Il terrorismo mediatico
Dott. Marino D’Amore
Università di Lugano L.U.de.S
Il terrorismo moderno sfrutta a proprio vantaggio tutte le potenzialità della società dell’informazione, se ne nutre e in essa si ricontestualizza. Tutto questo lo affermava già trent’anni fa Marshall McLuhan, il profeta del villaggio globale. Egli affermava: “Senza comunicazione non vi sarebbe terrorismo. Quando McLuhan esprimeva questi suoi pensieri non esisteva ancora internet, non esisteva ancora la Cnn, la rete globale dell’informazione era in una fase embrionale rispetto a oggi. Nel mondo contemporaneo, nella “società aperta” descritta da Karl Popper, noi godiamo di una rete informativa costantemente interconnessa senza precedenti nella storia dell’umanità. E tutta la nostra esistenza è profondamente caratterizzata da un flusso informativo che annulla spazi e tempi. Tuttavia la società dell’informazione presenta un inquietante “lato oscuro” che coincide con i rischi di un tale potere mediatico a disposizione di tutti e con la tendenziale debolezza delle nostre organizzazioni sociali e di sicurezza rispetto all’uso sempre più sapiente che i terroristi contemporanei sanno fare della rete informativa che avvolge il mondo .
Trent’anni fa negli Stati Uniti ci si domandava se i media dovessero o meno fornire una copertura dettagliata degli atti del terrorismo: il 93 % dei capi delle polizie locali era convinto che il terrorismo traesse incoraggiamento dalla trasmissione in diretta tv delle sue gesta e dei tremendi risultati del suo operato, accompagnato dalla relativa impreparazione professionale di molti giornalisti televisivi nei confronti di un fenomeno invisibile ma terribilmente letale .
Questo spiega con sufficiente chiarezza un dato che oggi ci è familiare, ma che forse negli anni Settanta non lo era ancora abbastanza: la crescente “spettacolarizzazione” del terrorismo. Spettacolarizzazione con riferimento alle sue dinamiche, alle sue tecniche e ai suoi obiettivi. Progressivamente il terrorismo diventa, nel tempo, una sorta di format televisivo a disposizione di pubblici sempre più numericamente consistenti.
In merito abbiamo tre esempi rappresentativi e chiarificatori: l’11 settembre 2001, il giorno in cui si consumò quello che è stato definito “l’evento assoluto”, l’11 marzo 2004 a Madrid e il 7 luglio londinese nel 2005. Queste tre date hanno evidenziato come i mass media siano diventati parte integrante e fondamentale del terrorismo moderno.
per quello che ci fanno vedere ma anche e soprattutto per quello che ci lasciano immaginare e temere.
L’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono è stato il più grave attentato terroristico della storia, quanto a numero di morti, tuttavia le conseguenze politiche e sociali innescate sono immensamente più vaste, drammatiche e durevoli. Tutto questo è dovuto alla conduzione registica e alla spettacolarizzazione del gesto terroristico, secondo tempi e gestione dettagliata dello spazio che hanno molto a che fare con l’entertainment, turpe, sanguinoso, inumano ma comunque intrattenimento. Secondo Umberto Eco, sin dalla nascita dei grandi circuiti dell’informazione, gesto simbolico e trasmissione delle notizie sono diventati fratelli gemelli: l’industria delle notizie ha bisogno di gesti eccezionali per da loro visibilità e ricevere in cambio consenso di pubblico, mentre i produttori di “contents terroristici” hanno bisogno dell’industria della notizia, che dà senso alla e la medesima visibilità alla loro azione e alla loro causa”.
L’altro aspetto connesso alla relazione dialogica comunicazione-terrorismo è dato dalla tendenza manipolativa di questa stessa relazione. Popper, e in Italia Giovanni Sartori, hanno messo in guardia sulla funzione negativa della televisione, in particolare sul rischio che la tv offra un ‘immagine mistificata e faziosa degli eventi. A questo proposito appare esemplificativo il caso della rivoluzione rumena che rovesciò Ceausescu, una rivoluzione che, nella sostanza, non si svolse mai, ma fu solo un’abile orchestrazione, una fiction da dare in pasto al popolo attraverso gli schermi televisivi, produttori di una realtà alternativa manipolata.
Il terrorismo va al di là dell’uso manipolativo della tv, lo amplifica secondo dinamiche iperboliche e ridondanti. Un attentato, grazie ai mass media, diventa una guerra mondiale, che si consuma in quell’atto; anzi diventa una vittoria schiacciante ripresa dalle telecamere e riportata dai titoli dei giornali: attacco all’America, atto di forza, attacco alla Spagna; in questo modo la comunicazione giornalistico-televisiva e oggi internettiana trasforma un attentato terroristico in quello che viene poi definito l’evento assoluto, esacerbandone la tragicità. Tale visibilità è l’enzima catalizzatore che permette la nascita e la percezione di quella sorta di onnipotenza invisibile di cui godono i terroristi. Non importa quanto sforzo economico, quante risorse umane e logistiche richieda un atto del genere, i media daranno comunque visibilità al suo sviluppo e al suo climax di morte distruzione. L’11 settembre ha mostrato come l’addestramento, il livello tecnologico e i mezzi finanziari impiegati furono ingenti, lo stesso non si può dire per gli attentati di Londra, portati a termine con poco denaro e una scarsa, se non assente, tecnologia. L’effetto naturalmente non è paragonabile al primo in termini di vittime, eppure ai fini dell’ indotto sociale, dell’esaltazione mediatica, delle conseguenze sull’opinione pubblica in chiave di percezione della sicurezza e di panico, non sono poi così dissimili. .
Inoltre da qualche tempo il terrorismo utilizza consapevolmente e con estrema maestria la Rete e le nuove tecnologie ad essa connesse per pianificare nuove minacce e riorganizzare le loro reti operative, in forme, modalità e tempi ancora meno prevedibili, come preconizzava McLuhan. In un intervento sul quotidiano inglese Daily Telegraph, uno dei capi dell’antiterrorismo statunitense, Henry Crumpton, ha detto: “E’ solo questione di tempo, ma un attacco di un gruppo terroristico con armi batteriologiche contro obiettivi occidentali è inevitabile. Un attacco con agenti batteriologici costituirebbe una minaccia ben maggiore di un attacco nucleare”.
Il terrorismo non invecchia, anzi muta e si evolve. E’ proteiforme, portatore, in ogni epoca, di ideologia fanatiche e irrazionali, intriso di violenza e volontà distruttiva. Perciò non si può paragonare il terrorismo del nostro secolo con quello di qualche decennio fa o con quello dell’Ottocento, relativamente allo stretto e bidirezionale rapporto con i media.
Negli anni Settanta il terrorismo come ora lo conosciamo si stava appena affacciando sulla scena del mondo. Vi sono analogie ma anche molte differenze fra quel terrorismo e l’attuale, sempre in rapporto all’influenza del contesto massmediologico.
Le Brigate Rosse, ad esempio, appaiono in questo senso come un fenomeno ibrido, sospeso tra l’antico e il moderno. In loro sembra prevalere un obiettivo politico che non è il dominio dell’informazione (o lo è solo in via strumentale): la priorità è ottenere il riconoscimento e la legittimità da parte dello Stato, attraverso la dimostrazione di una grande potenza militare, come la la Raf in Germania. Anche lì prevale la volontà di mostrarsi come un interlocutore credibile dello Stato, in nome di un ideologia di classe portata all’estremo. Gli aspetti legati all’informazione sono meno curati, ma cominciano a esistere e a palesare tutta la loro, incontrovertibile importanza, con connotazioni e conseguenze diverse però. Il giornalista è visto come un nemico, piuttosto che come un utile benché inconsapevole strumento. L’omicidio di Tobagi e Casalegno, il ferimento di Montanelli e di tanti altri giornalisti, testimonia un palese tentativo di prevaricazione e intimidazione, condotto in forme spietate. Le redazioni sono viste come avamposto della Stato, dato che negli anni Settanta non esiste il giornalismo televisivo, nella forma che conosciamo oggi.
Ecco quindi che gli obiettivi diventano i rappresentanti della carta stampata, voce e inchiostro delle istituzioni. Siamo ben lontani dal terrore di massa di New York e Madrid o dalle minacce di attentati batteriologici sopracitati. Se le Brigate Rosse cercavano il riconoscimento dello Stato come interlocutore politico, gli attentatori dell’11 settembre avevano altri obiettivi: la destabilizzazione dei governi arabi moderati, la demonizzazione dell’Occidente, il terrore imprevedibile e indistinto sparso nelle società democratiche.
In questo si sostanzia la differenza tra vecchio terrorismo, ancora legato a tipologie e modalità d’azione contestualizzate in un ambito politico di stampo ottocentesco, e nuovo terrorismo massmediologico dell’era internettiana.
Il precursore del moderno terrorista mediatico è il venezuelano Carlos lo sciacallo. Le sue azioni sono studiate e concepite da una mente registica e finalizzata all’effetto spettacolare come testimonia l’assalto alla riunione dei ministri dell’Opec a Vienna nel 1975. Per la prima volta nella storia l’uso consapevole dei media, in particolar modo delle televisioni, diventa parte integrante, anzi strutturale, dell’attentato. Carlos è inoltre, in questo senso, il progenitore mediatico di Bin Laden per la cura maniacale dell’immagine, per l’attenzione ai dettagli, per la ferma volontà di creare un personaggio, il terrorista, intorno al quale il fatto terroristico in sé ha una funzione meramente contingente, un personaggio che vive una sua vita prima e dopo l’attentato e che catalizza la curiosità e l’attenzione del mondo dell’informazione, un antidivo che diventa divo a tutti gli effetti.
I messaggi di Bin Laden sono l’espressione più completa di questa tendenza. In essi è rintracciabile una cifra stilistica ben definita, finalizzata ad una funzione icastico-televisiva che diventa fondamentale in ogni suo aspetto: Il libro, l’orologio, il fucile, il mantello. Il senso di onnipotenza del terrorista non è più dato solo dall’attentato, ma si prolunga nel tempo grazie alla creazione di una figura imprendibile e imprevedibile: quella del capo che vive nell’ombra, ma che è sempre pronto a offrire se stesso alle luci della ribalta e dei riflettori. E che cosa se non la televisione genera questo risultato?. Questa è una distinzione fondamentale: quando parliamo dello stretto legame fra informazione e terrorismo, dobbiamo precisare che quel legame diventa fattuale e ha un senso solo se lo riferiamo alla televisione. E’ l’informazione televisiva a risultare incontrovertibilmente alleata della strategia propagandistica dei terroristi, mentre la stampa segue un’altra logica ed è meno interessante agli occhi degli attentatori.
Non c’è dubbio che questo straordinario salto di qualità del terrorismo ha posto l’informazione di fronte a problemi nuovi. L’11 settembre e gli attentati successivi hanno posto l’esigenza improrogabile di ripensare il mestiere di giornalista in tempi di terrorismo globale . La stampa è stata presa in contropiede e ha iniziato a riflettere sul proprio ruolo.
Un’altra riflessione fondamentale riguarda il modo di fornire una corretta informazione prescindendo da un ambito meramente emozionale; questione che investe direttamente la relazione che esiste fra la necessità di non limitare la libertà di stampa e il dovere di non agevolare o farsi manipolare, in modo ovviamente inconsapevole, i disegni e le finalità del terrorismo.
L’enfasi e la retorica sono senz’altro i nemici più subdoli e potenti di una corretta informazione. Il terrorismo punta a diffondere la psicosi, il panico di massa, come un’onda d’urto che si allarga dal nucleo iniziale dell’attentato avvolgendo interi popoli. Un giornalismo maturo, allenato a essere tale anche nell’era del terrorismo evita di alimentare la psicosi, non certamente elidendo le informazioni; in ma cercando quelle corrette.
In altre parole, il buon giornalista dimostra la propria professionalità abbandonando l’emozionalità a vantaggio di un’obiettività asettica ma esaustiva. Questo non accade sempre. Un esempio. Negli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, si diffuse la paura dell’antrace. Si temevano attacchi ovunque a base di antrace e se ne attribuiva la responsabilità ai terroristi islamici. In questo caso il sistema dell’informazione americano non seppe mostrarsi all’altezza, infatti favorì in generale questa interpretazione, quando invece sarebbe bastato consultare gli archivi dell’Fbi per scoprire che gli attacchi a base di antrace erano una costante nella seconda metà degli anni Novanta e nascevano da organizzazioni o gruppi estremisti di tutt’altra natura, interni alla società americana e in alcuni casi autoctoni. Un grave errore da parte della stampa, che non seppe indagare oltre la cortina dell’ovvio, un errore unito alla responsabilità non meno grande dei poteri pubblici, che se ne lavarono le mani fino a quando l’antrace non divenne una notizia obsoleta, una volta cominciate le operazioni militari in Afghanistan.
Ma c’è un altro esempio, che ci riguarda da vicino ed è forse più calzante. Riguarda la tendenza dell’informazione ad esasperare i toni, a enfatizzare, anche quando non ve ne fosse la necessità. Per molto tempo si è palesata la tendenza ad accentuare la realtà del fondamentalismo all’interno del mondo islamico. E’ lapalissiano che il fondamentalismo esista da molto tempo ed è la prima causa del terrorismo, ma diffondere l’idea che l’universo musulmano sia un monolite condizionato di fatto, in tutto e per tutto, dagli estremisti e dagli integralisti non ne aiuta la lotta in nessun modo anzi ne esacerba le potenzialità e la forza, invece dovrebbe essere interesse della stampa, favorire in ogni modo le distinzioni del caso e un analisi il più possibile critica e consapevole del fenomeno.
Proprio su questo terreno si assiste troppo spesso a un errore di prospettiva in base a cui ai fondamentalisti viene attribuito uno spazio maggiore di quanto non godano in realtà nel mondo arabo; mentre all’opposto i moderati, coloro che faticosamente lavorano per democratizzare i paesi islamici, coloro che hanno più bisogno di sostegno per far sentire la propria voce, vengono penalizzati, appaiono più ghettizzati, emarginati di quanto non siano nelle dinamiche dell’universo islamico. E’ un errore gravissimo. Secondo dinamiche meccanicistiche i fondamentalisti alimentano il terrorismo e quest’ultimo trasmette la falsa idea che il mondo islamico sia composto solo da integralisti.
Questa decodifica aberrante , questa distorsione è, anche in questo caso, un prodotto della spinta emozionale che guida l’informazione. Si perde la capacità di porsi domande, di investigare. Ci si consegna alla manipolazione del terrorismo quasi in maniera inavvertita e incondizionata, esaltando il ruolo dei fondamentalisti proprio come volevano Bin Laden e i suoi seguaci. Esistono anche casi, sporadici, in cui questo schema logico viene rovesciato, in cui si usano le immagini prodotte dal terrore per scuotere le coscienze e produrre un sussulto che non è paura, ma il suo esatto opposto ossia volontà di reazione. È ciò che ha fatto in Italia a suo tempo Il Foglio, pubblicando le foto della decapitazione degli ostaggi in Iraq con l’obiettivo dichiarato di risvegliare l’opinione pubblica. Il quotidiano ebbe la possibilità di farlo proprio perché si trattava della provocazione di un piccolo giornale che si rivolgeva a un pubblico particolare e selezionato. I grandi network scelsero, giustamente, di non trasmettere quelle stesse immagini nella convinzione che sul grande pubblico, raggiunto in modo indiscriminato e totale, la loro vista avrebbe avuto effetti negativi e controproducenti, sia da un punto di vista funzionale che semplicemente morale.
Le voci che, negli ultimi anni, hanno saputo “stare ai fatti” non sono numerose, sono anzi una discreta minoranza. Ma è grazie a queste voci che il giornalismo tout court. E quindi anche quello italiano, non è rimasto prigioniero delle fanatiche logiche terroristiche e invece, dopo qualche sbandamento, ha saputo riprendere la strada della verità.
Questa sorta di gestione della notizia non si caratterizza nel nascondere i fatti, nell’ ignorare le notizie, in alcuni casi i direttori dei grandi giornali possono concordare con i rappresentanti delle istituzioni la non pubblicazione di fatti, eventi, vicende che potrebbero, concretamente o in potenza, aiutare il terrorismo. Ciò che si chiede alla stampa è di fare sempre meglio il proprio lavoro, di cercare la verità con maggiore impegno, una verità oggettiva che non scenda a patti con logiche emozionali o di potere . Uno dei compiti dell’informazione è spiegare ai suoi fruitori, ad esempio, che l’Islam non è solo integralismo e che esiste un forte elemento umano moderato su cui far leva per migliorare le condizioni della convivenza e il rispetto dell’Altro generalmente inteso: una missione in cui è rintracciabile una cifra identitariamente giornalistica, nella migliore accezione del termine. I giornali, non bisogna dimenticarlo, hanno da sempre un ruolo pedagogico, formativo, di educazione civica del lettore. Un ruolo che talvolta negli anni recenti è andato smarrito. Quindi l’informazione è pedagogia civile. Un nesso inscindibile, ma anche uno scudo prezioso per evitare, per quanto è possibile, che il giornalismo televisivo, ma anche quello cartaceo, possano diventare burattini guidati dal terrorismo. Esiste anche, in taluni casi, il rischio della pigrizia, il rischio di una visione passiva del ruolo del giornalista che invece è attivo, indagatorio, a volte c’è anche l’incapacità di cogliere tutti i pericoli che derivano da questa passività.
È quindi mendace la riflessione secondo cui il giornalista debba o no accettare, in nome dell’interesse nazionale, di omettere alcune notizie, perché prima di questo stadio ne esiste un altro, che riguarda il modo più generale in cui la stampa “racconta” il terrorismo. E qui siamo ancora per molti aspetti all’anno zero.
L’Inghilterra, patria della libertà di stampa, ci ha dato sotto questo profilo una lezione importante. Negli attentati del luglio 2005 ha colpito tutti il tono e le modalità con cui sono state trattate le informazioni che li riguardavano, elidendo qualsiasi forma di enfasi a vantaggio di una grande e unanimemente riconosciuta sobrietà; senza omettere nulla, ma soprattutto senza cadere nell’esaltazione retorico-emozionale, per quanto inconsapevole, degli effetti dell’attentato. Addirittura l’esatto numero di morti, più di cinquanta, lo si è saputo solo molti giorni dopo l’attentato, quando era suffragato da prove inconfutabili, in modo graduale e abbandonando qualsiasi forma di sensazionalismo gratuito che, tra l’altro, ha impedito che si spargesse il panico nelle prime ore successive al tragico evento. La stampa in quel caso ha svolto la sua parte egregiamente. Non ha nascosto nulla, ma ha evitato di essere una pericolosa e connivente cassa di risonanza per l’attentato. Anche l’uso delle immagini televisive è stato di rara sobrietà. Questa vicenda ci dimostra che svolgere bene la funzione di giornalista è possibile, senza agevolare, per quanto in buona fede, gli scopi e le velleità sanguinarie dei terroristi.
E’ una questione di responsabilità e buon senso giornalistico. Il primo nemico da combattere è la passività di fronte ai fatti e alle notizie, in particolare a quelle clamorose come può essere un attentato devastante, e porre in essere un giornalismo obiettivo, critico e consapevole, evitando metonimie sociali ossia considerando i fondamentalisti come se fossero rappresentativi dell’intero mondo islamico .
Il “lato oscuro” dell’informazione: l’uso che di essa fanno, con grande padronanza del mezzo, i terroristi, non vanifica tuttavia l’utilità che Internet può avere in altri ambiti: la Rete offre straordinarie opportunità anche a chi combatte il terrore. Probabilmente oggi un altro attentato come quello dell’11 settembre sarebbe impensabile. In questi quattro anni l’intelligence internazionale, la prevenzione, e il coordinamento operativo tra le nazioni hanno fatto enormi, evidenti progressi. Internet, la rete costantemente interconnessa che annulla spazi e tempi rappresenta un strumento fondamentale in mano ai terroristi per dare visibilità alle loro gesta di morte, ma essa, al tempo stesso, costituisce anche la più efficace arma preventiva contro il terrorismo stesso.
In questo senso lo scambio di informazioni offre opportunità crescenti, mitigando, o addirittura annullando, barriere politiche, distanze fisiche, amministrative e psicologiche tra gli Stati. Insomma il terrorismo non esisterebbe, almeno in queste forme, senza informazione, ma può essere debellato anche grazie a essa. Ciò potrà accadere quando la comunicazione svestirà i panni dello strillone da strada per dare visibilità gratuita, retorica ed emotiva al fenomeno terroristico e quando finalmente tratterà l’argomento con professionalità responsabile, didascalica e descrittiva come esprimendo tutte le proprie potenzialità democratiche e democratizzanti contro il nemico comune.
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