A cura dell’avv. Elisa Maria Di Maggio
1.1. Il concetto di delocalizzazione produttiva
Generalmente con il termine “localizzazione” si fa riferimento, in senso letterale, all’ubicazione di una data attività, di un’impresa o di un bene in uno specifico luogo geografico. In senso figurato, invece, con la stessa espressione viene designato il processo valutativo posto in essere da un determinato soggetto (quale può essere un imprenditore) volto all’individuazione di un luogo atto ad ospitare la sede di un’impresa o l’impianto di un’iniziativa economica, tenuto conto di tutti i vantaggi che proprio quel certo posto può offrire rispetto ad altri simili.
Il trasferimento del luogo d’impianto di un’impresa commerciale o dell’allestimento di un’iniziativa è un’attività che può essere correttamente denominata come “rilocalizzazione”, benché negli ultimi tempi si è preferito utilizzare altri termini quali “delocalizzazione” e “centralinizzazione”. Al riguardo, per essere più precisi, con la prima delle espressioni indicate viene usualmente fatto riferimento al materiale spostamento della sede di un’impresa, o anche solo al decentramento di una sua parte, in un’altra nazione che presenta, proprio in quel dato momento storico, una serie di concrete opportunità determinate – soprattutto- da una notevole disponibilità di risorse umane a basso costo di retribuzione salariale; con il secondo lemma, invece, viene data una qualificazione terminologica a quell’attività mediante la quale le iniziative di natura imprenditoriale vengono, in maniera totale o solo parziale a seconda dei casi, nuovamente predisposte in diverse località che rispetto ai Paesi di origine manifestano dei maggiori vantaggi in primo luogo di tipo economico.
Pur nelle loro differenze le attività aventi ad oggetto la localizzazione, la rilocalizzazione e la centralinizzazione delle attività produttive rappresentano, nel loro complesso, diverse forme di insediamenti nonché degli investimenti economici sia di tipo interno che di tipo esterno.
Il fenomeno della delocalizzazione, soprattutto negli ultimi tempi, è stato oggetto di numerose attenzioni e di studi anche in ragione del fatto che i recenti dati pubblicati hanno segnalato una notevole tendenza da parte delle imprese ad acquisire unità produttive in Paesi del Sud – Est asiatico , dell’America Latina (in particolar modo il Brasile), dell’Europa Orientale, ma anche in Cina, in India, nelle Filippine e in Corea del Nord. Benché ad attrarre i nostri imprenditori sia anche un Paese economicamente sviluppato come la Francia, dato che oltre 2.562 aziende italiane hanno trasferito una parte della propria filiera produttiva proprio in questa nazione. In quest’ultimo caso la scelta sembra essere giustificata dalla certezza del diritto, in quanto nel Paese transalpino, ad esempio, i tempi di pagamento e di risposta da parte delle autorità locali sono più puntuali e veloci rispetto a quanto non avvenga in Italia.
In altri termini, da un punto di vista strettamente economico, la delocalizzazione si configura come una forma di organizzazione della produzione aziendale dislocata in regioni o stati diversi rispetto a quelli di origine.
Le scelte delle aziende di localizzare, delocalizzare o centralizzare le proprie attività sono sempre strettamente connesse ad una preliminare valutazione avente ad oggetto i costi attinenti alle componenti o ai fattori degenerativi della produzione commerciale e, sulla base di questi specifici presupposti, si opta di ubicare l’impresa in un sito rispetto ad un altro, in quanto si ritiene che esso sia in grado di determinare dei maggiori profitti.[1]
Facendo riferimento alle ultime ricerche condotte sull’argomento qui oggetto di esame, è stato rilevato che nel corso del tempo vi è stato un notevole mutamento della localizzazione delle imprese, la quale è stata determinata in primis dai costi legati ai processi produttivi nonché dalle numerose innovazioni tecniche e tecnologiche di natura informatica e teleinformatica. Per tale ordine di ragioni anche la primitiva teoria giustificatrice posta alla base della localizzazione, la quale era essenzialmente imperniata su una valutazione quantitativa dei soli costi di trasporto, è stata – via via – sostituita dalla teoria della polarizzazione urbano – industriale, la quale considera come causa giustificatrice di tutte le scelte di localizzazione produttiva le conseguenze moltiplicative determinate sia dalle economie di scala interne (strettamente collegate con le dimensioni dell’impresa) che dalle economie di scala esterne (collegate agli investimenti pubblici in opere di urbanizzazione). Tale teoria, tuttavia, ha trovato una seria limitazione nel fenomeno dell’aumento dei costi di produzione/riproduzione della forza lavoro e del capitale che ha cominciato a configurarsi a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Proprio in questo lasso di tempo è stato introdotto il concetto di “delocalizzazione”, al fine di dare una compiuta definizione a quel particolare fenomeno che vedeva uno spostamento delle attività dalle grandi aree metropolitane in territori esterni ad esse che venivano ritenuti più adatti alla produzione.
Con lo scorporo delle attività e delle funzioni di un’impresa madre in più territori tra loro distanti, le imprese hanno cominciato ad essere raffigurate come degli organismi allo stesso tempo multi nazionalizzati ed internazionalizzati nell’ambito di un più vasto mercato globale.
Il decentramento di determinati segmenti di un’impresa rappresenta una modalità mediante la quale viene ricercata una flessibilità dei diversi fattori produttivi quali possono essere il lavoro, le differenze salariali, le acquisizioni tecniche, gli avanzamenti tecnologici. Oltre a ciò la delocalizzazione può essere considerata come una particolare strategia evolutiva mediante la quale le imprese prevedono l’esistenza di un nucleo centrale avente il compito di guidare e coordinare, in maniera gerarchica, le attività svolte dai sistemi produttivi periferici. Si tratta, sostanzialmente, di un sistema di riorganizzazione produttiva mediante il quale viene attuato uno scorporo ed una autonomizzazione delle unità tecniche decentrate, il quale dà luogo ad una pluralità di imprese che possono essere anche distinte e separate da un punto di vista giuridico ma, pur sempre, dirette da un’unica impresa madre che è capo – gruppo che rappresenta la holding finanziaria di un complesso industriale.
Le imprese che prendono la decisione di delocalizzare le proprie attività possono, conseguentemente, assumere diverse conformazioni, tra queste la più conosciuta è la cosiddetta “impresa – rete”, la quale risulta essere caratterizzata da uno sviluppo delle ramificazioni dell’azienda verso l’esterno mediante varie strutture tecniche con le quali viene attuato un coordinamento operativo tra le aziende.
Questi nuovi modelli di riorganizzazione aziendale hanno, a loro volta, dato vita a particolari forme di specializzazione funzionale e di accordo e sostegno tra le unità produttive, costituendo la causa primaria della nascita di molteplici regioni industriali, le quali possono – in modo sintetico – essere distinte in sei categorie principali, quali aree industriali metropolitane, distretti tecnologici, regioni industriali consolidate, regioni periferiche in via di sviluppo, regioni risultanti dalla deverticalizzazione congiunta di grandi imprese produttive in ambiti emergenti o sottosviluppati, aree di semplice decentramento industriale.[2]
1.2. Le cause e gli effetti della delocalizzazione produttiva
La delocalizzazione produttiva, consistente in uno spostamento delle attività produttive in siti esteri allo scopo di ottenere dei vantaggi, è un fenomeno assai complesso che si inserisce nel più ampio ambito del commercio internazionale, il quale, nonostante sia strettamente connesso alla società moderna, trae le sue origini addirittura nel lontano XV secolo, ovvero con la scoperta dell’America, evento che ha segnato anche la nascita del sistema economico mondiale.
A seguito delle nuove scoperte geografiche vi fu un corrispondente passaggio da un ordinamento economico fondamentalmente basato sulla produzione/consumo di merci locali, ad un altro –invece – imperniato sullo scambio di tali merci tra diversi Paesi.
Le cause determinanti i progetti di delocalizzazione sono assai eterogenee, tra queste le più rilevanti si rintracciano nella possibilità di ridurre i costi di produzione, nella disponibilità di reperire a bassi costi di retribuzione della manodopera specializzata, nel ritrovamento di materie prime proprio nello stesso luogo di produzione, nell’opportunità di creare dei nuovi sbocchi di mercato.
Le diverse motivazioni che spingono le imprese ad investire all’estero e, dunque, a delocalizzare una parte della propria produzione, più precisamente possono essere distinte in due grandi categorie: da una parte la ricerca di fattori produttivi a basso costo o non disponibili nel Paese di origine delle imprese – madri, da un’altra parte, invece, la maggiore vicinanza ai mercati di sbocco. Nel primo caso l’investimento compiuto si configura come di tipo verticale, in quanto determina una frammentarietà internazionale del processo produttivo, in cui le diverse fasi vengono svolte in Paesi differenti in funzione dei diversi vantaggi comparati che si intende acquisire
Nel secondo caso, altresì, l’investimento compito si qualifica come di tipo orizzontale, in quanto capita che le imprese doppino proprio nel paese ospitante scelto, delle attività produttive che, comunque, vengono mantenute nel Paese di origine, e la produzione internazionale viene in questa ipotesi, a configurarsi come una modalità alternativa attraverso la quale si dà luogo alle esportazioni allo scopo di servire adeguatamente un dato territorio. Questa soluzione, denominata in letteratura “ trade – off”, si caratterizza per il fatto che consente una riduzione dei costi di trasporto.
A ogni modo, prima di avviare un progetto di delocalizzazione, le imprese compiono delle importantissime valutazioni preliminari, stabilendo o meno se una scelta simile possa davvero rappresentare una strategia produttiva efficace.
Si è dibattuto a lungo, sia a livello nazionale che internazionale, sugli effetti economici dei processi di delocalizzazione e, più in generale, di internazionalizzazione, in particolar modo facendo riferimento alla creazione di nuovi posti di lavoro e alla distribuzione internazionale degli stessi.
In genere accade che quei territori che perdano le produzioni, oltre ad un indebolimento della loro competitività strutturale, subiscano una naturale contrazione dei lavoratori impiegati in quel settore con una conseguente incidenza negativa sull’intero sistema socio – economico. Viceversa, i Paesi nei quali viene materialmente attuata una delocalizzazione, registrano uno sviluppo in ragione del fatto che ottengono nuovi impieghi di lavoro per i loro abitanti, investimenti e strutture che creano un esponenziale aumento di ricchezza in quel territorio. Occorre, tuttavia, precisare che in queste nazioni non viene a determinarsi uno sviluppo generalizzato, in quanto i ritorni economici vengono ad essere veicolati e poi riscossi dai Paesi di quelle imprese che hanno scelto di delocalizzare, essendo legati ad essi da una stretta rete di rapporti di natura legale e finanziaria che se interrotta riporterebbe la situazione economica ad un livello simile a quello preesistente o, addirittura, peggiore.[3]
Usualmente l’impatto delle attività di delocalizzazione sulla creazione di posti di lavoro nelle economie dei territori ospitanti varia, di caso in caso, in relazione al Paese e al settore industriale di destinazione. In genere capita che la creazione di posti lavorativi determinata da un certo ammontare di investimenti diretti all’estero sembra essere maggiore nelle economie in via di sviluppo ed in transizione rispetto a quanto non avvenga nei Paesi industrializzati.
Facendo specificamente riferimento alla situazione italiana, uno studio condotto in merito nel 2003 ha messo in evidenza come gli investimenti diretti esteri hanno un impatto negativo sui livelli occupazionali del nostro Paese solo quando questi siano finalizzati a ricercare livelli di efficienza economico – produttiva più elevati (ovvero costituiscano dei cosiddetti investimenti verticali), mentre gli effetti sarebbero sostanzialmente positivi nell’ipotesi di investimenti attuati allo scopo di creare un’apertura o un consolidamento di nuovi mercati di sbocco nei Paesi in via di sviluppo (ovvero si tratti di investimenti di tipo orizzontale).
Le altre ricerche aventi ad oggetto gli effetti delle attività industriali svolte all’estero sui livelli di occupazione del Paese di origine hanno segnalato che le delocalizzazioni possano, in alcuni casi, comportare per le imprese madri un aumento dei lavoratori qualificati sul totale dell’occupazione. Più precisamente, gli investimenti di tipo verticale, ovvero rivolti verso i Paesi a basso costo del lavoro, dovrebbero determinare un aumento del livello medio di qualifica dei dipendenti delle imprese di origine, in quanto le attività delle sedi principali delle aziende hanno, in generale, un livello di qualificazione più alto rispetto alle attività produttive. Oltre a questi fattori, deve essere messo in evidenza che le sedi amministrative offrono alle consociate straniere dei servizi specializzati in aree altamente qualificate come quelle del marketing, della finanza, della logistica, del design, dello strategic management. A seguito delle delocalizzazioni, inoltre, i sistemi locali potrebbero posizionarsi su settori di mercato aventi un maggiore valore aggiunto ed un più alto grado di qualificazione con un corrispondente sviluppo qualitativo del collegato settore terziario.
Anche il commercio internazionale causa degli effetti sulla forza lavoro dei Paesi di destinazione e di origine delle materie prime, delle semicomponenti e dei prodotti finiti, già tra il 1991 e i 1992 le analisi condotte sul tema (da studiosi quali Murphy, Welch e Borjas) hanno rilevato che i processi di delocalizzazione contribuiscano in maniera rilevante ad un aumento della domanda di lavoro ad alto livello di qualifica e ciò a discapito dei lavoratori scarsamente qualificati, benché i pareri degli economisti, su un effettivo impoverimento delle fasce di lavoro a basso livello di qualifica nei paesi industrializzati, siano assai discordanti.
Prendendo in esame la realtà italiana, occorre innanzitutto rilevare che i più importanti studi condotti in merito al fenomeno della delocalizzazione produttiva sono tra loro assai discordanti dando conseguentemente luogo ad una mancanza di unanime consenso circa gli effetti di tale attività. Più precisamente alcune ricerche hanno messo in evidenza l’esistenza di una correlazione tra delocalizzazioni ed un restringimento, per l’Italia, dei livelli occupazionali e degli investimenti; mentre secondo altri autori la delocalizzazione non incide in maniera significativa sul numero definito di occupati, pur avendo degli indubbi effetti su quelle che sono le loro caratteristiche peculiari, soprattutto in termini di spostamento verso segmenti produttivi aventi una maggiore specializzazione o qualificazione.
In relazione agli effetti dispiegati dalla delocalizzazione sull’impresa madre che decide di internazionalizzare, uno studio condotto in merito da Navaretti e Castellani nel 2003 ha dimostrato che, sebbene tale attività dia inevitabilmente luogo ad una riduzione del numero di occupati nelle imprese che hanno aperto nuovi stabilimenti all’estero, tale contrazione non è poi così importante e, molto spesso, si rivela minore rispetto a quella che le aziende avrebbero dovuto sostenere se non avessero deciso di investire all’estero rimanendo in Italia. Sulla base di queste osservazioni i due autori sono arrivati ad asserire che gli investimenti esteri, sebbene diretti verso Paesi in via di sviluppo e a basso costo del lavoro, il più delle volte si rivelano essere una buona strategia atta a salvaguardare l’occupazione domestica.
Sempre nel 2003, un team di ricercatori capeggiati da Mariotti si sono concentrati sugli effetti indiretti, prendendo come principale riferimento della loro indagine la cosiddetta “ragione industriale”, la quale è stata concretamente identificata nell’ insieme di imprese operanti in uno stesso comparto industriale (corrispondente ad un gruppo di settori interdipendenti appartenenti ad una stessa filiera produttiva) e ubicate in una medesima regione geografica. I risultati di quest’ultima ricerca hanno, invece, messo in evidenza come un aumento dell’occupazione nelle unità produttive affiliate estere, poste in Paesi meno sviluppati e a basso costo del lavoro, determini una riduzione dell’utilizzazione della forza lavoro, a parità di condizioni, in Italia. E’ giusto precisare che, comunque, questo studio non consente di trarre delle conclusioni definitive in merito a quelli che sono gli effetti finali degli investimenti esteri sui livelli assoluti dell’occupazione interna del Paese e sulla sua composizione occupazionale.
Ancora un altro studio sugli effetti diretti ed indiretti degli investimenti delle imprese italiane all’estero, svolto in merito da Elia ed altri, risalente al 2007, ha fatto notare come le attività di delocalizzazione abbiano contribuito a determinare una complessiva riduzione dell’occupazione in Italia, la quale è stata significativa soprattutto per quei lavoratori low – skilled (quali operai ed impiegati) qualora tali attività siano diretti verso Paesi a basso costo del lavoro.
Altre ricerche, fatte proprio in materia, si sono focalizzate esclusivamente sugli effetti indiretti dell’internazionalizzazione produttiva, concentrandosi sul settore terziario. Tra questi si distinguono i lavori svolti nel 2004 da Savona e Schiattarella che hanno dimostrato che il trasferimento all’estero della produzione (nello specifico in riferimento agli anni tra il 1991 ed il 1996) da parte delle imprese italiane abbia comportato una correlativa crescita dell’occupazione dei servizi nelle province italiane. Ad analoghe conclusioni è giunta anche un’analisi condotta nel 2007 da Mariotti e Piscitello con la quale è stato riscontrato che le delocalizzazioni internazionali abbiano un rilevante impatto sulla crescita dell’occupazione nei settori dei servizi.
Nel 2008 una ricerca condotta sempre da Elia insieme ad altri (riferita nello specifico a un periodo compreso tra il 1996 ed il 2001) è riuscita a mettere in evidenza che le delocalizzazioni sono correlate in maniera positiva alla domanda di lavoratori da parte delle imprese che forniscono servizi logistici. Infatti, appare ovvio come il trasferimento della produzione all’estero, congiuntamente ad un ampliamento dei mercati di acquisto dei fattori produttivi/vendita delle merci finite, determinino significative conseguenze sulle attività logistiche, a supporto delle attività di delocalizzazione.
Un ulteriore studio, che appare necessario ricordare in questa sede, è il progetto European Restructuring Monitor (ERM), condotto dal centro di ricerca di Dublino European Monitoring Centre on Chance (EMCC) a partire dal 2001, con il quale sono state catalogati più di 3.500 casi di ristrutturazioni aziendali che hanno avuto luogo in Europa tra il 2003 ed il 2006, le quali hanno causato per i Paesi di origine delle perdite, sebbene non rilevantissime, di posti di lavoro. Più dettagliatamente, queste operazioni di ristrutturazioni, oltre a riguardare delle localizzazioni in senso stretto, erano inerenti anche a delle acquisizioni, delle fusioni, delle chiusure di imprese, dei rami di azienda o singoli impianti, delle riorganizzazioni interne, le quali nel loro complesso, con uno spostamento di attività economiche da un Paese all’altro, hanno determinato una ridefinizione dei livelli occupazionali. Secondo le rilevazioni effettuate dall’ERM, nel quadriennio 2003 – 2006, in Italia le ristrutturazioni aziendali avrebbero causato una perdita pari a circa lo 0,2% della forza lavoro. Sulla base di questi dati, se si effettua un confronto tra la situazione riscontrata in Italia con quella di altri Paesi europei (sempre analizzati dal ERM), è possibile rilevare come il nostro Paese, rispetto ad altre nazioni europee, come Germania, Francia ed Inghilterra, abbia patito, a causa di iniziative di delocalizzazione, una riduzione dei livelli occupazionali, più limitata e meno grave.
Sempre in termini di posti di lavoro, la suindicata ricerca, ha messo in evidenza che i comparti italiani maggiormente interessati dal fenomeno della delocalizzazione sono quello del tessile, dell’abbigliamento/calzaturiero, della meccanica e delle apparecchiature e dell’automobilistico.[4]
1.3. Le imprese italiane che scelgono di delocalizzare le proprie attività produttive all’estero
La delocalizzazione è un fenomeno che può considerarsi, tra le altre cose, come il risultato di un’aumentata competizione a livello internazionale determinata dalla liberalizzazione dei flussi commerciali dell’Unione Europea con i Paesi dell’Europa Orientale. Come è stato già detto, tra i motivi principali per i quali le imprese decidono di delocalizzare le proprie attività in altri aree vi sono la differenze salariali, che in questi luoghi sono molto più bassi. I territori prescelti, tuttavia, possono cambiare nel corso del tempo in quanto spesso accade che il commercio internazionale metta in moto forze che tendano ad eguagliare il costo del lavoro nelle diverse regioni. Oltre a ciò, è nella natura delle cose che mentre i Paesi a basso reddito accumulino capitale fisico ed umano, la produttività dei loro lavoratori cresca e, di conseguenza, anche i loro salari, i cui aumenti sono strettamente connessi ad un incremento della domanda.
Riferendoci esclusivamente alla realtà italiana, possiamo affermare che le attività di delocalizzazione hanno consentito al nostro Paese di permanere sugli scenari internazionali attraverso una riduzione dei costi di produzione che si è, corrispondentemente, riflettuta sui prezzi di vendita. Lo scopo principale perseguito, dunque, un contenimento dei costi che permetta politiche dei prezzi più competitive.
Per le imprese italiane la delocalizzazione internazionale si è rivelata una strategia economica di successo soprattutto grazie alla capacità di sviluppare politiche di contenimento dei prezzi che hanno permesso il conseguimento di migliori performances sui mercati internazionali.
Volendo approfondire la conoscenza dei processi di delocalizzazione delle imprese italiane, ci si scontra con il problema attinente al reperimento di dati, informazioni, serie statistiche pertinenti all’argomento, i quali sono solo parzialmente utilizzabili ai fini di una corretta comprensione del fenomeno in questione.
Sulla base della definizione seguita nel presente lavoro, per delocalizzazione si fa riferimento alla cessazione, che può essere totale o parziale, da parte di un’impresa, di un’attività economica all’interno di un determinato Paese con la sua successiva ripresa in un altro Paese estero mediante investimenti diretti o, in alternativa, tramite l’attivazione di flussi/accordi di natura commerciale.
La descrizione adottata crea, però, dei grossi problemi ai fini della sua misurazione pratica, la quale non è agevolmente armonizzabile con i dati ufficiali rilevati dall’economia. Infatti, queste informazioni sono, in linea di massima, raccolte dagli esperti solo a livello settoriale, mentre le decisioni di delocalizzare sono prese a livello aziendale. Per queste ragioni è assai difficoltoso stabilire un legame tra i dati sulle importazioni e la decisione gestionale di sostituire un prodotto importato con un altro, del tutto analogo, che è stato invece realizzato internamente e viceversa.
E’ impossibile dedurre il grado di trasferimento delle attività produttive all’estero sulla base di una semplice disamina delle tendenze della produzione interna o delle tendenze riguardanti le bilance commerciali ed i livelli occupazionali o, ancora, di altri indicatori.
Non essendoci disponibilità di pertinenti dati diretti, gli studi effettuati in merito sono stati condotti utilizzando misure indirette tramite le quali è stato possibile ricavare un’illustrazione dell’entità del fenomeno alquanto approssimativa.
Ad ogni modo, sulla base dei dati statistici disponibili, affiancati da alcuni studi e da delle ricerche condotte sull’argomento in esame, è possibile tratteggiare quelli che sono i principali aspetti della delocalizzazione italiana.
Le ultime rilevazioni ISTAT attualmente disponibili, che risalgono al 2008 e sono state effettuate, su impulso della Commissione Europea, nel corso del 2007 sulla base di un questionario armonizzato a livello europeo, interessando solo le imprese medio/grandi attive nei settori dell’industria e dei servizi, con un’esclusione del settore finanziario. Questi dati ci mostrano come, nel periodo compreso tra il 2001 ed il 2006, più di 3.000 mila imprese italiane hanno dato avvio a vari ed eterogenei processi di internazionalizzazione. Più precisamente, circa 1.600 di queste imprese hanno dato inizio a nuove attività economiche all’estero, mentre oltre 2.200 aziende hanno trasferito fuori dai confini nazionali attività economiche e funzioni aziendali, realizzando in queste modo delle delocalizzazioni produttive intese in senso stretto. Altre 850 imprese hanno, allo stesso tempo, realizzato sia delle attività di delocalizzazione propriamente intese che altri investimenti esteri di contenuto più ampio.[5]
Le regioni italiane più investite dalla “fuga” delle proprie aziende verso l’estero sono quelle del Nord, in particolar modo Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte
Focalizzando l’attenzione sui territori esteri scelti dalle imprese italiane per delocalizzare le proprie attività produttive, i dati rilevati hanno messo in evidenza che le destinazioni predilette sono i Paesi dell’Europa centro orientale geograficamente più vicini, mentre tra i Paesi extra – europei sono state scelte zone come la Cina, il nord Africa e alcuni zone dell’America Latina.
Valutando i dati in nostro possesso non può non notarsi che L’Italia in termini di investimenti fatti all’estero, rispetto ad altri Paesi, sia europei che non, economicamente avanzati, è fortemente arretrata. La giustificazione logica a tale tipo di ritardo viene ritrovata in fattori di impresa, di settore e di strategia, che per quanto diversi sono sempre strettamente interconnessi tra loro. In altre parole, il sottosviluppo in questo particolare ambito è spiegato dal fatto che le imprese nostrane hanno, in genere, delle dimensioni minori in comparazione alla media europea, inoltre in Italia si tende a privilegiare strategie di internazionalizzazione che presentano dei rischi minori, come il commercio internazionale e la delocalizzazione in senso stretto. L’internazionalizzazione italiana risulta essere ancora concentrata su forme di presenza all’estera basate essenzialmente su esportazioni ed accordi di collaborazione che non danno luogo a concreti investimenti di capitale finendo per confondersi con l’ordinario traffico commerciale.[6]
1.4. L’esperienza italiana di delocalizzazione all’estero
L’esperienza di trasferire in Paesi esteri le proprie attività produttive di merci ha avuto inizio, per le imprese italiane, più di trent’anni fa. Al riguardo si rammenta, per citare qualche esempio significativo, la costruzione di stabilimenti della FIAT nell’ex Unione Sovietica e in Polonia, o della Piaggio, che ancora oggi, produce i propri modelli di motoscooter ed altri, in India.
D’altra parte in Italia si è, in un primo tempo, assistito al particolare fenomeno della delocalizzazione interna dal Nord al Sud del Paese, a seguito dell’emanazione di una legge, che al fine di risolvere l’annosa questione meridionale, imponeva alle imprese di concentrare nelle regioni a sud del Lazio il 60 per cento dei nuovi investimenti economici.
Tra le ragioni che hanno spinto le aziende a decidere di delocalizzare vi è, in primo luogo, il costo complessivo del lavoro, il quale risulta essere gravato a carico delle imprese italiane quasi di un ulteriore 50% per i contributi parafiscali.
Oltre alle imprese di grandi dimensioni, tra gli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso, ha cominciato a delocalizzare anche la media e piccola industria, soprattutto della Toscana e del Veneto.
Le imprese toscane hanno scelto di trasferire la produzione calzaturiera di medio livello (quella di alto livello è rimasta nelle regione delle Marche) in Tunisia e in Marocco, in parte per i prodotti migliori appartenenti a quella fascia e in toto per i prodotti scadenti (ad esempio i sandali estivi destinati al mercato tedesco).
Le imprese del Veneto, soprattutto quelle appartenenti al settore dell’abbigliamento e del calzaturiero (come Benetton, Stefanel Diesel, Marzotto, Geox ecc.) ma anche aziende quali AGIP, IVECO e Zoppas, invece hanno prescelto la Romania (ancor prima che entrasse a far parte dell’Unione Europea).
Il modello seguito ricalca per grandi linee quello già utilizzato dalle imprese statunitensi tra gli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo nei Paesi meridionali del NAFTA, secondo il quale si tendeva a mantenere in patria l’ideazione, la progettazione e finitura del prodotto, nonché il design e il controllo finale di qualità, mentre l’intero processo produttivo veniva eseguito all’estero.
Per quanto riguarda le concrete formule giuridiche utilizzate per dare una materiale realizzazione alle delocalizzazioni produttive, si va dalle semplici importazioni di prodotti finiti realizzati all’estero sulla base di un’apposita licenza ad un vero e proprio outsourcing compiuto mediante un ricorso a subfornitori stranieri; si hanno, inoltre, diverse forme di partneriato (con reali partnership o con il franchising), ma anche delle joint ventures o dell’offshoring (ottenuto con un’acquisizione di imprese tramite degli investimenti durevoli all’estero di investimenti). Tuttavia, la grande maggioranza delle delocalizzazioni da parte delle imprese, soprattutto di media e piccola dimensione, ha avuto luogo mediante il sistema del Traffico di Perfezionamento Passivo (TPF), il quale consiste precisamente in un’esportazione di materie prime/semilavorate, con una conseguente garanzia di riacquisto e, quindi, di reimportazione del prodotto se la lavorazione è stata perfettamente eseguita.
La legislazione italiana si è interessata del fenomeno della delocalizzazione produttiva fin dal 1990, più precisamente con l’emanazione della Legge 100/90 (in seguito modificata nel 1998 e poi nel 2000), la quale ha istituito la Società Italiana per le imprese Miste all’Estero (SIMEST), avente un capitolo azionario prevalentemente pubblico, al fine di incentivare e tutelare gli investimenti durevoli fatti all’estero e partecipare al capitale di società produttrici costituite da soggetti italiani fuori dai confini nazionali, sostenute anche con finanziamenti pubblici per le attività delocalizzate. Questa società, sin dal 1999, si occupa di gestire quasi la totalità degli aiuti economici diretti alle imprese italiane all’estero (in special modo nei Paesi extra Europei). Oltre a ciò ha il compito di agevolare anche la semplice penetrazione commerciale (la quale costituisce un’attività che in genere precede quella di delocalizzazione) tramite dei crediti all’esportazione, favorendo la partecipazione a gare internazionali per l’aggiudicazione di commesse, agendo in questo modo a sostegno del made in Italy.
Nel 2001 è stata emanata la Legge n. 57 con la quale è stato dato un ulteriore incentivo alla partecipazione in società miste costituite all’estero, prevedendo un importante incremento agli incentivi rivolti all’internazionalizzazione delle imprese, soprattutto di medie e piccole dimensioni.
I provvedimenti legislativi più recenti, infine, quali le Leggi 56/2005 e la 80/2005, hanno potenziato ed ampliato notevolmente la concessione di aiuti statali di natura economica per l’avviamento di attività di delocalizzazione al di fuori dall’Unione Europea. La prima delle due leggi indicate ha focalizzato l’attenzione su una serie di Paesi individuati e considerati selettivamente prioritari dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, mediante degli ausili concessi in base a degli studi di fattibilità e prolungati in caso di provvista dei mezzi assicurata dalla Banca Europea per gli investimenti (BEI) o dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS). Quest’atto normativo, altresì, ha anche istituito, in quei Paesi di maggior interesse commerciale/imprenditoriale per l’Italia, una serie di “Sportelli unici”, ovvero degli uffici pubblici polivalenti atti ad assicurare e ad accrescere il supporto a tutte le imprese italiane presenti proprio in questi territori, tramite delle consulenze e degli orientamenti di vario contenuto. Uno degli scopi principali che il Legislatore ha voluto raggiungere proprio con questa legge si ravvisa nella predisposizione, proprio nei Paesi stranieri in questione, di strutture permanenti aventi il fine di fornire degli aiuti di vario genere alle produzioni italiane.
La seconda delle leggi sopraindicate, inoltre, ha introdotto una serie di clausole volte, in vario modo, a salvaguardare le attività di delocalizzazione produttiva, sancendo espressamente che tutti i benefici previsti dalla legge non possano trovare applicazione per quelle imprese che, investendo all’estero, non conservino in Italia la direzione commerciale, le attività di ricerca/sviluppo e una sostanziale parte delle loro attività produttive. Questo provvedimento, altresì, stabilisce espressamente che tutte le imprese che hanno investito all’estero, qualora decidano di reinvestire in Italia, avranno il diritto di usufruire delle stesse agevolazioni e degli incentivi riservati per legge alle imprese straniere che scelgono di fare degli investimenti o di delocalizzare in Italia.
Le leggi qui illustrate, benché possono sembrare tra loro contraddittorie e inconciliabili, mettono in evidenza i due aspetti peculiari del fenomeno della delocalizzazione, che costituisce una situazione positiva in tutti quei casi in cui sostituisce delle produzioni nazionali con delle produzioni straniere, mentre rappresenta un evento negativo qualora determini dei danni all’occupazione nazionale (soprattutto quella qualificata), il che avviene specialmente quando, a seguito del trasferimento di parte degli stabilimenti, si assiste ad una totale rilocalizzazione in un Paese estero della catena produttiva. Ciò avviene materialmente quando l’impresa – madre rimane in Italia solo simbolicamente con il suo marchio, ma di fatto l’intero processo produttivo è stato spostato (almeno per l’80%) all’estero.[7]
Facendo riferimento all’esperienza italiana, risulta assai difficile tracciare una netta distinzione tra delocalizzazione positiva e delocalizzazione negativa, in quanto la questione è tutt’altro che chiara e priva di problematiche. Il fenomeno in questione, infatti, oltre ad avere una valenza economica, ha delle connotazioni sociali e politiche e, pertanto, se per un verso le attività di delocalizzazione comportano un aumento della competitività di un’attività produttiva, per un altro verso determinano il rischio di far aumentare la disoccupazione nell’area di origine, soprattutto se i lavoratori fuoriusciti dalle attività produttive non vengono reimpiegati, nell’immediatezza, in altre attività presenti in loco.
Ad ogni modo deve essere rilevato che nell’ultimo periodo, la crisi ha determinato una sorta di freno ai trasferimenti delle aziende nostrane all’estero. Da una ricerca condotta nel 2011 dall’Ufficio Studi della CGIA di Mestre è emerso che il numero delle imprese italiane che hanno trasferito in Paesi esteri una parte delle proprie attività produttive supera, di poco, le 27.100 unità.
Fermo restando che è indiscusso il fatto che il fenomeno della delocalizzazione produttiva abbia, in diversa misura, interessato tutti i Paesi più industrializzati del mondo, ma è soprattutto in Italia che a causa di problematiche connesse ai costi del lavoro, la burocrazia, le inefficienze della Pubblica Amministrazione, le lacune logistico – infrastrutturali, le tasse e i costi dell’energia, molti imprenditori hanno scelto di trasferirsi in Paesi dove hanno potuto trovare una situazione più favorevole per le loro aziende.[8]
1.5. Un confronto tra imprese italiane ed europee che scelgono di de localizzare le proprie attività produttive
Sulla base degli ultimi dati statistici pervenutaci, risalenti al 2011, può pacificamente essere affermato che l’Italia, rispetto ai principali partner dell’eurozona quali Germania e Francia, presenta un notevole ritardo, sia come originatrice di investimenti economici all’estero, producendo solo il 2,4% dello stock mondiale, in confronto a quasi il 7% delle economie degli altri due Paesi europei indicati, sia come meta di destinazione, detenendo soltanto l’1,6% dello stock, a confronto del 4,7% della Francia e del 3,5% della Germania.
Tra il 2008 ed il 2011 gli investimenti diretti dell’Italia all’estero sono stati pari ad una cifra di 30 miliardi di euro; sempre facendo riferimento allo stesso periodo, gli investimenti provenienti dall’estero nel nostro Paese, sono stati pari ad una cifra di circa 10 miliardi di euro.[9]
Uno studio avente ad oggetto i fenomeni delocalizzazione relativi alle imprese tedesche, effettuato dall’Istituto di ricerca Fraunhofer , relativo al biennio 2010 – 2012, ha segnalato che solo l’8% di queste aziende hanno deciso di delocalizzare le proprie attività produttive all’estero, mentre solo il 2% ha ritrasferito le propria attività in Germania (ovvero ha posto in essere attività di reshoring).
Nonostante queste basse percentuali, occorre mettere in evidenza che sul totale dell’attività industriale tedesca il 21% della capacità produttiva è ubicato al di fuori dei confini nazionali e, nel caso di imprese di dimensione media e grande, la produzione arriva sino al 50%.
Le ricerche condotte in merito hanno segnalato che fin dal 1996, un’impresa su quattro tra quelle che avevano già scelto di avviare in un altro Paese le proprie attività produttive, ha correlativamente deciso, entro i successivi 3-5 anni, di riportare le attività in Germania. Alla base di questa scelta si ravvisano diverse ragioni quali un aumento del costo del lavoro nel Paese estero ospitante, un’errata sottostima iniziale dei costi della delocalizzazione, una bassa produttività conseguita ed una scarsa qualità raggiunta.
Le destinazioni principalmente scelte dalle imprese germaniche per delocalizzare le proprie attività sono i 12 Paesi dell’Europa Orientale che sono entrati a far parte dell’Unione Europea a partire dal 2004, seguiti dalla Cina (insieme ad altri Paesi asiatici) e dai Paesi membri dell’ Unione pre – allargamento. Le ragioni per le quali sono stati preferiti questi territori rispetto ad altri si ravvisano, in primo luogo, in una riduzione dei costi del personale, ma anche nell’apertura dei nuovi mercati e nella vicinanza a clienti considerati come molto importanti.
Per quanto invece attiene alle attività di reshoring, queste ritrovano le loro motivazioni principali in una perdita di flessibilità, in una diminuzione della qualità, nel grado di utilizzo delle capacità e nei costi di trasporto. A ogni modo, tutte quelle imprese tedesche che hanno scelto di ritrasferire nella propria patria le attività produttive, lo hanno fatto essenzialmente per motivi di flessibilità e con l’intento di conseguire più elevati standard qualitativi.[10]
[1] AA. VV., Globalizzazione, delocalizzazione produttiva delle imprese italiane e politiche di salvaguardia e valorizzazione dei diritti umani, ricerca realizzata dalla fondazione per la diffusione della responsabilità sociale delle imprese – ICSR, Milano, giugno, 2008, pp. 15 -20.
[2] C. Emanuel, Localizzazione e delocalizzazione, in http://www.treccani.it/enciclopedia, 2007.
[3] AA. VV., Globalizzazione, delocalizzazione produttiva delle imprese italiane e politiche di salvaguardia e valorizzazione dei diritti umani, ricerca realizzata dalla fondazione per la diffusione della responsabilità sociale delle imprese – ICSR, Milano, giugno, 2008, pp. 25 – 34.
[4] D. Castellani, L’internazionalizzazione della produzione in Italia:caratteristiche delle imprese ed effetti sul sistema economico, in “L’industria: rivista di economia e politica industriale”, Il Mulino, Vol. 28. 2007, 3, pp. 487 – 517.
[5] Informazioni rilevati dal sito internet www.istat.it
[6] AA. VV., Globalizzazione, delocalizzazione produttiva delle imprese italiane e politiche di salvaguardia e valorizzazione dei diritti umani, ricerca realizzata dalla fondazione per la diffusione della responsabilità sociale delle imprese – ICSR, Milano, giugno, 2008, pp. 16 – 24.
[7] M. Giusti, L’esperienza italiana di delocalizzazione produttiva all’estero tra incentivi e dissuasioni, in http://web.jus.unipi.it/documenti/pisarum_joe/appendici/giusti/Delocalizzazione.pdf
[8] AA.VV. “La crisi ha fermato la fuga delle nostre aziende”, in www.cgiamestre.com
[9] A. Borin e R. Cristadoro, Gli investimenti diretti esteri e le multinazionali, in “Questiono di Finanza , Banca d’Italia” 10/2014.
[10] AA.VV., Delocalizzazione e reshoring delle imprese tedesche, elaborazione a cura dell’Ufficio Economico dell’Ambasciata d’Italia, Berlino, 9 gennaio 2015.