto e trasparente rapporto tra avvocato e cliente e non indica quale sia stato il canone violato dall’incolpato.
3.1. Il motivo è infondato. Il fatto che la decisione impugnata attribuisca all’art. 45 del Codice Deontologico Forense l’immutata base etica che ne giustifica tanto la previgente, quanto la vigente formulazione, non significa “creare” un canone nuovo, bensì solo individuare la ratio legis di una determinata norma deontologica. Per altro verso, la decisione impugnata illustra analiticamente i fatti sulla cui base e le ragioni per le quali ha ritenuto “non corretto e trasparente” il comportamento tenuto dall’incolpato nei confronti del cliente, e la censura proposta pretende una inammissibile revisione del giudizio.
3.2. Sotto altro profilo, nel quadro del medesimo motivo, il ricorrente lamenta che la decisione impugnata abbia definito “esosa” la pretesa del professionista, laddove non sussisteva alcuna “pressione” nei confronti del cliente. Anche per questo aspetto la censura si prospetta inammissibile, in quanto funzionale ad una nuova valutazione dei fatti, a fronte di una decisione che in modo chiaro precisa le ragioni della irragionevolezza del compenso aggiuntivo richiesto.
4. Alle medesime conclusioni e per le stesse ragioni occorre pervenire in ordine al quarto motivo di ricorso, con il quale il ricorrente ripropone la censura relativa alla ritenuta “esosità della pretesa”, lamentando che il giudicante abbia omesso di indicare qualsiasi parametro di riferimento.
4.1. L’infondatezza del motivo emerge dalla considerazione che il compenso in questione è un compenso aggiuntivo per l’esito favorevole della causa di risarcimento danni, compenso che non deve essere tale da rappresentare una ingiustificata falcidia, a favore del difensore, dei vantaggi economici derivanti dalla vittoria della lite (v. Cass. 13 maggio 1976, n. 1701), perchè a tanto osta il divieto del patto di quota lite (secondo la previgente formulazione dell’art. 45 del Codice Deontologico Forense, applicabile nel caso ratione temporis), che non può essere dissimulato dalla previsione pattizia di un palmario per l’esito favorevole della lite (v. Cass. 13 maggio 1976, n. 1701; 19 novembre 1997, n. 11485; S.U. 21 dicembre 1999, n. 919). La rilevanza economica del compenso pattuito in relazione al valore della lite è stata ritenuta, con congrua motivazione, come evocativa di un vietato “patto di quota lite” e la valutazione del collegio è insindacabile in sede di legittimità.
4.2. Peraltro l’infondatezza della censura emerge anche dal tentativo svolto dall’incolpato di collegare, in contraddizione con quanto emerge dall’atto scritto, il compenso aggiuntivo ad altre e diverse prestazioni professionali non concernenti la causa di risarcimento danni indicata invece nel patto sottoscritto.
5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta un vizio di motivazione relativamente alla determinazione della sanzione in concreto applicata. Si tratta di una censura inammissibile per difetto di interesse, dato che la decisione impugnata ha ridotto la misura della sanzione irrogata dal COA, dandone adeguata giustificazione nelle considerazioni svolte nel corpo della decisione e già ricordate in precedenza.
6. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato. Non occorre provvedere sulle spese, stante la mancata costituzione della parte intimata.
P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 27 settembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2011
[1] Cons. Naz. Forense, 30 novembre 2005, n° 138 sul divieto del patto di quota lite “…pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante e rientrante nel cd. patto di quota lite l’avvocato che concordi con il cliente un compenso in una percentuale dell’importo percepito in risarcimento, a nulla rilevando, che il compenso così stabilito sia stato riscosso oppure no, essendo sufficiente, ai fini della responsabilità disciplinare, la sussistenza dell’intervenuta pattuizione”.
[2] Cass. Civ. , 18 giugno 1986, n° 4078
[3] Il Consiglio Nazionale Forense ha avuto modo, a seguito di tale previsione di adeguamento, di pronunciarsi sul rapporto tra le norme legislative e deontologiche, concentrandosi in particolar modo sul potere delle prime di abrogare le seconde (Cfr. Osservazioni sulla interpretazione e applicazione del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, in G.U. n. 153 del 4 luglio 2006), coordinato con la l. di conversione 4 agosto 2006, n. 248 (in G.U. n. 186 dell’11 agosto 2006 – Suppl. Ord. n. 183, recante: “Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale” del Consiglio nazionale Forense del 4 settembre 2006, n. 22-C/200). Per la precisione, è stato sottolineato come, pur riconoscendo la forza abrogatrice della fonte legislativa sulla norma deontologica, le due categorie di norme non sarebbero però tra loro perfettamente “sovrapponibili, in quanto la legge ordinaria (…) ha effetti erga omnes, mentre le norme deontologiche riguardano soltanto i soggetti esercenti l’attività professionale forense. In più, le norme deontologiche, per loro natura, possono essere più restrittive delle norme ordinarie, in quanto riflettono valori etici il cui ambito di applicazione può essere più ampio di quello della norma ordinaria”. Per il Consiglio, ne deriva comunque che, in virtù del principio tempus regit actum gli accordi tra il professionista e il cliente sono validi e producono effetti ai fini civilistici, ma dal punto di vista deontologico sono assoggettati al codice forense vigente fino al 1 gennaio 2007, e, dopo tale data, alla versione del codice che risulterà dal suo adeguamento ad essa.
[4] Delibera del 12 giugno 2008, n° 15 del Consiglio Nazionale Forense
[5] “Le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 56, terzo comma, del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, nonché, ai sensi dell’art. 111 Cost., per vizio di motivazione: tale vizio, peraltro, deve tradursi in omissioni, lacune o contraddizioni incidenti su punti decisivi, dedotti dalle parti o rilevabili d’ufficio, sicché risultano inammissibili le doglianze con cui il ricorrente intenda far accertare in sede di legittimità i presupposti integranti una situazione di necessità, scriminante, in presenza della quale il medesimo non avrebbe potuto non tenere il comportamento censurato dall’organo disciplinare, risolvendosi in accertamenti in punto di fatto e valutazioni delle risultanze processuali che non possono essere oggetto di controllo in sede di legittimità” (Cass. S.U. 4 febbraio 2009, n. 2637).
[6] Cass. Civ. , 4 dicembre 1985 n° 6073
[7] Cass. Civ. , 19 novembre 1997 n° 11485
[8] Cass. Civ. , 26 aprile 2012, n° 651985