di Domenico Di Leo
L’estinzione dell’obbligazione avviene con l’esatto adempimento della medesima, quale modalità naturale e più importante di soddisfazione della pretesa creditoria. Infatti, dal punto di vista strutturale, l’obbligazione si presenta costituita dall’obbligo del debitore di adempiere esattamente a quanto dedotto in obbligazione e dal diritto di credito del creditore; entrambi sono posti in funzione l’uno dell’altro. E infatti, l’adempimento dell’obbligazione – decretandone l’estinzione – coincide con la soddisfazione dell’interesse del creditore e la conseguente realizzazione del diritto.
Omettendo volutamente l’indagine su cosa sia l’adempimento e quale sia il contenuto e la natura giuridica del medesimo, va evidenziato che il codice civile prevede i modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento e procede all’indicazione e alla disciplina di essi in capi separati e diversi da quello dedicato all’adempimento.
In sintesi, il codice civile prevede:
- la prestazione in luogo dell’adempimento o dazione in pagamento – c.d. datio in solutum – (art. 1197 c.c.) quando il debitore, con il consenso del creditore, esegue una prestazione diversa da quella dovuta, dedotta in obbligazione;
- la novazione (art. 1230 c.c. et ss) che consiste nel fatto che le parti estinguono l’originaria obbligazione sostituendola con una nuova e diversa per l’oggetto o per il titolo, cioè per la causa per la quale la prestazione è dovuta. La novazione può riguardare anche la sfera soggettiva quando al debitore originario è sostituito un nuovo debitore: in tal caso i parlerà di novazione soggettiva (art. 1235 c.c.);
- la remissione (art. 1236 c.c. et ss) consiste nella rinuncia volontaria del creditore al proprio diritto. L’obbligazione si estingue se la dichiarazione effettuata dal creditore viene comunicata al debitore e questi, entro un termine congruo, non dichiari di opporvisi;
- la compensazione (art. 1241 c.c. et ss) è l’estinzione di due obbligazioni reciproche fra due soggetti reciprocamente obbligati; i debiti reciproci si estinguono se sussistono le condizioni previste dalla legge. Il codice distingue tre tipi di compensazione: quella legale, che si attua per legge; quella giudiziale, decisa dal giudice; e quella volontaria, stabilità per accordo fra le parti nel caso in cui manchino le condizioni per una delle due altre tipologie di compensazioni;
- la confusione (art. 1253c.c. et ss) ha luogo quando le qualità di creditore e di debitore si riuniscono in capo alla medesima persona.
Altri modi di estinzione dell’obbligazione sono disciplinati in altri contesti del codice civile: si pensi all’art. 1984 c.c., in relazione al contratto di cessione dei beni ai creditori o all’art. 1070 c.c., in tema di servitù (abbandono del fondo servente).
Un modo particolare di estinzione dell’obbligazione, fra quelli diversi dall’adempimento, è di sicuro l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, disciplinata dall’art. 1256 c.c. et ss. La dizione della norma è chiara: l’estinzione dell’obbligazione si verifica soltanto se l’impossibilità non è causalmente riconducibile al debitore. E, in tal caso, due sono gli effetti che ne derivano: da un lato, l’estinzione dell’obbligazione e, dall’altro lato, l’esonero da responsabilità del debitore dalla responsabilità per inadempimento.
Perché derivino gli effetti predetti, occorre dunque che l’impossibilità della prestazione abbia le caratteristiche di cui al combinato disposto degli artt. 1218 e 1256 c.c. Di seguito, si indicheranno i tratti salienti della predetta impossibilità.
L’impossibilità deve essere sopravvenuta: naturalmente, la prestazione deve palesarsi impossibile solo in un momento successivo alla nascita del rapporto obbligatorio. Infatti la prestazione che sia impossibile sin dall’inizio rende nullo il contratto avente ad oggetto tale prestazione (obbligo di consegnare un bene inservibile o già dichiarato fuori commercio)[1]. Attenta dottrina[2] evidenzia che l’impossibilità sopravvenuta non può essere confusa né con la difficoltà né con l’eccessiva onerosità della prestazione. Infatti, da un lato, si afferma che la difficoltà è un ostacolo che il debitore è tenuto a superare con l’impiego della diligenza dovuta nel caso concreto. Ad esempio, uno sciopero dei servizi pubblici non integra un’impossibilità sopravvenuta nel caso io debba far giungere un bene a destinazione in quanto posso utilizzare altri mezzi di trasporto. Di contro, l’eccessiva onerosità (art. 1465 c.c. et ss) rappresenta l’aumento del costo economico della prestazione in conseguenza di fatti straordinari ed imprevedibili e, tuttavia, non integra gli estremi dell’impedimento della prestazione né estingue di per sé l’obbligazione ma legittima il debitore ad azionare il rimedio della risoluzione del contratto o della riduzione ad equità della prestazione dovuta.
L’impossibilità deve essere oggettiva ed assoluta: infatti, la prestazione deve essere oggettivamente impossibile in quanto l’impossibilità deve attenere alla prestazione considerata in sé e per sé, non avendo alcun valore le condizioni personali e patrimoniali del debitore e, dunque, nessun debitore deve essere in grado di adempierla, neppure con un grande sforzo[3]. Così, ad esempio, nessun debitore potrà invocare l’impossibilità sopravvenuta adducendo la sua personale situazione di decozione. L’impossibilità è declinata come oggettiva ed assoluta da parte della dottrina, non essendoci alcun riferimento normativo che espliciti i caratteri dell’impossibilità medesima. Secondo l’elaborazione di dottrina e giurisprudenza, i caratteri dell’invincibilità e dell’inevitabilità sono stati tradizionalmente individuati in eventi come il caso fortuito e la forza maggiore: il primo è definito come l’evento incontrollabile ed imprevedibile, la seconda è declinata come la vis maior cui resisti non potest. Esempi del caso fortuito sono il black out o l’alluvione; esempi di forza maggiore possono consistere in eventi fisici o naturali, come il ponte che è stato chiuso perché pericolante, o in un fatto del terzo, come nel caso dello sciopero dei trasporti che impedisca al debitore di adempiere regolarmente alla prestazione dovuta, o, ancora, nel factum principis, cioè in una decisione imperativa dell’autorità i cui comandi devono essere eseguiti dal debitore, come quando in Italia è stata vietata la commercializzazione ed il consumo di pollame e carni simili a causa dell’epidemia denominata ‘aviaria’. Tuttavia, l’approccio tradizionale è apparso eccessivamente rigoroso in quanto il requisito dell’assolutezza sacrifica eccessivamente la posizione del debitore e non risponde ad un’equilibrata disciplina del rapporto obbligatorio: infatti, ci sono casi in cui la prestazione, oggettivamente possibile, comporterebbe per il debitore uno sforzo che va ben aldilà della diligenza richiesta per l’adempimento. Secondo una parte della dottrina, guidata da Bianca, occorre che i caratteri dell’oggettività e dell’assolutezza dell’impossibilità vadano declinati secondo il principio della responsabilità per l’inadempimento, in chiave soggettiva e relativa, in riferimento allo sforzo diligente richiesto al debitore, sulla base del duplice riferimento normativo offerto dagli artt. 1176 e 1218 c.c. Secondo questa dottrina, se l’obbligazione ha ad oggetto una prestazione strettamente personale, l’impossibilità oggettiva coincide con quella soggettiva. Inoltre, l’impossibilità deve essere soggettiva, in base ai principi di buona fede e solidarietà, in quanto rileva anche l’impedimento di quel determinato debitore; e relativa, perché non è conforme al canone della buona fede la pretesa creditoria di ottenere, senza adeguamenti e variazioni, la prestazione che, nel frattempo, sia divenuta più difficile e più onerosa, tanto da richiedere al debitore uno sforzo particolarmente intenso, ben aldilà della diligenza dovuta ed esigibile ex art. 1176 c.c. Si tratta dunque di confrontare attentamente l’impossibilità della prestazione relativa con lo sforzo di cooperazione dovuto dal debitore in vista dell’adempimento dell’obbligazione de qua. Sicchè, alla luce del principio di buona fede contrattuale accolto dal legislatore quale fonte di reciproci obblighi a carico delle parti del contratto, è possibile equiparare, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., l’impossibilità ex art. 1218 c.c. all’inesigibilità della prestazione alla stregua di un giudizio di buona fede[4].
Fra i caratteri dell’impossibilità, rientra la non imputabilità al debitore dell’impossibilità della prestazione: ed è chiaramente condivisibile tale assunto, in quanto il debitore non deve aver causato col suo comportamento tale inadempimento altrimenti non solo non è liberato ma è esposto all’zione di responsabilità per inadempimento. L’impossibilità deve dipendere da caso fortuito o forza maggiore. In base al combinato disposto degli artt. 1218 e 1256 c.c., il debitore è liberato per sopravvenuta e definitiva impossibilità della prestazione quando essa rivesta il carattere oggettivo dell’impossibilità è l’elemento soggettivo dell’assenza di colpa in relazione alla produzione dell’evento che ha reso impossibile la prestazione.
L’impossibilità deve riguardare la prestazione per intero: infatti, se la prestazione è solo parzialmente impossibile, la controparte ha diritto a una riduzione della prestazione dovuta da essa, salvo il recesso dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale (art. 1464 c.c.).
L’impossibilità deve essere definitiva: nel senso che deve essere di natura tale da non consentire in nessun modo l’adempimento; invece, l’impossibilità sopravvenuta temporanea non estingue l’obbligazione ma sospende l’obbligo del debitore escludendone la responsabilità da ritardo nell’adempimento finchè dura l’impossibilità. Tuttavia, in due casi, l’impossibilità temporanea estingue l’obbligazione, ex art. 1256 co. 2, c.c.; quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura del suo oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato ad eseguirla – come nel caso in cui il perdurare dell’impossibilità comporti per il debitore un eccessivo aggravio; e quando il creditore non ha più interesse all’adempimento, per sopravvenuta inidoneità della prestazione a soddisfare l’interesse de creditore, perché l’esecuzione della prestazione dopo un certo periodo diverrebbe inutile. Esempio del primo caso è quello di colui che deve consegnare dei prodotti di cui è temporaneamente vietato il commercio per verifiche in tema di igiene o di sicurezza: il prolungarsi delle verifiche potrebbe comportare un aggravio di spese per il debitore che deve provvedere al deposito e alla manutenzione dei prodotti per un tempo indeterminato; un esempio del secondo caso è l’abito da sposa che non è consegnato in tempo utile per la cerimonia: consegnarlo dopo la data prevista per le nozze non soddisfa più il committente e, perciò, la prestazione è inutile.
Spigolatura a cura dell’avv. Domenico Di Leo – RIPRODUZIONE RISERVATA
[1]Mentre l’impossibilità giuridica dell’utilizzazione del bene per l’uso convenuto o per la sua trasformazione secondo le previste modalità, quando derivi da disposizioni inderogabili già vigenti alla data di conclusione del contratto, rende nullo il contratto stesso per l’impossibilità dell’oggetto, a norma degli artt. 1346 e 1418 c.c., nella diversa situazione in cui la prestazione sia divenuta impossibile per causa non imputabile al debitore ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c., l’obbligazione si estingue: con la conseguenza che colui che non può più rendere la prestazione divenuta, intanto, definitivamente impossibile, non può chiedere la relativa controprestazione né può agire con l’azione di risoluzione allegando l’inadempimento della controparte. Cfr. Cass. civ., sez. III, 20 dicembre 2004, n. 23618.
[2] Bianca, Diritto civile, 4. L’obbligazione, Giuffrè, 1993, pag.528 ss.
[3] L’impossibilità che, ai sensi dell’art. 1256 c.c., estingue l’obbligazione o giustifica il ritardo nell’adempimento è da intendere in senso assoluto ed obiettivo e consiste nella sopravvenienza di una causa, non imputabile al debitore, che impedisce definitivamente o temporaneamente l’adempimento; il che, alla stregua del principio secondo cui genus numquam perit, può evidentemente verificarsi solo quando la prestazione abbia per oggetto la consegna di una cosa determinata o di un genere limitato e non già quando si tratta di una somma di denaro ( Cass. Civ. sez. III, 17 giugno 1980, n. 3844).
[4] Così, Visintini, in Trattato di dir. priv., diretto da P. Rescigno, Torino, 1984, 169).