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Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli: fenomeno sociale e risvolto giuridico

A cura dell’avv. Flavia Moscioni

1)L’impatto socio culturale sotteso alla consumazione del reato di maltrattamenti in famiglia. La figura della donna. Il ruolo dei figli; 2) L’esame dei soggetti coinvolti nel reato: personalità dell’autore e personalità della vittima; 3) Il rapporto di familiarità o di dipendenza; 4) Abitualità della condotta ed uniformità del dolo; 5) Coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a sofferenze psichiche e morali continuate; 6) Consumazione, tentativo e circostanze aggravanti speciali.

1. L’impatto socio culturale sotteso alla consumazione del reato di maltrattamenti in famiglia. La figura della donna. Il ruolo dei figli.
La violenza contro le donne è una questione sociale e politica, oltre che un problema privato. Interessa tutte le donne, ma rappresenta nelle sue diverse fenomenologie, un reato contro la persona e contro la libertà individuale, basato su motivi di “genere” e sull’attuale squilibrio relazionale tra i sessi.
Circa 4 milioni di donne italiane, fra i 16 e i 70 anni, nel corso della vita ha subito violenze fisiche. Dunque, quasi il 20% di donne aventi un’età compresa nell’ampia fascia di cui sopra! Nel Lazio, in particolar modo, l’Istat registra una percentuale del 21% di donne residenti nella regione, che, almeno una volta nella vita, sia stata vittima di violenza1.
Da un’indagine effettuata dall’Assessorato alle Politiche Sociali della Regione Lazio, unitamente all’Associazione Nazionale Volontarie Telefono Rosa, emerge che il Lazio si colloca al primo posto di una drammatica classifica nazionale registrata dall’Istat, accanto all’Emilia Romagna, superando di ben 6 punti percentuali la media nazionale. La suddetta ricerca evidenzia, altresì, un dato particolarmente drammatico e che, pertanto, desta inevitabilmente un incisivo allarme sociale:la propria casa, nel 23% degli episodi, fa da scenario alle violenze psicologiche e fisiche subite dalla vittima, collocandosi, pertanto, al primo posto nella classifica degli spazi sociali nei quali le donne dichiarano di aver subito violenza.
Ma v’è di più. Il 42% di queste donne rappresenta di essere stata oggetto di maltrattamenti all’interno del rapporto matrimoniale. A ciò si aggiunga, ovviamente, che il dato va integrato con quello della percentuale del 12% di abusi agiti all’interno della convivenza.
Dunque, le donne che si sono sottoposte all’intervista, hanno, nella maggior parte dei
1 L. LAURELLI “Il fenomeno della violenza sulle donne: un approfondimento sulla situazione nel Lazio”.
casi, subito violenze fisiche soprattutto da parte del partner con il quale continuano a convivere, oppure da persone violente alle quali sono legate da un vincolo che evidentemente è particolarmente difficile da sciogliere. Va altresì considerato, infatti, un ulteriore e fondamentale dato: tra le donne che sono state vittime di maltrattamenti in famiglia il 56% ha da 1 a 3 figli conviventi. L’informazione evoca una serie di scenari tristemente noti a chi lavora alla repressione del fenomeno della violenza contro le donne: i figli che assistono ai maltrattamenti, risentono incisivamente delle conseguenze della violenza, spesso perpetrata nel tempo, al punto da rendere difficoltosa la loro educazione ed istruzione, riportando inevitabilmente conseguenze precipue sul piano dei rapporti sociali che intrattengono nel corso della vita. A ciò si aggiunga che è, altresì, molto alta la probabilità che la violenza dell’uomo si eserciti anche sui figli. Il dato Istat, relativo all’anno 2009 evidenzia, infatti, che sono 674 mila le donne italiane che hanno subito violenza ripetutamente dal partner. La maggior parte delle stesse, inoltre, ha dichiarato di avere figli nascenti dall’unione con la persona violenta al momento dei maltrattamenti. In particolar modo, il 61% delle donne ha dichiarato che i figli hanno assistito ad uno o più episodi di violenza e soltanto nel 19% dei casi le vittime hanno rappresentato la presenza meramente occasionale, dunque piuttosto rara, dei figli ai suddetti episodi.
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2. L’esame dei soggetti coinvolti nel reato: personalità dell’autore e personalità della vittima.
La ricerca de quo, inoltre, ha posto in evidenza anche elementi relativi alle personalità dei soggetti attivi del reato, nonché delle donne offese dalle condotte poste in essere dai primi nei loro confronti. Val la pena evidenziare, ad esempio, che l’esame delle caratteristiche socio demografiche degli autori della violenza evidenzia un preponderante possesso di titoli di studio medio-alti, nonché una maggiore concentrazione di soggetti violenti all’interno delle classi anagrafiche comprese tra i 35 ed i 54 anni. Accanto a questo particolare dato, è inoltre possibile osservare come specie all’interno del campione di vittime esclusivamente italiane, le violenze non restino circoscritte a contesti familiari culturalmente semplici, ma piuttosto sembrano essere agite da uomini che quotidianamente rivestono rilevanti responsabilità: impiegati, liberi professionisti, dirigenti ed alti funzionari. La violenza, pertanto, sembra travalicare titoli e contesti sociali non esentando alcun soggetto dal commettere reati.
Per ciò che attiene l’aspetto socio-culturale, va evidenziato, altresì, che la mancanza di visibilità che caratterizza la condizione cui sono sottoposte le vittime sembra essere più presente tra i casi italiani. Il 30% delle donne straniere, infatti, sostiene il rappresentarsi di atteggiamenti
violenti anche al di fuori del solo contesto familiare e, dunque, in situazioni pubbliche2.
Passando dal piano della valutazione dei comportamenti violenti a quello dell’individuazione delle cause della violenza contro le donne, le indagini, nonostante le affermazioni di cui sopra relative al contesto socio-culturale ed economico degli uomini autori della violenza, registrano ancora casi di legittimazione culturale di determinati comportamenti. Il percorso di cambiamento, iniziato da meno di mezzo secolo grazie ai movimenti delle donne, infatti non passa soltanto attraverso la diffusione di una sensibilità adeguata alla trasformazione e civilizzazione dei rapporti fra i due sessi e attraverso scelte e politiche legislative in grado di valorizzare le donne nella scena pubblica, ma si estende anche e soprattutto attraverso la promozione delle capacità e delle potenzialità delle vittime di trasformarsi in protagoniste del cambiamento, di sentirsi appunto vittime, e non colpevoli, di trovare nella loro esperienza l’espediente, pur tragico, per il contrasto della violenza contro le donne.
L’imputazione della violenza contro le donne ai problemi derivanti dalla maggiore autonomia delle donne indica, giustappunto, una consapevolezza da parte delle stesse della natura sociale e culturale del fenomeno: cosi se il 28% delle partecipanti al monitoraggio dell’Osservatorio del 2009 ritiene che le donne abbiano paura degli uomini che esercitano su di loro violenza e, per questo, restano insieme a loro, l’11% individua una causa di violenza nella paura che gli uomini hanno dell’autonomia delle donne. Tuttavia, preliminarmente, le donne adducono la reiterazione delle condotte violente integranti reato, all’influenza di fattori esogeni che alterano il comportamento come l’abuso di sostanze ed alcol e la rassegnazione verso una predisposizione dell’uomo a comportamenti violenti. Interessante, altresì, registrare l’indicazione di alcune motivazioni “sociali”: da una parte, la consapevolezza dei mezzi di informazione nella diffusione di una cultura della violenza e, dall’altra, l’idea che la responsabilità sia anche del modo in cui nella nostra società è diviso il potere tra i due sessi, con l’egemonia della mascolinità sulla scena sociale.
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3. Il rapporto di familiarità o di dipendenza.
La realizzazione delle condotte di cui sopra, concretizzatesi nel reato di cui all’art. 572 c.p., richiama non soltanto dal punto di vista sociologico, ma anche da quello afferente la sfera giuridica, la questione del rapporto di familiarità o di dipendenza che sussiste tra l’agente ed il soggetto passivo del delitto. Suddetta relazione, infatti, rappresenta il presupposto indefettibile per la sussistenza del reato e, pertanto, della punibilità delle condotte integranti lo stesso.
2 OSSERVATORIO TELEFONO ROSA, “Le voci segrete della violenza 2009. Ricerca sulla fenomenologia della violenza sommersa contro le donne italiane e straniere”.
Agli effetti del delitto de quo, deve considerarsi “famiglia” ogni contesto di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza necessità della convivenza e della coabiltazione3.
Val la pena evidenziare, infatti, che la Cassazione ha assunto l’orientamento, peraltro ormai piuttosto consolidato nel tempo, di ritenere sussistente il reato de quo anche in assenza di un rapporto di convivenza, ossia quando questa sia cessata a seguito di separazione legale o di fatto, restando integri anche in tal caso i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione. Infatti, lo stato di separazione legale, pur dispensando i coniugi dagli obblighi di convivenza e di fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di cui sopra4. Pertanto, il suddetto stato non esclude il reato di maltrattamenti in famiglia quando l’attività persecutoria si valga proprio (o comunque incida su) quei vincoli che, rimasti intatti a seguito di provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata5.
Per completezza, si ricordi inoltre che ai fini della configurabilità del reato non è necessaria l’esistenza di vincoli di parentela civili e naturali, venendosi a creare quel rapporto stabile di comunità familiare, che è poi l’oggetto della tutela garantita dalla norma, anche nei riguardi di una persona convivente more uxorio6.
Andrà, altresì, rilevato come, ai fini dell’individuazione dei soggetti coinvolti nell’integrazione della presente fattispecie, sia necessario esaminare il concetto di “rapporto di autorità” cui fa riferimento la norma in esame. Dottrina e giurisprudenza sembrano piuttosto concordi nel ritenere che presupposti del reato possano essere tutte quelle situazioni di subordinazione nascenti da un rapporto giuridicamente rilevante, nonché i rapporti meramente fattuali. Tale è, ad esempio, il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore7. Andrà, tuttavia, precisato che possono integrare il delitto di cui all’art. 572 c.p. soltanto quelle condotte poste in essere in un contesto in cui il rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente assuma natura para- familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la
3 Cass. VI, 17.10.2000, n. 920
4 Cass. IV, 01.02.99.
5 Cass. IV, 02.07.2008, n. 26751; Cass. IV, 22.12.2003, n. 49109.
6 Cass. IV, 24.02.2003, n. 8848; Cass. III, 5.12.2005, n. 44262.
7 Cass. VI, 12.03.2001, n. 10090.
situazione di supremazia8.
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4. Abitualità della condotta ed uniformità del dolo.
Il reato consiste nella sottoposizione dei familiari, o degli altri potenziali soggetti passivi del delitto, cosi come individuati sub. 3), ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, costituenti fonte di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita. In altri termini, trattasi di atti vessatori che si ripetono nel tempo, restando collegati da un nesso di abitualità e da un’unica intenzione criminosa: ledere l’integrità psicofisica o il patrimonio morale del soggetto passivo.
Gli atti in questione, peraltro, isolatamente considerati, potrebbero anche non essere punibili, in quanto atti di mera infedeltà oppure di umiliazione generica, ovvero non perseguibili, in quanto procedibili solo a querela, tuttavia, acquistano, stante la loro reiterazione nel tempo, rilevanza penale. In particolare, la Suprema Corte ha per tale ragione escluso il concorso tra i maltrattamenti in famiglia ed i delitti di percosse e minacce, anche gravi, quando tali comportamenti siano stati contestati come finalizzati al maltrattamento9.
Andrà, pertanto, rilevato che è necessario che l’autorità ponga in essere una serie di fatti ispirati e legati tra loro da un dolo uniforme. La fattispecie, infatti, si perfeziona allorché si realizzi un minimo di tali condotte collegate da un nesso di abitualità e può formare oggetto anche di continuazione, come nel caso in cui la serie reiterativa di condotte sia interrotta da una sentenza di condanna, ovvero da un notevole intervallo di tempo tra una serie di episodi e l’altra.
Sarà onere del giudice, pertanto, valutare globalmente la condotta dell’imputato alla luce dell’effettiva incidenza sul bene giuridico protetto dalla norma. Ed ancora, accertare se i singoli episodi vessatori rimangano assorbiti nel reato di maltrattamenti, oppure se integrino ipotesi criminose autonomamente volute dall’agente e quindi concorrenti con il delitto di cui art. 572 c.p.10Diversa è la situazione rispetto alle ingiurie ed alle minacce, che costituiscono elementi essenziali della violenza morale propria del delitto di maltrattamenti, con conseguente assorbimento a norma dell’art. 84 c.p., senza che ciò comporti violazione del principio di correlazione tra quanto contestato e quanto ritenuto in sentenza11.
8 Cass. VI, 26.06.2009, n. 26594.
9 Cass. VI, 05.08.2003, n. 33091
10 Cass. VI 22.10.99, n. 689
11 Cass. III 12.07.2002, n. 35173
Da ultimo, relativamente alla condotta, andrà altresì rappresentato che il reato de quo si consuma non soltanto attraverso azioni, ma anche mediante condotte omissive, giacché, in special modo in relazione ai figli minorenni, maltrattare ben può voler dire anche aggravare una condizione di abituale e persistente sofferenza, che il minore non ha alcuna possibilità né materiale, né morale di risolvere da solo, mediante costante disinteresse e rifiuto, a fronte di un evidente stato di disagio psicologico e morale del minore, oltre che in ragione della clausola generale di cui all’art. 40 cpv c.p.
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5. Coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a sofferenze fisiche e morali continuate.
L’elemento soggettivo richiesto per la configurazione dell’ipotesi delittuosa in esame è il dolo generico consistente nella coscienza e volontà di porre in essere le condotte di cui sub. 4).
In particolar modo, trattasi di un dolo unitario, nel senso che deve riguardare la condotta nel suo complesso, stante la pluralità di episodi nella quale si viene a manifestare, e non ogni singolo frammento della stessa, al punto da potersi addirittura realizzare in modo graduale. Ciò significa che non è necessario uno specifico programma criminoso rigorosamente finalizzato alla realizzazione del risultato effettivamente raggiunto, ma che la legge richiede unicamente la coscienza e volontà di commettere una serie di fatti lesivi dell’integrità fisica o della libertà o del decoro della persona offesa in modo abituale. Un intento, dunque, riferibile alla continuità nel suo complesso e perfettamente compatibile con la struttura abituale del reato, attestata ad un comportamento che solo progressivamente è in grado di realizzare il risultato. In sostanza, l’intenzione dell’agente di avvilire e sopraffare la vittima riconduce ad unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e materiale, essendo compatibile con la struttura del reato abituale la realizzabilità del momento soggettivo, travalicante le singole parti della condotta e riferito al dolo del delitto di maltrattamenti, in modo graduale, venendo esso a costituire il dato unificatore di ciascuna delle componenti oggettive12.
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6. Consumazione, tentativo e circostanze aggravanti speciali.
Poiché nel delitto in esame, in quanto reato abituale, i fatti debbono essere molteplici e
12 Cass. VI, 17.10.2000, n. 920
la reiterazione presuppone un arco di tempo che può essere più o meno lungo, ma comunque apprezzabile, la consumazione del reato si realizza con l’ultimo di questa serie di fatti.
Sebbene il tentativo sia generalmente ritenuto inammissibile con riferimento alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 572 c.p., parte della dottrina ne sostiene la configurabilità qualora siano posti in essere alcuni atti di per se insufficienti a causare la lesione del bene, ma connotati dai requisiti dell’idoneità e dell’univocità.
Il reato è aggravato, ex comma 2, se dal fatto deriva una lesione personale grave, una lesione personale gravissima, o la morte. Trattasi di delitto aggravato dall’evento.
Andrà rappresentato che la fattispecie circostanziata è ravvisabile soltanto se la lesione grave o gravissima e la morte siano conseguenza involontaria del fatto costituente tale delitto. Infatti, qualora l’agente abbia voluto anche ledere l’integrità fisica della vittima , sarà possibile configurare autonomi reati, in concorso con il delitto in oggetto. In questa ipotesi, peraltro, dovrà escludersi anche il nesso teleologico tra i reati, rappresentando il reato di omicidio o di lesioni un salto qualitativo rispetto ai comportamenti di prevaricazione e di violenza in ambito familiare, posti in essere fino a quel momento nei confronti della vittima13.
13 Cass. III 08.04.2003, n. 16578.

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