Alcune riflessioni sul diritto al rifiuto informato delle cure

a cura dell’avv. Domenico Di Leo – RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Ormai da tempo, si afferma che il diritto di ciascun cittadino alla salute, presidiato a livello costituzionale dall’art. 32 Cost., è garantito in concreto se è rispettato il correlativo diritto di ciascuno alla libera autodeterminazione in ordine al trattamento sanitario, eccezion fatta per quei trattamenti obbligatori, disciplinati secondo limiti ben circoscritti.

Il riconoscimento del diritto ad autodeterminarsi in ordine al trattamento sanitario sarebbe parziale se non fosse ammessa lo speculare diritto in capo al soggetto di rifiutare il trattamento sanitario o di interrompere un trattamento sanitario già in atto. Il presupposto del rifiuto o dell’interruzione del trattamento sanitario poggia sulla possibilità di revocare in ogni momento del consenso prestato, in base al combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32 Cost.

Il rifiuto opposto ad un trattamento sanitario da iniziare o già in atto deve presentare gli stessi requisiti postulati per il consenso richiesto al soggetto prima di sottoporsi ad un trattamento sanitario. Con questo, si vuole sottolineare che il rifiuto di un trattamento sanitario deve essere frutto di una scelta libera ed effettiva del paziente: come il consenso, il rifiuto deve essere:

–                      personale: il consenso deve essere espresso dal titolare del diritto alla salute o da colui che intende sottoporsi al trattamento sanitario, eccettuati i casi di incapacità previsti dal legislatore, ricorrendo i quali è possibile che il consenso venga prestato dal rappresentante legale;

–                      libero: il consenso deve essere il risultato della libera autodeterminazione del paziente e deve essere immune dai vizi rilevanti secondo la disciplina civilistica sulla volontà;

–                      attuale: il rifiuto deve essere concomitante al trattamento sanitario o ad esso preventivo;

–                      concreto: il rifiuto non deve essere meramente ipotetico ma deve essere espresso in relazione ad uno specifico trattamento incipiente o in fieri;

–                      informato: per essere validamente espresso, il paziente deve ricevere un’informazione adeguata in ordine agli effetti che possono derivare dal rifiuto o dall’interruzione di un trattamento sanitario; perché sia informato, il medico deve presentare al paziente la reale situazione clinica, vera ed attuale, con l’indicazione delle eventuali criticità del caso concreto;

–                      revocabile: per quanto possa sembrare remoto, sicuramente è ammissibile che il paziente abbia il diritto di revocare il proprio dissenso manifestato in un primo momento, onde poter accedere alle cure, inizialmente rifiutate. La conclusione non potrebbe essere diversa, trattandosi di un atto personalissimo.

Alla luce della breve premessa che precede, si può affermare che nel panorama italiano non esiste alcuna norma positiva da cui poter prendere le mosse per esaminare il problematico rapporto fra medico e paziente, soprattutto sul tema del consenso/rifiuto alle cure: purtuttavia, in via interpretativa, è possibile ricavare alcune utili indicazioni in merito, compendiate dall’affermazione che il diritto di rifiutare o interrompere un trattamento sanitario è assoluto e non soffre eccezioni, neppure di fronte ad un grave pericolo per la vita.

Il diritto al rifiuto del trattamento sanitario può essere, dunque, esteso ai trattamenti di sostegno vitale, intendendosi tali quei trattamenti la cui mancata somministrazione determina un pericolo grave ed immediato per la vita del paziente. Nel caso in cui il paziente abbia manifestato un rifiuto simile, il medico ha l’obbligo di astenersi da ogni tipo di intervento, essendo considerata la condotta di questi lecita perché doverosa, sempre che la manifestazione del rifiuto sia stata inequivoca, attuale e concreta. Dal combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32 Cost., ognuno è libero di non sottoporsi ad un trattamento sanitario, salvi i casi in cui esso sia obbligatorio; correlativamente, non esiste il dovere di curarsi, anche se c’è grave pericolo per la vita[1].

L’evoluzione giurisprudenziale è figlia del proprio tempo: essa tiene in considerazione l’evoluzione del contesto giuridico e storico che pone un nuovo concetto multidimensionale di salute, concetto che deriva dall’idea personalissima di dignità umana che ciascun cittadino possiede. E nella formazione di una simile idea contribuisce la visione che ciascuno ha dell’esistenza, della religione, dell’etica e così via sino a ricomprendere gli aspetti filosofici ed esistenziali, tutti e ciascuno meritevoli di rispetto e di attenzione da parte di tutti i consociati, legislatore compreso.

Per contrastare tali assunti, sovente si fa riferimento alle norme positive dell’ordinamento giuridico[2] onde opporre un valido argomento giuridico che sancisca l’inviolabilità della vita umana, nelle due forme dell’indisponibilità e della prevalenza della stessa. In realtà, l’argomento è destinato a soccombere ove si consideri il triplice addentellato costituzionale su cui poggia la tesi del diniego dei consenso e la valenza precettiva degli artt. 2, 13 e 32 Cost: non solo, ma il diritto che da essi promana è di immediata e concreta applicazione, senza la necessaria mediazione di norme di legge.

Se quanto sinora affermato è giuridicamente vero, è possibile declinare il diritto al rifiuto del trattamento sanitario in modo duplice. Da un lato, esso è configurabile quale diritto assoluto in capo al paziente di rifiutare le cure, attraverso un rifiuto qualificato come supra; dall’altro lato, esso rappresenta un limite non superabile per poter ritenere lecita la condotta del medico. Come è chiaro, il rifiuto libero, informato, autentico ed attuale, non potrà essere validamente superato facendo valere i principi solidaristici immanenti al sistema repubblicano né invocando il dovere di curarsi, proponendolo quale principio generale di ordine pubblico, né, ancora, facendo valere la scriminante – a favore del medico che viola la scelta di non curarsi del paziente – dello stato di necessità. In queste ipotesi e in quelle situazioni che possono verificarsi nella vita di tutti i giorni, il mancato rispetto del rifiuto validamente espresso di ogni cura e trattamento costituisce violazione di un diritto tutelato dalla Carta costituzionale. In altre parole, la manifestazione di una volontà contraria a curarsi implica un obbligo di astensione in capo al medico.

Due precisazioni sono necessarie. La prima riguarda la non operatività del co. 2 dell’art. 40 c.p. nei confronti del medico: questi non omette, o meglio, non cagiona alcunchè attraverso il mancato impedimento dell’evento che si ha l’obbligo di impedire perché il rifiuto delle cure validamente espresso dal paziente fa venir meno la posizione di garanzia connessa alla figura medica e, quindi, il correlato obbligo giuridico di attivarsi per scongiurare un evento.

L’altra precisazione riguarda il fatto che l’astensione del medico è lecita e doverosa, altrimenti la condotta attiva del medico che si ponga in contrasto con la scelta del paziente integrerebbe violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente, configurando quantomeno il delitto di violenza privata[3].

La differenza tra il rifiuto del trattamento sanitario e l’eutanasia si coglie nel fatto che questa si pone come un complesso di pratiche volto ad accelerare il naturale decorso biologico di una persona che, affetta da sofferenze insopportabili e in assenza di una prospettiva di guarigione, chieda ed ottenga la somministrazione di un farmaco capace di indurre la morte del paziente (cfr. Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2006, n. 21748). Invece, il rifiuto del trattamento sanitario non si pone come causa della morte, provocandola in modo diretto, ma esprime la scelta del paziente di consentire che la malattia segua il suo naturale decorso.

Il rifiuto del trattamento sanitario si distingue dal c.d. accanimento terapeutico, anche se la mancanza di una definizione, tanto giuridica quanto medica, rende questo concetto fluido e incerto nell’applicazione concreta. Su questo argomento, vale la pena di indugiare un poco.

Dal punto di vista giuridico, vale la pena riportare le conclusioni contenute nella pronuncia emessa dalla sez. I del Tribunale di Roma, in data 16 dicembre 2006. Quell’ufficio giudiziario fu sollecitato onde ottenere un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. che autorizzasse l’interruzione dell’alimentazione forzata da cui sarebbe derivata la morte nel volgere di poco tempo. Nella pronuncia si legge che ‘in assenza della previsione normativa degli elementi concreti, di natura fattuale e scientifica ,di una delimitazione giuridica di ciò che va considerato accanimento terapeutico, va esclusa la sussistenza di una forma di tutela tipica dell’azione da far valere nel giudizio di merito, e di conseguenza ciò comporta l’inammissibilità dell’azione cautelare, attesala sua finalità strumentale e anticipatoria degli effetti del futuro giudizio di merito. Infatti, solo la determinazione politica e legislativa, facendosi carico d’interpretare l’accresciuta sensibilità sociale e culturale verso le problematiche relative alla cura dei malati terminali, di dare risposte alla solitudine e alla disperazione dei malati di fronte alle richieste disattese, ai disagi degli operatori sanitari e alle istanze di fare chiarezza nel definire concetti e comportamenti, può colmare il vuoto di disciplina, anche sulla base di solidi e condivisi presupposti scientifici che consentano di prevenire abusi e discriminazioni’[4].

Dal punto di vista medico, non può tacersi la relazione evidenziata dal codice di deontologia medica fra l’appropriatezza dei trattamenti sanitari e la tutela della qualità della vita e della dignità della persona umana, in quanto possibile. Il codice di deontologia medica indica expressis verbis di evitare ogni forma di accanimento terapeutico. In sostanza, il medico è invitato a fare un giudizio di bilanciamento fra i vantaggi e gli svantaggi relativi alla terapia de qua, alla luce della volontà validamente espressa dal paziente, della quale il medico è obbligato a tenerne conto. Dal combinato disposto degli artt. 16, 35 e 39 del codice di deontologia medica, emerge che, in caso di malattia di esito infausto o nel caso di malati terminali,  il medico deve adottare comportamenti atti a evitare inutili sofferenze fisiche e psichiche al paziente. Di non facile apprezzamento è l’appropriatezza degli interventi da attuare. Un primo criterio da utilizzare è di tipo oggettivo: l’intervento terapeutico deve essere effettivamente utile e proporzionato rispetto ai benefici che da esso si attendono. Dal punto di vista soggettivo, il medico deve tener conto della volontà del paziente, se validamente espressa.

Chiedendo venia al lettore per la trattazione en passant di molteplici sfaccettature di un tema complesso che meriterebbe un’analisi specifica per ciascuna di esse, occorre tener conto di un argomento che, periodicamente, è sulla scena del dibattito politico ma mai affrontato funditus: si tratta del c.d. testamento biologico il quale, in base alla definizione datane dal Comitato nazionale per la Bioetica, ‘è un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidera o non desidera essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato’. Si tratta dell’affermazione del principio della volontà del paziente nell’ambito sanitario e della valorizzazione di esso nell’ambito del rapporto medico – paziente, soprattutto quando questi è privato della propria autonomia decisionale per l’insorgere di uno stato di incapacità.

Inutile dire che sull’argomento manca una disciplina positiva: perciò le brevi riflessioni che seguono vengono offerte secondo una prospettiva de iure condendo, alla luce del ddl approvato dalla Camera dei Deputati in data 12 luglio 2011.

In data 28 marzo 2001, con la legge n. 145, l’Italia ha ratificato la Convenzione di Oviedo del 1997 la quale afferma, fra i suoi principi, che devono essere tenute in considerazione le volontà espresse in precedenza dal paziente, in ordine ad un trattamento sanitario, che al momento dell’effettiva esecuzione di quel trattamento, non è più in grado di manifestare la sua volontà. Questo assunto lo si ritrova anche nell’art. 35 del codice di deontologia medica, laddove si chiede al medico di tenere in considerazione la volontà di curarsi del paziente e se questi non è più in grado di esprimere la propria volontà, il medico non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dal paziente medesimo. La normativa internazionale tace su quello che può essere espresso in ordine alle indicazioni operative sul c.d. ‘fine vita’, né dice nulla circa il valore da attribuire alle dichiarazioni precedentemente rese, se cioè queste sono vincolanti o meramente operative.

È questo, accanto all’intrinseca astrattezza, uno dei principali caratteri controversi delle direttive anticipate. Quanto al primo carattere, si osserva che le dichiarazioni sono necessariamente astratte e generiche a causa della distanza, temporale ed emotiva, tra il momento in cui le stesse vengono rese e quello in cui la volontà espressa dovrebbe trovare attuazione, senza tener conto dell’evoluzione medico – scientifica che potrebbe indurre il soggetto a ripensare criticamente le affermazioni rese tempo prima. Circa il valore da attribuire alle direttive anticipate, il citato Comitato nazionale di Bioetica adotta una soluzione mediana fra l’assoluta vincolatività e la mera indicatività delle direttive medesime. Secondo il punto di vista del Comitato, ‘la persona chiede che i suoi desideri siano rispettati, ma chiede che lo siano a condizione che mantengano la loro attualità e cioè solo nel caso che ricorrano le condizioni da lui stesso indicate: si può ragionevolmente presumere che nessun paziente intenda incoraggiare attitudini di abbandono terapeutico, privandosi così della possibilità di godere dei benefici dei trattamenti che eventualmente si rendessero disponibili quando egli non fosse più in grado di manifestare la propria volontà’. Il citato ddl tende ad attribuire alle direttive anticipate un mero valore orientativo: questo consentirà al medico di superare la volontà espressa dal paziente se il medico ‘attraverso la valutazione delle indicazioni espresse in scienza e coscienza, sentito il fiduciario e secondo i principi di precauzione, proporzionalità e prudenza, e nel caso in cui la dichiarazione anticipata di trattamento non sia più corrispondente agli sviluppi delle conoscenze tecnico – scientifiche e terapeutiche, disattenderle, motivando tale decisione nella cartella clinica’(art. 7, ddl cit.). A frustrare ulteriormente la scelta eventualmente effettuata dal paziente, interviene la lettera dell’art. 6 del citato ddl, ove è previsto che, in caso di urgenza, quando il soggetto versi in pericolo di vita immediato, la dichiarazione di anticipata di trattamento non si applica: non sarebbe forse quello il caso in cui tenere in maggior considerazione la dichiarazione anticipata? Soltanto in prospettiva de iure condendo si potrà comprendere quale valore verrà attribuito alla volontà del soggetto, anche se al momento pare preferibile la soluzione offerta dalla Convenzione di Oviedo del 1997.

BIBLIOGRAFIA

Oltre le fonti citate nel testo, nella redazione del presente lavoro ampi sono stati i riferimenti a:

a cura di Gribaudi M. N., Consenso e dissenso informati nella prestazione medica, collana Officine del Diritto/Responsabilità civile, Giuffrè, 2012.



[1] Cfr., Cass. sez. III, 15 settembre 2008, n. 23676, in La responsabilità civile, n. 11/2008.

[2] Si vedano gli artt. 5 c.c.; 575, 576, 577, 579, 580 c.p.

[3] Cass. pen., S.U., 18 dicembre 2008, n. 2437. In questa pronuncia, la S.C., intervenendo sul tema del consenso informato e della conseguente illegittimità dell’intervento eseguito in dispregio del rifiuto del paziente, ha ritenuto questo intervento essere una coazione dell’altrui volontà, rilevante ai fini della fattispecie di violenza privata di cui all’art. 610 c.p. Il trattamento medico eseguito in presenza di un dissenso validamente espresso dal paziente è ascrivibile all’art. 610 c.p. sia sotto il profilo della coazione – verificata fra la volontà del paziente e la condotta del medico – sia sotto il profilo della violenza (fisica, come contenzione, e/o farmacologica), per superare la resistenza del paziente. Dal punto di vista soggettivo, occorre il dolo generico, per l’integrazione della fattispecie prevista e punita dall’art. 610 c.p.; se il medico agisce sull’errato presupposto dell’esistenza di un valido consenso, sarà applicabile la’rt. 47 c.p., con esclusione del dolo. Successivamente all’arresto del 2008, la giurisprudenza ha ravvisato il delitto di cui all’art. 582 c.p., nella condotta del medico, posta in essere in violazione del dissenso validamente espresso dal paziente, dalla quale condotta sia derivato un esito infausto. Tale conclusione è necessitata, secondo la giurisprudenza della S.C., dal fatto che, soggettivamente e oggettivamente, la condotta del medico determina un’immediata ed apprezzabile diminuzione funzionale dell’organismo, in piena consapevolezza e volontà (così Cass. Pen., sez. IV. 20 aprile 2010, 21799).

[4] Trib. Roma, sez. I, 16 dicembre 2006, in Corr. mer., 2007, 4, 461.

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