La sentenza n. 24418/2010 ha affrontato in modo congiunto le questioni relative all’anatocismo e alla prescrizione, in quanto entrambe concorrono a definire l’ambito di applicazione delle norme che regolano i rapporti di conto corrente. La nullità delle clausole anatocistiche, infatti, è strettamente legata alla possibilità di ripetere le somme indebitamente versate, e la disciplina della prescrizione ne definisce i limiti temporali.

Avv. Sara Spadoni di Lexant Legally yours

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La sentenza n. 24418 del 2 dicembre 2010 emessa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, di cui oggi questo contributo si propone di offrire un sintetico commento esplicativo, ha avuto ad oggetto due importanti argomenti, centrali per il settore bancario, e specificatamente il c.d.  Anatocismo bancario e la Prescrizione del diritto di ripetizione dell’indebito.

Il fatto storico che ha dato origine alla Sentenza in commento coinvolgeva il cliente di una Banca che contestava l’applicazione delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi, ritenute appunto abusive: sosteneva il ricorrente che la Banca avesse infatti applicato interessi su interessi in modo illegittimo, senza una chiara pattuizione contrattuale che ne autorizzasse l’uso e – di conseguenza – richiedeva il rimborso delle somme così pagate in eccesso.

Mentre il Tribunale di Primo grado aveva accolto le istanze del correntista, pronunciandosi in favore della nullità delle predette clausole contrattuali, fu la successiva impugnativa dell’Istituto di credito in grado di Appello a dar vita al contrasto giurisprudenziale su cui le Sezioni Unite si sono pronunciate al fine di dirimerlo.

Ed è in tale contesto che la Suprema Corte ha altresì esplorato il tema della prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito da parte del correntista, andando così a stabilire da quando inizia a decorrere il termine entro cui il cliente può chiedere alla Banca la restituzione degli interessi illegittimamente addebitati.

Analizziamo di seguito i due principi sanciti dagli Ermellini.

  • La nullità della capitalizzazione trimestrale degli interessi

Con la sentenza n. 24418/2010 si afferma in primis il principio per cui le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi nei contratti di conto corrente sono da considerarsi nulle, in quanto tale pratica si pone in violazione del principio di reciprocità e buona fede contrattuale.

In particolare, la Corte ha evidenziato che “La capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, in quanto non prevista da alcuna norma di legge, né giustificata da particolari esigenze del rapporto, si pone in contrasto con il principio di reciprocità degli interessi, che postula una parità di trattamento tra interessi attivi e passivi“, comportando di fatto un’alterazione del sinallagma contrattuale in quanto determina un arricchimento ingiustificato della Banca a scapito del correntista.

Il principio così sancito dalla Corte di Cassazione riveste un carattere si può dire assoluto, posto che – come chiarito sempre dalla pronuncia in commento – la nullità delle clausole anatocistiche non può essere sanata neanche da una successiva approvazione del correntista, in quanto la stessa deve considerarsi intrinseca e originaria.

Tale affermazione è risultata essere di fondamentale importanza per la tutela dei correntisti, poichè ha finito per impedire agli Istituti di credito di “aggirare” l’ormai acclarata nullità delle clausole di cui infra attraverso la richiesta di un consenso successivo del cliente, spesso inconsapevole delle conseguenze di tale atto.

Al fine di chiarire l’importanza rivestita della storica pronuncia della Cassazione n. 24418/2010, e delle Sue dirette conseguenze nel mondo del contenzioso bancario (si rammenta come la stessa abbia aperto la strada a numerose azioni di ripetizione dell’indebito da parte dei correntisti) si consideri che prima dell’intervento delle Sezioni Unite la Giurisprudenza in materia di anatocismo bancario era tutt’altro che uniforme e definita, presentando un quadro piuttosto variegato e, per certi versi, contraddittorio.

Mentre, infatti, la Giurisprudenza di merito era oscillante sul tema (i Tribunali si pronunciavano in modo non univoco sulla validità delle clausole anatocistiche ritenendole talvolta nulle in quanto contrarie al principio di reciprocità degli interessi e alla buona fede contrattuale, e talvolta invece legittime in assenza di una specifica norma di legge che le vietasse espressamente), era di palese evidenza l’assenza di una posizione chiara della Corte di Cassazione che, pur avendo avuto diverse occasioni per pronunciarsi sulla questione, non aveva ancora espresso un orientamento definitivo e univoco in materia.

Allo stesso modo l’intervento del Legislatore, avvenuto con il D.Lgs. n. 342/1999 che per la prima volta ha introdotto il divieto di anatocismo, aveva comunque generato dubbi interpretativi sia circa la sua applicabilità ai contratti stipulati prima della sua entrata in vigore sia sulla rilevanza degli “usi negoziali” che – a norma dello stesso – avrebbero potuto giustificare la pratica in uso alle Banche.

Evidente che in questo contesto di incertezza e frammentazione giurisprudenziale, la sentenza n. 24418/2010 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha rappresentato una svolta fondamentale, sancendo in maniera definitiva la nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, fornendo un’interpretazione maggioritaria e uniforme e ponendo così fine al dibattito sul tema.

  • La prescrizione dell’azione di ripetizione del Correntista.

È proprio nel solco della disamina sul tema dell’anatocismo che si inserisce il secondo tema affrontato dalla Corte nella sentenza in commento, ossia la decorrenza del termine prescrizionale del diritto del correntista di ripetere le somme indebitamente versate a titolo di interessi anatocistici.

Sul punto in Sentenza è sviluppato un ragionamento articolato, basato sull’analisi della natura dei versamenti effettuati dal correntista e sulla distinzione tra rimesse ripristinatorie e solutorie.

La Corte ha innanzitutto rilevato che i versamenti eseguiti dal correntista nel corso del rapporto di conto corrente possono avere diverse finalità; in particolare essi possono essere diretti a ripristinare la provvista (ossia a riportare il saldo del conto entro i limiti del fido concesso) oppure a saldare una posizione di scoperto (ossia un saldo negativo che eccede i limiti del fido).

Sulla base di tale analisi, è stata introdotta la distinzione tra due tipologie di rimesse:

  • Rimesse ripristinatorie: sono i versamenti che il correntista effettua per riportare il saldo del conto corrente entro i limiti del fido. Tali versamenti non hanno dunque lo scopo di estinguere un debito, ma semplicemente di “coprire” un momentaneo sconfinamento.
  • Rimesse solutorie: sono i versamenti che il correntista effettua per saldare una posizione di scoperto. In questo caso il versamento ha invece lo scopo specifico di estinguere un debito nei confronti della Banca.

Partendo da tale suddivisione gli Ermellini hanno quindi stabilito che il termine di prescrizione per l’azione di ripetizione dell’indebito decorre in modo diverso a seconda della natura dei versamenti:

mentre per le rimesse avente natura ripristinatoria il termine di prescrizione decennale decorre dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto corrente, per quelle c.d. solutorie il medesimo decorre dalla data dei singoli versamenti.

La Corte ha motivato tale distinzione sulla base della diversa natura e finalità dei versamenti.

In particolare, ha rilevato che le rimesse ripristinatorie non possono qualificarsi come vero e proprio pagamento in quanto dirette non ad estinguere un debito, ma semplicemente a “coprire” uno sconfinamento. Di conseguenza, sarà solo nel momento in cui si consolida l’eventuale indebito che deve iniziare a decorrere il termine di prescrizione per la ripetizione di tali somme e, tale termine, non può che coincidere con la data di chiusura del conto.

Diversamente, le rimesse solutorie che sono dirette a estinguere un debito nei confronti della Banca, di certo costituiscono un pagamento vero e proprio e – di conseguenza – il termine di prescrizione per la ripetizione di tali somme deve iniziare a decorrere dalla data di ciascun versamento.

In conclusione, dunque, la sentenza n. 24418/2010 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pur focalizzandosi primariamente sulla nullità delle clausole anatocistiche, ha finito per incidere profondamente anche sulla disciplina della prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito nei contratti di conto corrente.

La distinzione, introdotta con chiarezza in tale sede, tra rimesse ripristinatorie e solutorie, lungi dall’essere una mera disquisizione teorica, si riverbera in modo significativo sulla decorrenza del termine prescrizionale decennale.

Tale distinzione, infatti, pone delicate questioni probatorie, incombendo sulla banca l’onere di dimostrare la natura dei versamenti al fine di eccepire efficacemente la prescrizione: è infatti necessario, in queste casistiche, operare un’analitica ricostruzione dei singoli versamenti effettuati dal correntista nel corso del rapporto, ricostruzione che tuttavia  può essere estremamente complessa, soprattutto nel caso di rapporti di conto corrente di lunga durata, caratterizzati da un elevato numero di operazioni.

La sentenza in commento, pertanto, pur rappresentando un punto di arrivo fondamentale nella tutela del correntista, lascia aperti alcuni interrogativi, soprattutto in relazione alla concreta applicazione dei criteri di distinzione tra le diverse tipologie di rimesse.

Si ritiene sia compito della Giurisprudenza di merito, attraverso un’attenta analisi delle singole fattispecie, precisare ulteriormente i confini tra rimesse ripristinatorie e solutorie, al fine di garantire una corretta applicazione dei principi enunciati dalla Corte di Cassazione e una tutela effettiva dei diritti sia del correntista che della Banca.

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