imagesA cura dell’avv. Grazia Masi

L’art. 33, 3 comma L. 104/1992 riconosce al lavoratore che assiste un familiare (coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti) con disabilità grave la possibilità di usufruire di n. 3 giorni di permesso lavorativo finalizzati all’assistenza del familiare disabile.

Negli ultimi anni la Cassazione ha espresso il proprio orientamento intransigente nei confronti di coloro che, abusando del permesso ottenuto, abbiano dedicato il tempo concesso ad attività personali e/o comunque non connesse all’assistenza del familiare affetto da handicap.

La Corte ha, infatti, confermato in più occasioni, la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato ai lavoratori dipendenti, affermando il principio per cui, il disvalore sociale della condotta e l’abuso del diritto costituiscono questioni imprescindibili che superano ogni altra eccezione in ordine all’illegittimità del licenziamento così come sollevata dai ricorrenti.

 

1) Cassazione – sentenza del 30.4.2015 n. 8784: dall’accoglimento in primo grado al rigetto in Cassazione. Il principio di correttezza e buona fede ed il concetto di “disvalore sociale della condotta”.

Uno dei casi che di recente ha maggiormente destato l’attenzione degli operatori del diritto è quello del licenziamento irrogato una nota azienda automobilistica di Atessa ai danni di un suo lavoratore.

Il Tribunale di Lanciano aveva inizialmente rigettato l’impugnazione del licenziamento promossa dal lavoratore ex art. 18 L. 300/1970 (come modificato dalla L. 92/2012). Nella fase di opposizione, invece, promossa ex art. 1, comma 51 L. 92/2012 il GUL, in persona della dott.ssa Flavia Grilli, accoglieva l’impugnazione promossa dichiarando l’illegittimità del licenziamento intimato dall’azienda per mancanza di giustificato motivo soggettivo connesso all’insussistenza del fatto contestato. Condannava, quindi, la società datrice di lavoro al reintegro immediato ed al risarcimento del danno oltre che alla rifusione delle spese di lite. Il fatto contestato al lavoratore era di aver partecipato ad una serata danzante in parziale coincidenza con le ore del proprio turno di lavoro (21.15-5.45), per il quale aveva richiesto di usufruire di un permesso ex art. 33, 3 comma L. 104/1992 per assistere l’anziana madre. L’agenzia investigativa incaricata, infatti, aveva documentato, anche tramite materiale fotografico, che il lavoratore aveva partecipato ad una festa paesana quantomeno dalle 21.15 del 23.8.2012 alle ore 1.30 del 24.8.2012. L’azienda contestava al lavoratore, pertanto, che il diritto di permesso era stato esercitato “in maniera difforme rispetto alla necessità di intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”. Il lavoratore, dal canto suo, già nelle giustificazioni rese ad immediato riscontro della contestazione, invocava la modifica della norma che al comma 5 del detto art. 33, in precedenza richiedeva espressamente il requisito della continuità[1].La legge 183/2010, modificando il detto comma ha, invero, soppresso tale requisito per cui il Giudice del primo grado non ravvisava l’ipotesi contestata dall’azienda. Il GUL, affermava, infatti, che lo sviamento dalla funzione tipica per il quale il permesso era stato concesso avrebbe potuto ravvisarsi solo qualora “il lavoratore avesse usato l’intero orario (o una sua gran parte) del permesso per fini personali”. Essendo pacifico, perché non contestato, che il lavoratore avesse prestato assistenza all’anziana madre per il periodo successivo all’1.30 il Giudice riteneva illegittimo il licenziamento irrogato. Peraltro il GL si soffermava, altresì, sulla considerazione che, “a tutto voler concedere la continuità non potrebbe mai essere intesa come assoluta coincidenza temporale, né il concetto di assistenza deve presupporre un impegno fisico continuativo per il soddisfacimento delle esigenze del familiare” e ancora “. . .detta assistenza non deve essere intesa in senso materiale ed infermieristico, quanto piuttosto come presenza fattiva e costante, anche se non continuativa”. [2]

La Corte di Appello di L’Aquila riformando la sentenza del Tribunale di Lanciano, rigettava, invece, la domanda del lavoratore, ponendo a base del decisum la considerazione fondante secondo la quale, nella specie, non rilevava il tipo di assistenza che il lavoratore doveva fornire alla propria madre handicappata, quanto piuttosto la circostanza che il lavoratore aveva chiesto un giorno di permesso retribuito ex lege n.104 del 1992, ex articolo 33, comma 3, come modificata dalle Legge n. 53 del 2000, e Legge n. 183 del 2010, per “dedicarsi a qualcosa che nulla aveva a che vedere con l’assistenza”. Il lavoratore è, quindi, ricorso in Cassazione, affidando le sue doglianze a ben sette motivi: 1) il ricorrente ribadiva che a seguito della modifica legislativa i requisiti di esclusività e continuità erano venuti meno; 2) contestava, inoltre, l’extra petita della Corte di merito che si era spinta ad affermare che non vi fosse prova che nel periodo successivo a quello contestato (dopo 1.30) il lavoratore avesse assistito l’anziana madre attribuendo l’onere di detta prova al ricorrente; 3-4) lamentava, inoltre, che la Corte non aveva tenuto in debito conto che tale prova era stata richiesta ed avrebbe potuto essere escussa anche in sede di impugnazione (considerato che il giudice di prime cure aveva ritenuto la circostanza, invece, non contestata); 5) secondo il ricorrente la Corte di merito non aveva, inoltre, considerato che il fatto contestato avrebbe dovuto essere assimilato all’assenza ingiustificata che nel contratto collettivo prevede esclusivamente una sanzione conservativa; 6) nemmeno era stata valorizzata la circostanza che mancasse l’affissione del codice disciplinare nei luoghi di lavoro[3]; 7) infine il lavoratore sosteneva che la Corte del merito non avesse valutato, anche alla luce delle precedenti eccezioni, la proporzionalità tra fatto addebitato e la sanzione irrogata anche tenuto conto dell’assenza di precedenti disciplinari.

Ebbene la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8784 del 30.4.2015 è stata decisamente lapidaria statuendo, da un lato che dovevano ritenersi estranee al tema decidendum tutte le critiche mosse all’impugnata sentenza sotto il profilo della interpretazione della  normativa di cui alla richiamata Legge n. 104 del 1992, articolo 33, comma 3, e successive modifiche, dall’altro che non assumerebbero valenza decisiva le censure che riguardano la mancata dimostrazione della utilizzazione delle ore residue del permesso e, quindi, in particolare la deduzione della violazione dell’onere della prova e della mancata ammissione della prova per testi sul punto in esame.

La ragione fondante della decisione della Corte di Appello di L’Aquila, infatti, va riconosciuta nel “disvalore sociale” della condotta del lavoratore che avrebbe usufruito di permessi “per l’assistenza a portatori di handicap per soddisfare proprie esigenze personali scaricando il costo di tali esigenze sulla intera collettività, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e costringe il datore di lavoro ad organizzare ad ogni permesso diversamente il lavoro in azienda ed i propri compagni di lavoro che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa“.

Secondo gli Ermellini, quindi, la Corte del merito ha assegnato al comportamento del lavoratore ricorrente una portata ben più ampia di quella dell’assenza ingiustificata che esclude di per sé la prospettata assimilabilità.

La Corte territoriale cioè, rimarcando che “proprio per gli interessi in gioco, l’abuso del diritto, nel caso di specie, è particolarmente odioso e grave ripercotendosi senz’altro sull’elemento fiduciario trattandosi di condotta idonea a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento in quanto sintomatica di certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti” secondo la Suprema Corte ha reso una motivazione giusta, logica e motivata, non degna di alcuna censure, sulla base delle cui considerazioni rimangono assorbite tutte le ulteriori critiche.

Il ricorso del lavoratore è stato, quindi, definitivamente rigettato. E non sarebbe stata l’ultima volta!

2) Corte di Cassazione 22.3.2016 n. 5574: il concetto di “quantum” e la commisurazione del tempo dedicato in percentuale.

La considerazione del giudice dott.ssa Grilli, per cui il licenziamento sarebbe stato legittimo in caso di mancato utilizzo dell’intero orario di lavoro o di gran parte di esso, ai fini assistenziali retribuiti, ha costituito il fulcro di un altro interessante caso rimesso, infine, alla Suprema Corte che ha nuovamente legittimato un licenziamento annullato in primo grado.

Sempre il  Tribunale di Lanciano, infatti,  aveva accolto un secondo ricorso con sentenza del 7.7.2014, promosso dal lavoratore cui era stato contestato il mancato utilizzo dei permessi retribuiti ex art. 33, 3 co. L. 104/1992, poiché il lavoratore era stato visto recarsi presso l’abitazione del parente assistito soltanto per complessive quattro ore e tredici minuti, su 3 giorni lavorativi di permesso richiesti, pari al 17,5% del tempo totale concesso.

Anche in questo secondo caso già la Corte di merito[4] adita aveva confermato il precedente orientamento fondando, questa volta, il proprio convincimento sulla considerazione per cui “la sanzione irrogata dovesse ritenersi proporzionata (ragionamento ritenuto superabile nel caso precedente a causa del disvalore sociale della condotta) all’evidente intenzionalità della condotta e alla natura della stessa, indicativa di un sostanziale e reiterato disinteresse del lavoratore al rispetto delle esigenze aziendali e dei principi generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, senza che potesse rilevare in senso contrario, stante l’idoneità della condotta a ledere il rapporto fiduciario, la sussistenza di un marginale assolvimento dell’obbligo assistenziale”.

Anche in questo caso il lavoratore è ricorso in Cassazione articolando 3 motivi di censura in sede di legittimità:

1)     il lavoratore contestava che la Corte di merito, pur riconoscendo che, a seguito dell’entrata in vigore della modifica del 2010, erano venuti meno i requisiti della “continuità ” e della “esclusività’ “, avesse affermato che l’assistenza deve, comunque, uniformarsi ai criteri di sistematicità e di adeguatezza, già elaborati dall’INPS nell’ambito della disciplina previgente;

2)     la Corte, inoltre, aveva ritenuto insufficiente un’attività assistenziale pari al 17,5% del tempo complessivo dei permessi, così implicitamente riconoscendo che potrebbe essere sufficiente prestare assistenza anche per una percentuale inferiore al 100% del monte ore, in difetto di una normativa che indichi quale sia il livello percentuale minimo richiesto affinché la condotta assistenziale possa legittimamente rapportarsi ai permessi;

3)     infine la Corte non avrebbe tenuto in debita considerazione secondo il ricorrente, nella necessaria valutazione complessiva della condotta del lavoratore, che egli non aveva avuto alcuna intenzione di non prestare assistenza al familiare, essendosi anzi regolarmente recato da lui e non essendosi allontanato dalla propria abitazione per momenti di svago o per andare a svolgere altre attività lavorative; con la conseguenza che la condotta posta in essere, ove pure suscettibile, per ipotesi, di rilievo disciplinare, non poteva certamente, in assenza di un consapevole intento elusivo, condurre all’applicazione della sanzione, più grave, quella espulsiva.

Anche in questo secondo caso la Suprema Corte ha ritenuto di essere intransigente, ritenendo inconferente il primo motivo poiché il ragionamento fondante della Corte di merito sarebbe stato non relativo al tipo di assistenza che il lavoratore avrebbe dovuto prestare al portatore di handicap ex art. 33, 3 co. L. 104/1992, ma alla utilizzazione dei permessi mensili “per scopi estranei a quelli per i quali sono stati concessi”: comportamento, questo, nelle valutazioni della Corte, “oggettivamente grave, tale da determinare nel datore di lavoro la perdita della fiducia nei successivi adempimenti e idoneo a giustificare il recesso per giusta causa”.

Gli Ermellini, quindi, dopo aver rigettato anche il secondo motivo (per inammissibilità del quesito) in ordine alla terza eccezione mossa dal ricorrente alla sentenza impugnata, hanno risposto che “a fronte di 24 ore di permessi retribuiti concessi nei giorni 22, 26 e 28 novembre 2012, il lavoratore aveva tenuto una condotta compatibile con le motivazioni assistenziali poste a sostegno della richiesta solo per quattro ore e 13 minuti, pari al 17,5% del tempo totale”, sottolineando, quindi, come il ragionamento della Corte territoriale per cui tale condotta, dimostrando “un sostanziale disinteresse del lavoratore per le esigenze aziendali“, fosse tale da integrare “una grave violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto di lavoro di cui agli articoli 1175 e 1375 codice civile, idonea a legittimare il recesso per giusta causa del datore di lavoro” sia ragionamento assolutamente condivisibile e privo di censure.

Ed infatti sia la percentuale del tempo destinato all’attività di assistenza rispetto a quello totale dei permessi, sia le altre modalità temporali in cui tale attività risulta prestata, risultano elementi caratterizzati da un’evidente, peraltro non contestata, irregolarità, sia in termini di fascia oraria, sia in termini di durata della permanenza.

Il licenziamento, quindi, per giusta causa, per il venire meno del rapporto di fiducia tra il dipendente ed il lavoratore va considerato decisamente legittimo.

3) Cass. 21.4.2016, n. 8070: l’abuso di diritto e l’onere della prova. Il concetto di “connessione condizionante”: insussistenza. Difetto di giusta causa e giustificato motivo soggettivo.

Interessante è anche il caso in cui la Cassazione ha rigettato il ricorso del datore di lavoro, avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma che aveva riconosciuto l’illegittimità del licenziamento irrogato a causa di un assoluto difetto di prova, respingendo, invece, la domanda di risarcimento danni per mobbing formulata dal lavoratore.

Anche in questo caso la contestazione mossa al lavoratore nella fattispecie riguardava la presunta illegittima fruizione dei permessi parentali per i giorni dal 26 al 29 giugno 2006, durante i quali il lavoratore, invece, di prestare l’assistenza ai genitori sarebbe andato in vacanza unitamente alla compagna.

Il Tribunale di Rieti, del primo grado di giudizio, aveva rigettato il ricorso del lavoratore, confermando il licenziamento mentre e la Corte di Appello di Roma aveva riformato tale decisione per assoluta insufficienza di prove.

Come pure nel caso di cui al punto 1) il lavoratore era stato pedinato da un’agenzia investigativa che aveva tentato di raccogliere delle prove sulla sua assenza dalla casa dei genitori, destinatari dell’assistenza.

Tuttavia, tale prova negativa, non era stata sufficientemente suffragata da materiale probatorio, e la Corte Territoriale di merito, pertanto si era vista costretta a riformare la sentenza del primo grado.

Il datore di lavoro si è, quindi, rivolto al Supremo collegio prevalentemente per contestare che il giudice dell’Appello erroneamente non aveva ritenuto sufficienti alcune prove.

Ad esempio sarebbe risultata provata la circostanza che la vettura del lavoratore non si trovasse presso l’abitazione dei genitori nei giorni oggetto del permesso retribuito ed il fatto che quest’ultimo non avesse confutato in modo specifico e puntuale l’addebito nelle lettere di giustificazione del 5.11.2006 e 15.11.2006, ne’ nell’atto introduttivo della causa.

Invero gli Ermellini hanno rilevato che la decisione della Corte territoriale fondata sull’insufficienza di prova doveva ritenersi logica e giusta in quanto motivata: da un lato l’indagine era infatti stata limitata ad un unico giorno, peccando di superficialità. Inoltre l’agenzia investigativa si era astenuta dall’effettuare un accesso all’abitazione dei genitori, né aveva tentato di rilevare la presenza della vettura anche solo nei dintorni della detta abitazione. La testimonianza della presunta vicina di casa che avrebbe riferito del viaggio e della vacanza in Sicilia non avrebbe potuto essere assunta d’altro canto a valida prova, trattandosi di testimonianza de relato, di persona mai identificata! Nè potevano ritenersi idonee le sole testimonianze degli investigatori, a rendere ammissibile tale prova.

Sempre in ordine a tale primo motivo, il Supremo Collegio ha osservato, poi che risultava, diversamente da quanto sostenuto da parte ricorrente, che sia nell’atto di appello e sia nelle lettere di giustificazione il lavoratore avesse invece esplicitamente contestato le condotte poste a base del licenziamento, e che l’azienda ne fosse riuscita a fornire prova.

Peraltro è pacifico (contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello di L’Aquila  nel caso sub. 1) che l’onere della prova gravi sull’azienda. Non poteva certo pretendersi che fosse il lavoratore a dare la prova di aver usufruito dei permessi. Nemmeno la mancata ammissione dell’ordine di esibizione dei cartellini di presenza della compagna del lavoratore nei giorni oggetto di contestazione, è stata ritenuta dalla Corte territoriale lacuna probatoria, atteso che, ferma la discrezionalità del giudice di merito a dare ingresso alla prove che ritenga rilevanti, nel caso in esame la presenza o assenza dal lavoro della compagna del lavoratore licenziato, non avrebbe potuto, comunque, superare la grave carenza probatoria rilevata dal giudice relativa al lavoratore licenziato.

La decisione della Corte di Appello, è stata quindi, ritenuta logica e coerente dal Supremo Collegio.

Il datore di lavoro aveva, infine, eccepito che il licenziamento fosse stato irrogato anche sulla base di altra sentenza passata in giudicato che aveva contestato l’incompatibilità di attività lavorativa da parte del ricorrente in primo grado, durante un periodo di malattia.

La Corte di Cassazione ha risposto a tale motivo affermando che, da un lato nel merito il motivo è infondato in conformità alla consolidata giurisprudenza, secondo la quale al lavoratore in malattia non sia vietato svolgere un’attività lavorativa di altro tipo non incompatibile con la patologia dichiarata; dall’altro, nel caso di specie, la dedotta incompatibilità non sussisteva essendo vero che la partecipazione ad un fiera estiva, anche guidando la vettura, non denoti di per sé alcuna incompatibilità con lo stato morboso denunciato (sindrome ansioso depressiva reattiva), così come affermato, in mancanza di elementi determinanti per attestare il contrario, dal giudice di merito, in modo scevro da vizi logici e giuridici, e quindi incensurabile dalla Corte di Legittimità.

Nello specifico, quanto alla sussistenza di una giusta causa di licenziamento, nel caso in esame, la Suprema Corte ha osservato che la carenza di tale elemento è stata ritenuta dal giudice d’Appello prima di tutto in fatto, per mancanza di responsabilità del lavoratore in conseguenza della carenza di prova degli illeciti disciplinari ascrittagli.

In secondo luogo non è stato ravvisato nemmeno il giustificato motivo soggettivo.

All’eccezione mossa dal datore di lavoro, secondo cui nemmeno il ricorrente avrebbe addotto l’irrilevanza, per carenza della “connessione condizionante“, di tutte le condotte che il datore aveva inteso di ritenere connesse al fine di irrogare la sanzione più grave (quella del licenziamento) in quanto quella idonea a sanzionare la pluralità dei fatti addebitati, la Corte ha risposto che tutte le contestazioni formulate nella contestazione del 31.10.2006 e del 10.11.2006, poste a base del licenziamento del lavoratore, erano cadute, perché alcune violazioni erano state ritenute giustificate dalla stessa datrice di lavoro secondo quanto ammesso nella memoria in appello; mentre le altre (quella dell’abuso della malattia del 12.8.2006 e quella dell’assenza dal domicilio dal 26 al 29 giugno e dal 3 al 7 luglio del 2006) erano state ritenute insussistenti dallo stesso giudice d’Appello.

Mentre è evidente che la stessa sanzione espulsiva non possa reggersi sulla base di una rinnovata valutazione della recidiva ovvero di precedenti disciplinari che avevano già portato alla irrogazione di specifica sanzione con la sospensione del lavoratore, ancorché essi risultino genericamente richiamati nel medesimo provvedimento di licenziamento in funzione rafforzativa[5].

Cosicché la Corte non ha perso occasione di ribadire un principio di diritto in tema di licenziamento per giusta causa secondo cui: “ancorché il licenziamento disciplinare possa essere riferito alla globalità del comportamento di un lavoratore, talché la recidiva possa esplicare effetti ai fini della gravità richiesta dalla giusta causa, esso non potrebbe mai sorreggersi in base all’esclusiva valorizzazione di comportamenti già sanzionati, in violazione del basilare principio del ne’ bis in idem”[6].

4) Cass. 6.5.2016 n. 9217: la legittimità dell’utilizzo delle Agenzie investigative. La verifica della correttezza sotto il profilo dell’effettività della fruizione. Necessità.

In ultimo si richiama la sentenza del 6.5.2016 con cui la Suprema Corte, è stata infine chiamata per l’ennesima volta a statuire in ordine alla legittimità della fruizione dei permessi retribuiti ex art. 33, 3 co. 104/1992, in quanto è stato definitivamente affrontato il problema della legittimità delle indagini investigative di cui si avvalgono i datori di lavoro.

Anche in questo caso la sentenza di accoglimento del ricorso del lavoratore in primo grado emessa dal Tribunale di Lanciano, è stata annullata dalla Corte di Appello di L’Aquila con sentenza del 14.10.2014 che accoglieva Invece il reclamo della società e dichiarava la legittimità del recesso.

La Corte territoriale fondava la propria decisione sulla quantificazione temporale (vedi supra sub. 2) della fruizione dei permessi retribuiti, osservando che dall’accertamento, non contestato, dell’Agenzia investigativa Incaricata il lavoratore era stato visto recarsi presso l’abitazione dell’assistita solo il 12.12 per un totale di 4 ore e 15 minuti e per tre ore e 25 minuti il 13.12.

Veniva anche contestata l’irrilevanza, ai fini della fruizione del permesso della deduzione del lavoratore di avere, il 10.12, svolto nella mattina attività di assistenza atteso che deve sussistere coincidenza dell’orario che avrebbe dovuto svolgere il lavoratore e durante il quale egli aveva chiesto di poter usufruire del permesso per prestare la relativa assistenza. In definitiva risultava accertato che per oltre due terzi (o accedendo ad alcune circostanze addotte dal lavoratore, per la metà del tempo previsto) il lavoratore non aveva svolto alcuna attività assistenziale.

Il lavoratore è ricorso in Cassazione affidando le proprie doglianze a ben 9 motivi, di cui ben cinque (il primo, il terzo, il quinto il settimo ed il nono) dichiarati inammissibili.

Per quanto rileva in questa sede la Corte ha confermato il proprio orientamento, trovando l’occasione di precisare l’importanza del concetto di coincidenza della fruizione del permesso con l’orario lavorativo.

Ed infatti la Corte territoriale, si era proprio soffermata sulla circostanza per cui la pretesa assistenza prestata nella giornata del 10 (dicembre) non era coincisa, con il turno pomeridiano dalle ore 16,20 alle ore 20 (per il quale il permesso era stato in realtà richiesto), anche valutato il periodo trascorso in farmacia.

Ad aggravare la posizione del lavoratore, vi erano le indagini dell’Agenzia investigativa la quale aveva accertato che l’assistenza per la quale il permesso era stato richiesto non fu effettuata per l’orario dovuto in quanto il ricorrente si occupò di altro.

La Corte di Cassazione, sul punto afferma quindi che: “la richiesta di un permesso per assistenza presuppone, come logico, che ci si obblighi effettivamente a fornirla senza che sia lecito occuparsi proprio in quelle ore, come sembra di capire, di sospetti pericoli di furti nella propria abitazione o pedinamenti anomali e via dicendo”.

Ora il “fatto”, nella sua dimensione storica fattuale è stato, come detto, esaminato: la Corte ha accertato che per il maggior tempo dovuto l’assistenza non era stata effettuata e che le attività svolte erano estranee a quanto si era obbligato a compiere il ricorrente.

A nulla chiaramente sono valse le eccezioni del lavoratore in ordine alla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 33 L.n. 104/1992 nonché di altra norma e principio in tema di permessi fruiti dal lavoratore per l’assistenza al disabile, nella parte in cui il lavoratore rivendica che l’assistenza era stata fornita in via continuativa, ma la legge non richiede più che venga svolta per l’intero arco del permesso fruito.

II quarto motivo del ricorso così come formulato, infatti, è stato ritenuto infondato alla luce dell’orientamento della Corte[7] ed al quale la Corte ha espressamente dichiarato il proprio intento di dare continuità secondo cui “il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 L. n. 104/1992, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi dell’abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed Integra nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale[8].

Nel caso in esame è stato accertato che l’assistenza non è stata fornita per due terzi dei tempo dovuto (66%) o, in base agli stessi riferimenti del ricorrente per metà (50%) del tempo dovuto con grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’Ente assicurativo, norme codicistiche che non risultano rispettate dal ricorrente, anche a non voler seguire necessariamente la figura dell’ “abuso di diritto” che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell’Unione europea (art. 54), dimostrandosi così il suo crescente rilievo nella giurisprudenza europea.

Dunque se il Tribunale di Lanciano nella sentenza del 2012 aveva interpretato il concetto di continuità in maniera più flessibile alla luce dell’introdotta modifica legislativa dell’art. 33 affermando che il licenziamento sarebbe stato legittimo laddove “il lavoratore avesse usato l’intero orario (o una sua gran parte) del permesso per fini personali”, la Corte non solo supera questo ragionamento e lo condanna a priori (come nel caso di cui al punto 1), ma con le successive pronunce si spinge a rendere più concreto il concetto di gran parte del tempo che se risulta pari o inferiore al 66% (caso sub. 2) non può ritenersi congruo.

Nel primo caso riportato il lavoratore aveva, secondo il giudice del primo grado, impiegato la maggior parte del tempo all’assistenza all’anziana madre, atteso che per il 57% del suo orario lavorativo egli aveva legittimamente fruito del permesso richiesto. Ebbene non solo tale percentuale è insufficiente, ma anche quella superiore pari ai 2/3 del tempo, nonostante la superabilità del concetto di continuità, può dirsi sufficiente.

Né l’aver dedicato il tempo richiesto per l’assistenza ex lege 104/1992 ad adempimenti indifferibili ed urgenti[9] sono state circostanze, sebbene nel complesso esaminate, ritenute sufficienti a superare il granitico orientamento di legittimità.

Negli ultimi quattro motivi, infatti, il lavoratore contestava proprio nello specifico  anche la sussistenza della giusta causa ai fini dell’irrogazione del licenziamento – sia del fatto materiale, oltre che del fatto giuridicamente qualificato addebitato disciplinarmente, il criterio di proporzionalità nonché la mancata valutazione della condotta complessiva del ricorrente.

II lavoratore sosteneva che il fatto contestato non fosse così grave[10] poiché l’assistenza era stata prestata e, comunque, per il periodo in cui non lo era stata il ricorrente aveva svolto attività utili alla tranquillità della sua famiglia. II CCNL non prevedeva il recesso per simili ipotesi.

Anche in risposta a quest’ultimo motivo la Corte ha dovuto motivare che si tratta di grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’Ente assicurativo, norme codicistiche che non risultano rispettate dal ricorrente in relazione ad episodi che sono stati scoperti solo grazie al ricorso ad una Agenzia investigativa spingendosi ad affermare addirittura che, in tal caso, tali atti dimostrano una particolare attitudine del lavoratore a strumentalizzare forme legittime di sospensione dal lavoro.

E la Corte ha ribadito che è orientamento costante di legittimità quello per cui il codice disciplinare dei CCNL ha funzione meramente indicativa e certamente non esclude il ricorso all’art. 2119 c.c. laddove ne ricorrano i presupposti. Peraltro il CCNL disciplina il diverso caso della mera assenza dal lavoro mentre il caso di specie è stato considerato un ben diverso caso di strumentalizzazione, particolarmente insidiosa, di un istituto disposto a fini di interesse generale che incide notevolmente sulla libera autorganizzazione imprenditoriale ed anche sulle risorse pubbliche che in questo modo vengono attribuite sine titolo.

Quest’ultimo caso ha destato grande interesse poiché il lavoratore si è spinto a contestare l’inutilizzabilità degli accertamenti disposti dal datore di lavoro tramite agenzia investigativa. Il ricorrente ha dedotto, infatti che gli accertamenti fossero avvenuti in modo invasivo turbando la tranquillità familiare e che i  pedinamenti effettuati senza il minimo sospetto del compimento di illeciti dovrebbero essere considerati illegittimi.

La questione di estrema importanza sollevata dal lavoratore è stata, tuttavia, ritenuta infondata dalla Suprema Corte alla stregua di una ormai consolidata giurisprudenza di legittimità secondo la quale “le disposizioni dell’art. 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l’assenza”.

Appare evidente che il controllo di Agenzie investigative, è da ritenersi, pertanto, del tutto lecito, e non possa che avvenire attraverso forme di controllo sui comportamenti e spostamenti del lavoratore; il fatto che questi abbia chiamato i Carabinieri non comprova che le modalità siano state invasive della tranquillità familiare posto che si sono seguiti i molteplici spostamenti del ricorrente.

Certamente rientrava nel potere del datore di lavoro di verificare la correttezza, sotto il profilo dell’effettività, della richiesta di permessi di lavoro per l’assistenza a cognata non convivente (pur essendo la moglie del ricorrente vicina al parto); effettività smentita in pieno dalla verifica effettuata su tre giorni lavorativi.

Da tale orientamento al riconoscimento di una vera e propria responsabilità penale per il lavoratore che violi il “minimo etico” e le norme fondamentali del rapporto di lavoro il passo è breve[11].


[1]L’art. 33 al comma 5 prevede:” Il lavoratore di cui al comma 3, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”. Il presente comma prima modificato dall’art. 19, L. 08.03.2000, n. 53 (G.U. 13.03.2000, n. 60), è stato, poi, così modificato dall’art. 24, L. 04.11.2010, n. 183 con decorrenza dal 24.11.2010. Si riporta di seguito il testo previgente: “5. Il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.”

[2] Sul punto il lavoratore richiamava anche la circolare INPS 155 del 3.12.2010.

[3] in materia di licenziamento disciplinare, il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto “minimo etico” o inosservanti dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro (v. per l’applicazione del principio ad una vicenda caratterizzata dal medesimo disvalore sociale: Cass. 12.5.2016 n. 9749; in generale: cfr. Cass. n. 22626 del 2013; Cass. n. 20270 del 2009).

[4] Corte di Appello di L’Aquila 22.9.2014 n. 732/2014

[5] La contestazione riportava testuali parole: “ed alla luce dei precedenti disciplinari maturati a suo carico

 

[6] In tal senso si è pronunciata questa Corte con la sentenza 7523/2009.

 

[7] Cass. del 30.4.2015 n. 8784 -sub.1; Cassazione 22.3.2016 n. 5574 sub. 2;

[8] cfr. Cass. n. 4984/2014

[9] il lavoratore aveva addotto a propria discolpa lo svolgimento di attività concernente lo stato di gravidanza della moglie, la presunta preoccupazione ingenerate dallo scoperto pedinamento, la visita in farmacia.

[10] Vedi sub. 1) il concetto di proporzionalità e la tipizzazione della fattispecie

[11] Cfr. Cass. 12.5.2016 n 9749; Trib. Pisa che ha parlato di Truffa e Trib. Genova che ha parlato di reato commesso ai danni dell’azienda.

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