Parere diritto penale
TIZIO, primario di un ospedale pubblico, impedisce più di una volta a CAIO, medico del suo staff e professionista qualificato non sempre in linea con le scelte del primario, di procedere ad un intervento chirurgico per il quale era specializzato, dirottando il paziente presso una struttura privata in cui lo stesso TIZIO esercita la professione. CAIO si rivolge al vostro studio legale allo scopo di individuare eventuali responsabilità del primario circa la condotta presunta come vessatoria nei confronti suoi e della sua carriera.
Assunte le vesti del legale di CAIO, esprima il candidato parere motivato.
Nella fattispecie in esame, a Caio viene impedito da Tizio – primario dello staff ospedaliero cui lo stesso Caio apparteneva – di effettuare legittimamente un intervento chirurgico per il quale era specializzato, in quanto il paziente veniva dirottato presso una struttura privata in cui lo stesso primario esercitava la propria professione.
Per poter evidenziare le eventuali responsabilità da ascriversi in capo a Tizio, occorre innanzitutto individuare il reato commesso da quest’ultimo, e cioè il reato di abuso di ufficio di cui all’art. 323 c.p., così come riformato dalla L. n. 234 del 1997.
In tale situazione, Tizio, primario ospedaliero e quindi incaricato di pubblico servizio, nello svolgimento delle proprie funzioni decide, in aperta violazione dei regolamenti ed omettendo di astenersi in presenza di un proprio interesse, di dirottare il paziente presso la struttura privata di cui fa parte, procurando in tal modo intenzionalmente per sé stesso un ingiusto vantaggio patrimoniale.
Andando quindi ad analizzare il reato di abuso di ufficio di cui alla citata disposizione normativa, trattasi di reato proprio, in quanto può essere commesso esclusivamente da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, ferma restando la possibilità di concorso da parte di estranei che partecipino all’attività criminosa dei soggetti propriamente qualificati.
E’ un reato monosoggettivo, per la cui integrazione è sufficiente che il beneficiario sia specificamente individuato, ed è un reato a dolo generico caratterizzato dal requisito della intenzionalità, in cui l’agente procura, appunto, intenzionalmente per sé o per altri un ingiusto vantaggio patrimoniale.
L’elemento soggettivo, pertanto, consiste nella consapevolezza della ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà di agire per procurarlo.
Passando quindi all’elemento oggettivo, questo si identifica con l’illegittimità del comportamento dovuta a violazione di norme di legge o regolamenti, tenuto dall’agente nella sua specifica veste di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.
E’ richiesto, quindi, che il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio, come nel caso di specie) realizzi l’abuso attraverso l’esercizio del potere per scopi diversi da quelli imposti dalla natura della funzione ad esso attribuita.
L’art. 323 c.p., poi, delinea un reato di evento, in cui ingiusto deve altrettanto essere il vantaggio patrimoniale – come già precisato – in quanto non spettante sulla base delle norme di legge o di regolamenti.
Il nesso causale deve sussistere tra la formale violazione di legge o di regolamento, posta in essere dall’agente mediante un comportamento tipico, e l’evento medesimo, consistente, come detto, nell’ingiusto vantaggio conseguito.
Relativamente alla consumazione, questa si realizza con l’avvenuto conseguimento dell’ingiusto vantaggio patrimoniale in favore dell’agente.
Quanto, poi, all’interesse tutelato, è importante evidenziare che il bene giuridico protetto è costituito dal buon andamento e dall’imparzialità della pubblica amministrazione. In tale reato, infatti, la parte offesa è solo la P.A., in quanto titolare dell’interesse protetto dalla norma.
Il privato che, come in questo caso, lamenti un danno nei propri confronti (o nei confronti della propria carriera) sarà semplicemente soggetto danneggiato dal comportamento penalmente rilevante posto in essere dall’agente, potendo costituirsi parte civile nel processo penale.
Dopo aver delineato le caratteristiche essenziali del reato di abuso di ufficio di cui all’art. 323 c.p., è opportuno richiamare alcune sentenze della Suprema Corte di Cassazione: in particolare, la n. 3704/99, secondo cui il primario di un ospedale è tenuto a prestare la sua opera in conformità delle leggi e dei regolamenti, in modo da assicurare sempre l’interesse della pubblica amministrazione, sicché integra il reato di abuso di ufficio l’aver mantenuto comportamenti vessatori verso i propri colleghi al fine di dirottare i pazienti verso una sua clinica privata.
Meritevole di menzione anche la sent. Cass. n. 27936/2008 e la n. 24066/2001, secondo le quali integra il reato di abuso di ufficio la condotta del medico specialista di una struttura sanitaria pubblica che indirizzi il paziente verso il laboratorio privato di cui egli sia socio anziché fargli eseguire l’esame presso la medesima struttura pubblica.
Passando quindi al secondo comma dell’art. 323 c.p., è importante verificare se il vantaggio conseguito o il danno causato, nel caso di specie, abbiano un carattere di rilevante gravità, poiché, in caso affermativo, la pena sarebbe aumentata.
Trattasi di una aggravante specifica, che esclude quindi l’analoga aggravante comune di cui all’art. 61 n. 7, per la cui applicazione occorrerebbe, a parere dello scrivente, verificare se il comportamento di Tizio si sia ripetuto nell’ambito di un unico intervento chirurgico relativo al medesimo paziente oppure se si sia verificato molteplici volte con riferimento a più pazienti.
Qualora si fosse realizzata questa seconda ipotesi, l’aggravante dovrebbe essere applicata al caso di specie, in quanto si verrebbe a realizzare un danno di rilevante gravità per la Pubblica Amministrazione, nonché un ingente vantaggio per il soggetto agente.
Infine, in merito alle eventuali responsabilità del primario circa la condotta vessatoria nei confronti di Caio e della sua carriera, quest’ultimo, come detto in precedenza, avrà la possibilità di costituirsi parte civile nel processo penale, facendo valere pertanto tutte le proprie ragioni a titolo risarcitorio.
Per concludere, a Tizio dovrà essere addebitato il reato di abuso di ufficio di cui all’art. 323 c.p., con l’eventuale aggravante di cui al secondo comma del medesimo articolo nel caso in cui abbia ripetutamente tenuto tale comportamento, con conseguente ingente vantaggio per sé e danno per la P.A.; mentre Caio potrà far valere le proprie ragioni risarcitorie costituendosi parte civile nell’ambito del procedimento penale a carico di Caio.