di Samantha Mendicino

Per ‘costume’, nel parlar comune, intendiamo l’abitudine ed il modo di comportarsi che predomina in una data società ed in un dato momento storico[1]. Per ‘buon costume’, invece, ci riferiamo solitamente al complesso etico-morale di una data collettività.

Quando si parla di ‘buon costume’, dunque, è evidente che l’identificazione del suo contenuto non può avvenire senza far riferimento al contesto sociale esistente in un certo periodo storico e, subito dopo, ai princìpi ed ai valori etico-sociali che di quella società-collettività fanno parte. Ed il primo quesito che sorge spontaneo è se esista o meno un concetto assoluto di ‘buon costume’ (ed in quanto tale: irreversibile ed eterno) oppure se questo suo concetto perpetuo conviva con altra parte di nozione di ‘buon costume’ più strettamente legato alle contingenze temporali.

In realtà, secondo l’orientamento maggioritario, il buon costume, ancor più rispetto all’ordine pubblico e ad altre clausole elastiche dell’ordinamento, necessita di un continuo contatto tra le norme e la multiforme varietà della vita sociale. Dunque, lungi dall’avere un contenuto unico, eterno ed immutabile, il ‘buon costume’ può essere riempito di contenuti corretti solo con riferimento alla contingenza storico-sociale-morale di una comunità.

E cosa si intenda per moralità, la giurisprudenza l’ha ben spiegato allorquando dice che essa è “il comune sentimento medio della comunità nazionale; inteso quest’ultimo, come il sentimento e la sensibilità di chi vive, con sano equilibrio, nella società del suo tempo[2]“.

L’utilizzo dell’aggettivo “buono” accanto al termine costume, poi, richiama l’attenzione dell’interprete non a ciò che “normalmente accade” nella società ma a ciò che “si ritiene debba accadere” nella società. E questo è ciò che ci permette di distinguere, ontologicamente, il buon costume dall’uso: quest’ultimo è strettamente legato ad una valutazione su ciò che “normalmente accade” (tanto che alcuni hanno addirittura ravvvicinato il concetto di ‘uso’ alla scienza statistica) al contrario del buon costume.

E’ condiviso, poi, il concetto secondo cui il buon costume non può essere limitato al rispetto della decenza e del pudore sessuale ma deve andare oltre esigendo, dunque, il rispetto dei sani principi etico-morali cui si uniforma il comportamento della generalità delle persone corrette ed oneste[3].

In sintesi: il buon costume è probabilmente l’elemento giuridico che, più di ogni altro, costringe il diritto ad avvicinarsi e ad interagire con la morale. Tra l’altro, per la dottrina maggioritaria[4] l’ordinamento giuridico nel momento in cui richiama il buon costume e, dunque, la morale, attribuisce ad essa una propria autonomia che, sebbene limitata negli effetti (come ricorderemo, una prestazione effettuata in dipendenza da un negozio immorale non fornisce a chi quella prestazione ha eseguito il diritto alla ripetizione), ha la sua notevole importanza, soprattutto, quando fa dipendere da elementi “esterni al diritto” il suo contenuto.

Illuminante la descrizione della morale da parte del giurista e docente universitario Adolfo Ravà: “La morale è un principio regolatore di tutto il nostro contegno, sia di fronte a noi stessi, sia di fronte agli altri uomini, sia di fronte a tutti gli esseri della natura: ogni forma di nostra attività può essere sottoposta al criterio e alla valutazione morale. Il diritto invece si limita a determinare il nostro contegno in rapporto agli altri uomini con noi consociati, e lo determina solo in quanto è richiesto per rendere possibile la convivenza… assicurando la necessaria collaborazione di tutti per il raggiungimento dei fini collettivi”.

A questo punto vediamo quando e come la nostra legislazione menziona e rinvia alla nozione buon costume.

Partiamo dalla nostra Costituzione: l’art. 19 Cost. e l’art. 21 Cost. menzionano il ‘buon costume[5]‘ come limite posto, rispettivamente, alla libertà di culto ed alla libera manifestazione di pensiero. Tanto perchè il buon costume assolve, in tali ipotesi, un limite a tutela della decenza, della moralità e del pudore contro le oscenità.

Ma è con riferimento al codice civile che il buon costume assume una veste più ricca di significati: in questo campo esso viene immediatamente in mente come elemento a cui il negozio giuridico non deve essere contrario. Non dimentichiamoci, infatti, che l’ordinamento giuridico smette di tutelare l’autonomia privata allorquando questa sia diretta a scopi contrari alla legge e/o alla morale comunemente condivisa.

A tal proposito, l’art. 1343 c.c. fa da monito nel nostro codice quando dispone che “la causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”. E se la causa è illecita, il negozio sarà nullo ex art. 1418 c.c.

La dottrina, poi, distingue l’ipotesi della contrarietà della causa al ‘buon costume’, nel qual caso il negozio sarà chiamato immorale, dall’ipotesi della contrarietà all’ordine pubblico ed alle norme imperative, allorquando il negozio sarà definito illegale.

E tale differenza non si limita ad esplicare i propri effetti a livello di classificazione dottrinaria ma comporta delle ricadute di disciplina di non poco conto.

Rammentiamo, infatti, che quando si esegue una prestazione dipendente da un negozio avente causa illecita, trattandosi di negozio nullo, chi ha eseguito quella prestazione ha diritto ad ottenerne la restituzione, in base alle regole della ripetizione dell’indebito (art. 2033 c.c.). Ma al contrario, chi ha eseguito una prestazione in dipendenza di un negozio giuridico immorale non ha diritto ad ottenerne la restituzione: in base all’art. 2035 c.c., difatti, “chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume non può ripetere quanto ha pagato”. Tuttavia, non si deve dimenticare che l’immoralità può essere bilaterale (esempio, il contratto di meretricio) ma può anche essere unilaterale (esempio, il pagamento di un riscatto): in quest’ultimo caso, la ripetizione di ciò che è stato ingiustamente prestato è sempre ammessa.

Tuttavia, è stato osservato che il buon costume assume valore come limite all’attività negoziale ma solo in senso negativo: vale a dire che la legge non richiede che il contratto stipulato abbia uno scopo “meritevole di tutela secondo la morale” ma solo che esso non sia in contrasto con i principi dettati dalla morale del tempo in cui viene concluso.

Sempre con riferimento alla materia civile, riscontriamo l’utilizzo del concetto del buon costume anche in materia successoria e, precisamente, all’art. 634 c.c. (rubricato “condizioni contrarie”) in cui si legge che: ” Nelle disposizioni testamentarie si considerano non apposte le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume…”.

Ma le applicazioni concrete della nozione del ‘buon costume’ in ambito civile sono ben maggiori di quanto, sin qui, non sia stato specificato.

Per menzionare qualche esempio (argometi che meriteranno un approfondimento ad hoc nel prossimo futuro) ricordiamo il dibattito sull’utero in affitto (ipotesi in cui vengono trasferiti nell’utero della madre surrogata embrioni formati col seme del padre e con gli ovociti della madre, cd “committenti”) e sulla maternità surrogata (ipotesi in cui una donna assume l’obbligo di portare a termine una gravidanza al fine di cedere il  neonato alla coppia “committente”, ma il cui embrione è stato formato dal seme del padre “committente” e dagli ovociti della madre surrogata).

Passiamo, infine, a parlare della nozione del ‘buon costume[6]‘ con riferimento al campo penale in cui esso rappresenta il bene giuridico tutelato da una specifica categoria di reati: gli atti osceni ed il delitto di pubblicazioni e spettacoli osceni.

In base all’art. 527 c.p., rubricato ‘atti osceni’: “Chiunque, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico[7], compie atti osceni è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni. La pena è aumentata da un terzo alla metà se il fatto è commesso all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano. Se il fatto avviene per colpa, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 51 a euro 309.

Qui l’oggetto giuridico è il pudore sessuale, inteso come sentimento comune ed il reato è di pericolo astratto: per la sua configurabilità, infatti, è sufficiente che l’atto osceno sia astrattamente visibile da terzi.

Una recente sentenza della Cassazione ha, però, spiegato l’importanza della differenza tra ‘atti osceni’ (ex artt. 527 c.p.) ed ‘atti contrari alla pubblica decenza’ (ex art. 726 c.p.). Ci si riferisce alla pronuncia Cass. Pen., sez. III, n. 40012/2011 che ha trattato la vicenda di un giovane condannato per… aver orinato per strada. Gli ermellini, in particolare, hanno precisato che l’uomo avrebbe compiuto atti osceni in luogo pubblico se, nell’atto di urinare, egli avesse fatto vedere (o se i terzi avessero potuto vedere) i genitali. Ma nel caso di specie, il giovane si era nascosto tra le autovetture, ecco perchè il reato imputatogli è stato quello di atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 c.p.) i quali si concretizzano ogni qualvolta quel gesto compiuto dal reo sia percepito dai terzi come atto contrario alla pubblica decenza. Senza avere alcun rilievo se ci siano stati o meno “atti e/o comportamenti osceni”. Precisa, inoltre, la Cassazione che mentre gli atti osceni in luogo pubblico offendono “in modo intenso e grave il pudore sessuale, suscitando nell’osservatore sensazioni di disgusto” invece gli atti contrari alla pubblica decenza “ledono il normale sentimento di costumatezza, generando fastidio e riprovazione”. Dunque, il fatto di essersi “nascosti” tra le auto od anche (seguendo la linea di principio accertata dagli Ermellini) l’andare in un luogo appartato non può essere utilizzato come giustificazione: se il gesto viene “percepito” dai terzi come sconveniente e riprovevole si concreta la fattispecie di atti contrari alla pubblica decenza[8]

Invece, in base all’art. 528 c.p., rubricato ‘pubblicazioni e spettacoli osceni’: “Chiunque, allo scopo di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli pubblicamente, fabbrica, introduce nel territorio dello Stato, acquista, detiene, esporta, ovvero mette in circolazione scritti, disegni, immagini od altri atti osceni di qualsiasi specie, e’ punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa non inferiore a lire duecentomila. Alla stessa pena soggiace chi fa commercio, anche se clandestino, degli oggetti indicati nella disposizione precedente, ovvero li distribuisce o espone pubblicamente. Tale pena si applica inoltre a chi: 1) adopera qualsiasi mezzo di pubblicità atto a favorire la circolazione o il commercio degli oggetti indicati nella prima parte di questo articolo; 2) dà pubblici spettacoli teatrali o cinematografici, ovvero audizioni o recitazioni pubbliche, che abbiano carattere di oscenita’. Nel caso preveduto dal n. 2, la pena è aumentata se il fatto è commesso nonostante il divieto dell’Autorita”.

Infine, l’art. 529 c.p., rubricato ‘atti ed oggetti osceni’, così dispone: “Agli effetti della legge penale, si considerano “osceni” gli atti e gli oggetti, che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore. Non si considera oscena l’opera d’arte o l’opera di scienza, salvo, che, per motivo diverso da quello di studio, sia offerta in vendita, venduta o comunque procurata a persona minore degli anni diciotto”.



[1]  Devoto- Oli Vocabolario della lingua italiana 2011,  edizione Le Monnier, pag.  719

[2]  sentenza del Tribunale di Milano 13 aprile 1966, in Foro it., 1966, II, c. 265

[3]  A. TORRENTE- P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Giuffrè editore, pag. 194 e ss.

[4] A. RAVA’, Istituzioni di diritto privato, Cedam, Padova, pag. 13 e ss.

[5] In Cass. Pen., sez. II, sent. n. 5838/1995 si legge: “…è la stessa Costituzione, all’articolo 19, a porre un primo limite generale, quello del buon costume‘… l’espressione buon costume, ad avviso di questa Corte, non può essere intesa nel senso penalistico di osceno o contrario alla pubblica decenza, ma in quello più ampio, di attività conforme ai principi etici che costituiscono la morale sociale, in quanto ad essi uniforma il suo comportamento la generalità delle persone oneste, corrette, di buona fede e di sani principi, in un determinato ambiente ed in una determinata epoca

 

[6] In questa materia il buon costume viene definito come “abitudine di vita conforme ai precetti di morale, decenza e cortesia”. E non solo: in Cass. Pen., sent. n. 39354/2007 si legge: “Nel caso in esame, dunque, la ‘stampa’ costituisce solo il veicolo del messaggio pubblicitario, ed, in quanto tale, non si inquadra nel diritto costituzionalmente garantito (cd. libertà di stampa) – secondo le richiamate disposizioni dell’art. 21 Cost., ma costituisce un mezzo pubblicitario da valutare in sé, secondo la disciplina del successivo comma 6 dello stesso art. 21, che, lungi dal costituire mera ripetizione del precedente comma 3, si riferisce a mezzi di diffusione considerati in maniera del tutto autonoma. La disposizione è del seguente, testuale tenore: ‘Sono vietate le pubblicazioni a stampa (gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni) contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni’. Pubblicazioni siffatte, pertanto, sono vietate in sé, ed il sequestro preventivo, anche se introdotto solo successivamente, rientra nelle misure ad esse applicabili, per espressa previsione del legislatore costituente. Alla stregua di tale diverso principio deve essere perciò rivalutata la legittimità della misura cautelare in discussione, fermo restando che non ha pregio il rilievo – su cui ha insistito in sede di discussione la difesa dei resistenti – secondo cui le indagini non attengono specificamente al reato di pubblicazioni oscene: la contrarietà al buon costume, invero, vale di per sé, nella visione del costituente, ad escludere le pubblicazioni dalle garanzie offerte alla libertà di stampa propriamente detta, e, perciò, rettamente si fonda anche sul (solo) reato ipotizzato di favoreggiamento della prostituzione”

[7]  Ricordiamo che: – per luogo pubblico si intende un luogo aperto a tutti; – per luogo aperto al pubblico si intende un luogo in cui tutti possono accedervi; – per luogo esposto al pubblico, si intende quel luogo che, pur non essendo accessibile da parte di tutti, può essere sotto l’osservazione di un numero  indeterminato di persone.

[8]  Cass. Pen., sez. III, n. 40012/2011 è una sentenza commentata in Nuove frontiere del diritto, n. 2-febbraio 2012, pag. 175 e ss.

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