cassazionistaNota a sentenza  Cons. Stato, Sez. V, 5 settembre 2011 n. 4982

A cura del dott. Mario Sessa

Gli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture rappresentano all’interno del diritto amministrativo il più noto dei procedimenti discrezionali di scelta dell’aggiudicatario di una commessa. La scelta del miglior contraente, infatti, deve soddisfare l’interesse della Pubblica Amministrazione a concedere l’incarico di eseguire un lavoro attraverso l’intermediazione di un imprenditore che ricorre alla propria organizzazione di mezzi e personale. Gli appalti pubblici hanno subìto, a partire dalla legge 109/94, un costante intervento legislativo che ne ha corretto le storture ed i difetti procedurali[1], in modo tale da compromettere la stessa fiducia della collettività nei confronti del buon andamento ed imparzialità dell’Amministrazione Statale. La cd. Merloni uno (nota come legge quadro sui lavori pubblici) costituiva fino ad un recento passato il primo intervento legislativo rivolto a disciplinare compiutamente una materia che si era sempre caratterizzata per l’enorme discrezionalità riservata alla P.A. Quest’ultima, vista l’assenza di preventive norme di legge, era solita scegliere i candidati al contratto sulla base di un procedimento privo di qualsiasi margine di determinatezza e tassatività. Se la ratio dell’affidamento negli appalti si basava sulla necessità di trovare il miglior contraente, in termini di capacità imprenditoriale ed economicità dell’affare, era davvero un fuor d’opera il riconoscimento all’Amministrazione procedente di un ampio margine di discrezionalità amministrativa nella scelta di colui che fosse più meritevole di gestire e concludere la gara esecutiva dell’appalto. Dal punto di vista genetico, la Pubblica Amministrazione poteva scegliere il tipo di procedura, aperta o ristretta, cui ricorrere in sede di affidamento. Ad essa si aggiungeva un’ampia libertà del contenuto da dare al bando o alla lettera d’invito, che costituivano il primo atto rilevante verso l’esterno in sede di procedura preliminare. Gli interventi degli anni 1990-2000 limitano qualsiasi margine di esercizio del potere discrezionale rendendo eccezionali i casi di ricorso alle procedure ristrette, prevedendo un meccanismo che sostituisce all’apertura della procedura un’adeguata pubblicità dei piani di fattibilità e dei progetti che sono posti alla base degli atti di gara. La legge Merloni ed il regolamento di esecuzione 504/99 assicurano che i contraenti invitati al contratto devono essere in numero sufficiente ad assicurare, in seguito alla lettera d’invito, una competizione ristretta dinanzi alla medesima Amministrazione. A ciò si aggiunga che le procedure ristrette erano espressione di quella riserva di potere amministrativo che era contrario ai principi costituzionali e comunitari. Questi ultimi avevano oramai generalizzato l’obbligo dell’evidenza pubblica mediante una gara che non discriminasse già a monte gli operatori del settore[2]. Ogni deroga a questo principio era eccezionale e riservata alle materie in cui potesse giustificarsi la fiduciarietà dell’incarico (difesa militare, trasporti…). La giurisprudenza ha sempre messo in risalto che alcuni settori dell’agere publicae non si possono ispirare alle logiche di mercato, in quanto non vale per essi il criterio di economicità, che vige in ogni altro settore degli appalti. In questi casi residuali vi è la necessità che l’Amministrazione affidi l’incarico all’operatore che essa ritiene più idoneo a fornire un servizio efficiente, anche se ciò si traduce in un innalzamento del prezzo del servizio. La discrezionalità è in questi casi il giusto prezzo da pagare per poter assicurare agli stessi cittadini la tutela dei loro fondamentali interessi pubblici, a nulla rilevando che il prezzo per l’affidamento del servizio non sia il più economico fra quelli disponibili. I principi dell’attività amministrativa, invece, sono oggi disciplinati dall’art. 1 l.241/90 e fra essi si annoverano i postulati dell’imparzialità, economicità ed efficienza della P.A. Ognuno di questi si pone come vincolo al libero esplicarsi del potere discrezionale[3], ma non è detto che fra di loro vi sia un’intima contraddizione. Si considerino proprio i settori “esclusi” dall’evidenza pubblica: il rispetto del principio di economicità nega quello di efficienza, che è ritenuto preminente in queste materie. A questo punto si è posto il problema di giustificare agli occhi della collettività la scelta della Amministrazione che sia derogatoria dell’evidenza pubblica. Quest’ultima costituisce di per sé un limite alla riserva amministrativa, per cui non è necessario motivare il procedimento che rispetti gli obblighi di legge. Viceversa, è necessario motivare ampiamente il provvedimento che deroghi al principio appena citato, proprio perchè l’eccezione deve potersi apprezzare all’esterno, in modo da non apparire arbitraria, insensata e priva del minimo fondamento di razionalità ed uguaglianza. Di ciò se ne trova un cenno nell’art. 3 l.241/90, in cui è stabilito che la Pubblica Amministrazione deve enucleare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che sono poste alla base delle decisioni dell’Amministrazione. I presupposti degli appalti sono costituiti dal bando, dalla scelta del tipo di procedura e dai capitolati generali e particolari che costituiscono parte integrante della lex specialis. Le ragioni di diritto, invece, sono date dal complesso delle motivazioni con cui l’Amministrazione propende per l’una procedura anziché per l’altra. L’odierna legislazione mostra sempre più la tendenza ad adeguare gli appalti pubblici agli obblighi di uguaglianza e trasparenza che emergono dalla Carta Costituzionale. La riserva di potere discrezionale viene praticamente ridotta a zero, a causa della tendenza a circoscriverne ex lege i presupposti di fatto. Se si dà per vera questa affermazione non può che concludersi a favore della trasmigrazione del vizio dell’eccesso di potere in violazione di legge. Negli appalti, infatti, il vizio di cui all’art. 26 l.tar era stato visto come il miglior modo per sindacare l’operato della Pubblica Amministrazione che fosse lesivo degli interessi dei privati. L’eccesso di potere costituiva il vizio tradizionale di uno scorretto esercizio del potere discrezionale[4]. Ciò è vero nel caso in cui l’Amministrazione pondera in malo modo i vari interessi in conflitto, ovvero nei casi in cui affida un incarico senza aver prima consultato tutti i candidati al contratto. In sostanza, non si fornisce ad essi la possibilità di replicare dinanzi ad un’offerta che viene esclusa de plano. La prassi delle Amministrazioni viene spesso inficiata dai favoritismi e dalle scelte non proprio egualitarie all’interno delle gare pubbliche. Per ovviare a ciò si è deciso di circoscrivere a monte la sfera di discrezionalità amministrativa, ancorando gli appalti alla necessaria oggettività e scelta razionale del miglior contraente. Tipica espressione di questo potere vincolato risiede nella necessità che la Pubblica amministrazione deve inserire all’interno del bando tutte le direttive che la legge impone di rispettare, come spesso accade per le clausole cd. Sociali[5], per le leggi in materia di tutela del lavoro e delle disabilità[6]. Rispetto a questi vincoli la stazione appaltante è priva di qualsiasi margine di discrezionalità in quanto si ritiene che i principi in questione sono di carattere inderogabile e non possono pertanto essere limitati o esclusi in sede di pubblicazione. La giurisprudenza ha sottolineato che gli offerenti non possono allegare alla domanda di partecipazione una proposta d’appalto che non rispetti in maniera opportuna i requisiti di ordine e sicurezza pubblica previsti dalle normative vigenti. La stazione aggiudicatrice, dal canto proprio, non può escludere un concorrente che non ha indicato in maniera precisa il suo impegno a rispettare ogni principio fissato dal bando. La riserva di potere amministrativo ben può esplicarsi in quelle procedure in cui il bando non preveda requisiti troppo stringenti per l’aggiudicatario. Allo stesso modo questi operatori devono escludere il concorrente motivando adeguatamente in punto di fatto. Ebbene, il codice del processo amministrativo, emanato con il d.lgs. 104/2010 mutua la medesima tutela giurisdizionale che già il codice DeLise aveva previsto agli art.245 ss c.c. Ciò che caratterizza la tutela giurisidizionale in materia è dato dall’enorme sindacato concesso al giudice amministrativo in sede di controllo sulla legittimità dell’attività di affidamento. Con ciò non si vuole sostenere che la legge ha introdotto un nuovo sindacato giurisdizionale esteso al merito. Questa affermazione appare francamente eccessiva, specie se si considera che la giurisdizone amministrativa è impugnatoria di mera legittimità. Una parte della dottrina sostiene che il giudice può valutare discrezionalmente se conservare la validità del contratto e della gara d’appalto, specialmente nei casi in cui si rivela inopportuno l’annullamento dell’intera procedura e del connesso contratto a valle. L’art.119-122 c.p.a. Riconosce infatti che il giudice può mantenere la validità dell’appalto condannando il responsabile della violazione ad una sanziona sostitutiva risarcitoria. Quest’ultima, infatti, non toglie l’efficacia della commessa viziata, che viene mantenuta in capo all’aggiudicatario definitivo. In verità sarebbe opportuno distinguere il tipo di vizio che affligge la gara d’appalto, posto che vi sono vizi propri della sola fase di aggiudicazione, cui non corrispondono altrettanti vizi inerenti al contratto di diritto privato. Un’analisi di questo tipo non è rinvenibile nella legislazione attuale, la quale distingue soltanto i vizi di merito riguardanti i casi più gravi, rispetto a quelli meramente esecutivi riguardanti l’attuazione dell’incarico. Nel primo caso si ha la nullità dell’intera gara, da cui consegue l’annullamento dell’incarico assegnato e la ripetizione della procedura. Nel caso di vizi meno gravi, invece, si ha una facoltà prevista per la stazione appaltante di emendare la violazione procedimentale in modo tale da mantenere ferma l’aggiudicazione definitiva. Si pensi al caso, già scandagliato dalla giurisprudenza, in cui la Pubblica Amministrazione non può escludere l’un offerente il quale non ha corredato l’offerta mediante taluni adempimenti di tipo meramente documentale. La legge non riconosce più la riserva di potere amministrativo con cui l’aggiudicataria decide discrezionalmente la sorte dell’affidamento realizzato. In sede di verifica dei requisiti, infatti, l’art.46-48 d.lgs.163/06 propende per un accertamento tecnico di carattere oggettivo entro cui l’appaltante può limitarsi a controllare se un certo requisito è presente o meno. Non si tratta di un giudizio tecnico, né tantomeno di un sindacato che sia espressione di ponderazione degli interessi. Quest’ultimo è il predicato fondamentale della discrezionalità tecnica, ed è noto in giurisprudenza come quest’ultima può essere controllata dal giudice amministrativo unicamente per mezzo di talune “spie”. A tal proposito furono elaborati i cd. Vizi sintomatici dell’eccesso di potere amministrativo, definibili come gli indicatori di un procedimento compiuto dall’Amministrazione in totale disprezzo di ragioni di logica giuridica. Si tratta di regole non scritte, di tipo intuizionale, che penetrano nella causa del potere pubblico attraverso il rinvio che ad esso viene fatto dalla norma attributiva del potere. In materia di appalti può rinvenirsi un eccesso di potere per errore di fatto, per travisamento dei fatti o per sviamento del potere o della procedura. Si pensi al caso del sub-procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta[7]: con esso l’appaltante effettua un controllo a forfàit in modo da chiedere ai vari offerenti una prova “a campione” del possesso dei requisiti dichiarati nell’offerta. In caso di esito negativo la stazione appaltante non è libera di estrometterli ante tempus dalle fasi successive all’aggiudicazione provvisoria. Essa è obbligata a chiedere ai concorrenti una giustificazione del mancato possesso dei requisiti instaurando con essi un dialogo che costituisce espressione del principio del contraddittorio[8]. Ciò detto, la prassi degli affidatari pubblici è quella di riservarsi un limitato margine di esercizio del potere discrezionale, in quanto gli appalti conservano un certo margine di indeterminabilità di cui è necessario prendere atto. A ciò, tuttavia, si affianca un criterio di cd. Autovincolo, per mezzo del quale il bando viene formulato in maniera tale da riprodurre pedissequamente il contenuto degli atti legislativi al fine di escludere qualsiasi profilo di illeggittimità. Se la Pubblica Amministrazione disconosce successivamente queste scale di priorità preventiva non può certo dirsi esistente un vizio di merito. La funzione amministrativa è già vincolata a monte, in quanto la stazione d’appalto che rinuncia al suo margine di libertà esaurisce per ciò solo il potere di cui è titolare. Ciò può essere confermato dal principio di celerità e certezza del diritto. Il primo esige che gli appalti pubblici terminano l’iter procedimentale già nelle fasi iniziali di attribuzione della commessa, in quanto si vuole evitare che sorgano ex post gli ostacoli alla celere definizione dell’opera o del servizio. Il principio di certezza, invece, impone che l’aggiudicante e “l’aggiudicato” sappiano con sicurezza l’oggetto dell’appalto e le finalità dell’affidamento. Se l’Amministrazione avesse ancora qualche residuo margine di potere discrezionale non si potrebbe raggiungere alcuna stabilità nei tempi e nei termini entro cui rendere alla collettività un servizio che si rivela spesso di fondamentale importanza per la convivenza fra i consociati.

 


[1]Fra i principali interventi normativi possono annoverarsi le leggi 333/91 e 359/92

[2]L’evidenza pubblica costituisce un principio di valore programmatico e precettivo posto altresì in altri settori dell’ordinamento, come avviene per i servizi pubblici e per i beni statali.

[3]M.S.Giannini, la discrezionalità amministrativa, Milano, 1939. Questo scritto costituisce ancor’oggi il più importante contributo fornito dall’illustre autore al diritto amministrativo, e se ne trova ampia traccia nel Manuale di diritto amministrativo, ed. interamente rivista ed aggiornata, Milano, 1999

[4]La dottrina e la giurisprudenza tradizionali sostengono che l’eccesso di potere, inteso altresì quale deviazione del potere dalla funzione tipica, rivela un conflitto di interessi statico che si viene a creare fra il funzionario pubblico e l’apparato di cui costuisce espressione.

[5]   In tal senso Carnelutti F., Sul contratto di lavoro relativo ai pubblici servizi assunti da imprese private, in Riv. dir. comm., 1909, I, 416 ss

[6]    L’art. 17 della Legge 12 marzo 1999, n. 68 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili

[7]Ampi i riferimenti giurisprudenziali sul tipo di sindacato in materia:  Consiglio di Stato Sez. III del 9.7.2014

[8]La rilevanza di questo principio è affermata in Consiglio di Stato, sez. III, 12 agosto 2013 n.9523

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