A cura dell’Avv. Giuliana Degl’Innocenti
Prima di affrontare il merito della questione oggetto della nostra indagine, sarà opportuno fornire un sintetico quadro inerente al concetto di danno esistenziale.
Il danno dinamico-relazionale o esistenziale trova la fonte del suo risarcimento nella distinzione prevista dall’art. 612-bis C.P., dove rilevano due momenti della sofferenza: il dolore interiore (danno morale) e la significativa alterazione della vita quotidiana (danno esistenziale); quest’ultimo consistente nel sacrificio di diritti o interessi, costituzionalmente protetti, riguardanti la persona umana, diversi dalla salute.
In buona sostanza, il danno esistenziale rappresenta la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, origine di compiacimento o benessere (c.d. attività realizzatrici), non causata da una compromissione dell’integrità psicofisica e cioè la lesione corrispondente alla modificazione peggiorativa della sfera personale del danneggiato, come insieme di attività tramite le quali il soggetto realizza la propria personalità e anche l’impossibilità di rispettare gli impegni giornalieri della propria agenda e conseguentemente doverla alterare, nonché il pregiudizio conseguente alla lesione dei diritti inviolabili dell’uomo e il demansionamento del lavoratore subordinato (vedi sul punto: Cass. S.U. n. 6572/2006).
L’argomento trattato presuppone una sintetica analisi dei principi elaborati dalla Giurisprudenza di legittimità nel corso degli anni e soprattutto dal 2003 in poi, periodo a partire dal quale “si discorre della centralità della persona e di integralità del risarcimento del valore uomo, un vero e proprio statuto del danno non patrimoniale sofferto dal soggetto per il nuovo millennio” (così Cass. 09/06/2015 n° 11851).
E’ subito da rilevare che il nastro di partenza è rappresentato dalle c.d. sentenze gemelle pronunciate dalla Cassazione a Sezioni Unite nel 2003 e 2008 (c.d. di S. Martino), dalla pronuncia delle stesse Sezioni n. 6572/2006, ed infine dalla statuizione del Giudice delle leggi n. 233/2003.
Dette pronunce muovono da una convinzione sviluppatasi a partire dagli anni ’80, con la quale si stabiliva che il danno biologico, introdotto nel nostro sistema un decennio prima al fine di garantire la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale, non fosse più possibile utilizzarlo ”quale contenitore indistinto utile a racchiudere qualsiasi genere di alterazione del benessere del danneggiato con tutti i problemi di genericità che tale situazione comportava”.
In conseguenza di ciò sono stati fissati dei principi fondamentali, sollecitati dalla necessità di evitare l’aumento incontrollato di liti c.d. bagatellari a favore di quelle realmente meritevoli di considerazione.
Si è partiti dalla responsabilità extracontrattuale la quale si basa, appunto, su un impianto bipolare in cui si differenziano danni patrimoniali e danni non patrimoniali. Gli stessi rappresentano categorie (sovente denominate macro categorie) unitarie nelle quali tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale, possono rivestire vari aspetti per la loro idoneità a incidere sui vari beni o interessi.
Ebbene, l’esistenza e l’entità di tale incidenza permette di fissare i criteri di accertamento e liquidazione.
La ricordata natura unitaria del pregiudizio non consente di moltiplicare le voci del danno che per questo assumono una valenza meramente descrittiva. Essa, lungi dal rappresentare una vera e propria “posta del danno”, consente purtuttavia di “personalizzarlo” con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto sottoposte al vaglio del Giudice.
Nella c.d. personalizzazione, Il Giudicante sarà tenuto a considerare che, pur non essendo ammesse duplicazioni del danno, la liquidazione di esso deve essere fondata su un criterio che assicuri l’integrale ristoro evitando lacune risarcitorie.
Da ciò si ricava che la stima equitativa deve essere operata con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze concrete, allo stesso modo della coscienza sociale nonché della gravità del fatto lesivo, dovendosi evitare quella che viene definita “preventiva tariffazione della persona” (v. Cass. 12/06/2015 n° 12211).
E quindi, sia pur fuse in un’unica natura le due categorie del danno patrimoniale e non patrimoniale (es. nel danno emergente: il mancato conseguimento del dovuto o, in merito al danno esistenziale: il c.d. sconvolgimento della vita per la perdita di un congiunto) è necessario che esse, in quanto esistenti e dimostrate attraverso riscontri probatori, vengano tutte risarcite e nessuna sia lasciata senza tutela.
Pertanto, il ruolo del Giudice consiste nell’accertare la reale consistenza del danno sofferto a prescindere dalla denominazione assegnatagli, identificando quali effetti pregiudizievoli si siano prodotti sul valore persona e provvedendo, quindi, alla sua integrale riparazione.
Calandosi nella disamina del tema relativo al danno non patrimoniale, si osserva che il successivo orientamento giurisprudenziale, all’indomani delle decisioni di S. Martino del 2008, ha evidenziato alcuni aspetti davvero molto articolati e complessi che risulta opportuno menzionare.
E’ utile partire da un punto fermo: il danno non patrimoniale è disciplinato dall’art. 2059 C.C., norma, quella in oggetto, che trova una interpretazione, come si suole dire, costituzionalmente orientata e che determina l’identificazione del predetto sacrificio con il danno prodotto dalla lesione di interessi riguardanti la persona, non contraddistinti da rilevanza economica. Il risarcimento di esso presuppone la sussistenza degli elementi in cui si sviluppa l’illecito civile extra contrattuale, definito dall’art. 2043 C.C..
Un danno-conseguenza, la cui area di tutela è offerta, innanzitutto, dall’art. 185 C.P., che prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante da reato, poi dalle leggi emanate specificamente per disciplinare le compromissioni di valori personali (ad es. impiego di modalità illecite per la raccolta di dati personali D.lgs. 286/1998, mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, etc.).
La protezione è estesa, oltre ai succitati casi, anche a quelli di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione dei diritti inviolabili della persona contemplati dalla nostra Carta Costituzionale non necessariamente connessi all’art. 185 C.P.
Tra di essi, primariamente, il danno alla salute (art. 32 Cost.), denominato danno biologico, del quale è data, dagli artt. 138 e 139 D.lgs. n° 209/2005, specifico inquadramento normativo.
Fatta questa precisazione, tuttavia, incontriamo un iniziale problema, nella lettura delle c.d. sentenze di S. Martino del 2008, laddove si statuisce che i patemi d’animo e la mera sofferenza psichica interiore, sono, di norma, assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico, al quale viene riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva.
A partire dal 2010, però, l’Autorevole Collegio è stato sovente invitato a operare la sua funzione nomofilattica sulla presenza di un danno esistenziale non assorbito in quello biologico, in quanto ontologicamente differente, interrogandosi sul suo impatto e sulla sua natura.
Con la sentenza 09/05/2011 n° 10107 viene illustrato relativamente al c.d. danno da perdita del rapporto parentale” che esso” va al di là del crudo dolore che la morte di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi nel vuoto costituito dal non poter più godere della presenza della persona e del rapporto con cui è venuta meno e perciò nell’immediata distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra figlio e genitori, tra fratello e fratello, nel non poter fare più ciò che per anni si è fatto, nonché nella alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra superstiti”.
Il danno parentale, seguendo il ragionamento della Suprema Corte, appare sostanziarsi, in definitiva, in un pregiudizio che si estende attraverso il danno esistenziale, risarcibile iure proprio agli stretti congiunti della vittima, rientrando nell’ambito di applicazione dell’art. 2059 C.C. e ristorando un pregiudizio tutelato costituzionalmente senza i limiti sanciti dalla suesposta disposizione normativa in correlazione dell’art. 185 C.P.
Esso si struttura, in pratica, in una sofferenza di intensità tale da alterare considerevolmente le abitudini di vita della vittima riflessa del fatto illecito (appunto il soggetto legato da un vincolo parentale con la persona deceduta), un danno/conseguenza, pertanto, per cui l’ ubi consistam va ricercato in un interesse specifico che riguarda la intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito famigliare, nonché nell’inviolabile libertà di piena espressione delle attività realizzatrici in seno alla persona umana.
Si tratta, dunque, di un danno/conseguenza, avente scaturigine dalla sofferenza per la perdita parentale che va allegato e provato, oralmente e attraverso produzioni documentali nonché mediante il ricorso alla presunzione e alle nozioni di comune esperienza (ad esempio: l’ età del danneggiato e la gravità della conseguenza del fatto illecito – v. ex multis Cass. 12/06/2006 n° 1356 ed anche Cass. 1911/2015 n° 777).
Da segnalare, altresì, le pronunce che l’Autorevole Giurisprudenza ha emanato nel solco di quanto abbiamo appena esposto, le quali hanno confermato la diversità ontologica del danno esistenziale rispetto a quello biologico, fissandone i confini (v. Cass. 23147/2013, Cass. 9231/2013, Cass. 19402/2013, Cass. 22585/2013, Cass. Sez. Lavoro 2187/2014, Cass. 1361/2014, Cass. 11851/2015), nell’accezione che l’uno non può ritenersi una sotto specie dell’altro e il Giudice deve verificare, appunto, la reale presenza di un danno biologico in senso stretto (cioè la lesione della salute), di quello morale (la sofferenza interiore) e di quello dinamico-relazionale (esistenziale, consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiana in una dimensione nella quale il pregiudizio concerne altro aspetto della salute) con particolare attenzione al fatto che il primo può anche non essere presente ed esistere solo quest’ultimo (v. Cass. 14/09/2014 n° 531).
Quindi, si osserva come il dubbio esistenzialista della Cassazione sembra aver trovato una positiva risoluzione. Sul punto sarà utile rammentare infatti la sentenza della Suprema Corte n. 9320 del 08/05/2015 , nella quale la stessa ha appunto statuito, ore rotundo, che il danno risarcibile è costituito dalla lesione di un interesse giuridicamente protetto, da ciò si ricava pertanto che esso non può mai strutturarsi nella mera lesione del diritto in sé per sé considerato, ma deve cagionare una effettiva lesione, dato che il nostro sistema giuridico non prevede un damno sine iniura. In questo senso, può dirsi che il sacrificio di un solo interesse può provocare pregiudizi differenti, come la lesione di interessi diversi può produrre un sacrificio unitario, con la conseguenza che il Giudice è tenuto, nella liquidazione del danno, a considerare l’individuazione dell’interesse tutelato che si assume violato, nonché la perdita subita dal danneggiato (patrimoniale e non) come pure la quantificazione del bene perduto.
Da quanto illustrato emerge con chiarezza il principio di diritto sancito dalla Corte di Cassazione: “il risarcimento del danno da fatto illecito presuppone che sia stato leso un interesse della vittima, che da tale lesione sia derivata una “perdita” concreta, ai sensi dell’art. 1223 C.C., e che tale perdita sia consistita nella diminuzione di valore di un bene o di un interesse. Pertanto quando la suddetta perdita incida su beni oggettivamente diversi, anche non patrimoniali, come il vincolo parentale e la validità psicofisica, il Giudice è tenuto a liquidare separatamente i due pregiudizi, senza che a ciò osti il principio di omnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, il quale ha lo scopo di evitare le duplicazioni risarcitorie, inconcepibili nel caso in cui il danno abbia inciso su beni oggettivamente differenti”.
Nella sua più recente rassegna giurisprudenziale il Supremo Collegio ci illustra poi che, al fine di scongiurare vuoti risarcitori, il Giudice del merito dovrà accertare e liquidare, se oggetto della domanda e se effettivamente presente, qualsiasi pregiudizio non patrimoniale anche diverso e ulteriore rispetto a quello alla salute e avente fonte dal pregiudizio di interessi della persona costituzionalmente salvaguardati. La quantificazione potrà anche essere, anche se non necessariamente, posta in opera mediante il calcolo tabellare o altri criteri equitativi, ma sempre prevedendo un idoneo ristoro.
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