Cass. Civ., sez. III, 4.9.2012, n. 14807
Ridotto il risarcimento al motociclista senza casco
a cura dell’avv. Di Leo Domenico
Con sentenza n. 14807 del 4 settembre 2012, la S.C. ha stabilito che il diritto al risarcimento del danno subito va riconosciuto al motociclista investito, benchè sprovvisto di casco protettivo durante la guida, seppur in misura ridotta. Il caso approdato in cassazione era dei più gravi in quanto aveva ad oggetto la richiesta di risarcimento danni avanzata dai genitori di un motociclista deceduto in un incidente stradale in quanto travolto da un veicolo: il problema sta nel fatto che il motociclista non indossava il casco. Secondo i giudici, le conseguenze dell’incidente sono state aggravate dal danneggiato per non aver usato il casco protettivo; gli ermellini hanno specificato che «in tema di concorso del fatto colposo del creditore, l’art.1227 c.c. distingue l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso da quella in cui il danneggiato abbia prodotto un aggravamento del danno, senza contribuire a causarlo, ovvero non abbia contribuito a ridurne l’entità, dopo che il fatto produttivo di esso si era già verificato. Nella prima ipotesi, prevista dal comma l, il giudice deve proporre d’ufficio l’indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato, in quanto deve porre il danno a carico dei conducenti, nei limiti in cui ciascuno ne sia effettivamente responsabile». Per tale motivo il risarcimento non potrà essere integrale a favore degli eredi del danneggiato.
L’esame della sentenza in commento prende le mosse dall’art. 2054 c.c. la cui previsione normativa si giustifica con il crescente utilizzo dell’autovettura nella vita quotidiana e con la crescente frequenza dei sinistri stradali legati a tale utilizzo. La norma è collocata nella sedes materiae dedicata al tema dell’illecito aquiliano – Titolo IX, Libro IV – e condivide, con le altre previsioni normative ivi collocate, la ricostruzione delle differenti ipotesi prescindendo dal criterio di imputazione della responsabilità fondato sulla colpa.
L’art. 2054 c.c., prevede, al primo comma, la responsabilità del conducente in ordine ai danni prodotti a persone o cose dalla circolazione del veicolo, salva la prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Questo dimostra come il criterio di imputazione del danno non è certamente quello fondato sulla colpa perché il conducente non è liberato se fornisce la prova di aver tenuto un comportamento conforme al modello della diligenza, seppure rigorosa, mentre era alla guida del veicolo e di non aver violato alcuna norma di cui al codice della strada[1]. Il conducente è tenuto a provare l’esistenza di un caso fortuito, cioè di uno specifico evento idoneo ad escludere il nesso di causalità tra la circolazione del veicolo e la causazione dell’evento dannoso. Di conseguenza, sul conducente grava il rischio legato all’altrui imprudenza: per andare esente da responsabilità, egli deve dimostrare che, nella situazione di pericolo in concreto, non dipendente dalla sua negligenza, ha comunque adottato tutte le misure di cautela e ha messo in pratica tutte le manovre opportune e possibili, nel caso specifico, per impedire il verificarsi dell’evento dannoso o che, date le modalità del fatto, egli non aveva alcuna reale possibilità di intervento (l’equivalente del dominio finalistico in diritto penale) al fine di evitare la collisione[2]. Il caso fortuito fa venir meno la presunzione di colpa stabilita dall’art. 2054 c.c., qualora rappresenti l’unica causa che abbia determinato l’evento dannoso. Infatti, similmente alla forza maggiore, non si può rispondere per colpa extracontrattuale di un fatto non preveduto che, secondo la comune esperienza e il naturalistico svolgersi degli eventi, non sia neppure prevedibile. Il caso fortuito potrà essere provato dal danneggiante anche a mezzo di presunzioni purchè gravi, precise e concordanti.
Il secondo comma della previsione normativa in commento offre una panoramica che consente di entrare nel cuore del problema dibattuto in questa sede, concernente l’ipotesi dello scontro fra autoveicoli ed il riparto della responsabilità in ordine ai danni cagionati.
L’art. 2054 c.c., comma 2, statuisce la presunzione del concorso in pari misura tra i diversi conducenti, in ordine ai danni subiti da ciascun veicolo. Anche in questo caso, la presunzione di colpa ammette la prova liberatoria. Nel caso in cui nessuno dei conducenti riesca a fornire la prova liberatoria, dimostrando di aver tenuto un comportamento conforme alle norme che disciplinano la circolazione stradale, tutti sono ritenuti responsabili e ciascuno subirà la metà dei danni prodotti a causa della collisione.
La presunzione in esame può essere superata soltanto fornendo la rigorosa prova liberatoria di aver fatto tutto il possibile per evitare il sinistro: questo significa che non è sufficiente provare la condotta negligente di uno dei conducenti perchè è necessario provare di aver tenuto un comportamento diligente, esente da colpa e rispettoso delle regole che disciplinano la circolazione dei veicoli. Nell’ipotesi di collisione fra veicoli, la legge statuisce la presunzione di colpa dei conducenti nella causazione del danno: infatti, la norma dell’art. 2054 c.c. pone a carico dei conducenti il concorso in egual misura della produzione dei danni subiti dai rispettivi veicoli. Dalla lettera della norma, si evince che ciascun conducente abbia provocato con pari colpa e con pari efficienza causale i danni derivanti dallo scontro, sia quelli subiti sulla propria persona sia quelli subiti dall’altro conducente. L’applicabilità del principio del concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227 c.c. all’ipotesi in esame, impone a ciascun conducente di risarcire la metà dei danni subiti dall’altro conducente e di subire la riduzione nella stessa misura del diritto al risarcimento per i propri danni[3].
Il principio della parità delle posizioni dei conducenti in ordine alla produzione del danno riguarda sia la gravità della colpa che l’entità delle conseguenze del danno[4]. Va tuttavia precisato che il sistema presuntivo del codice civile non esonera il danneggiato dal fornire la prova del nesso di causalità fra il fatto e il danno, cioè egli deve provare che il danno lamentato è derivato dallo scontro[5]. In base al meccanismo presuntivo, il danneggiato ha l’onere di provare che l’altro conducente ha concorso alla produzione del danno in misura superiore alla metà: se il danneggiato fornirà tale prova, l’altro sarà tenuto ad un risarcimento maggiore e in tale misura gli sarà computato il concorso di colpa[6]. La S.C. ha stabilito che la presunzione stabilita dall’art. 2054 c.c., nel caso di scontro fra veicoli, opera soltanto quando non sia possibile accertare in concreto in quale misura la condotta di ciascun conducente abbia contribuito a cagionare l’evento dannoso: ne deriva che, se è accertata la colpa esclusiva di uno dei conducenti nella causazione dell’evento dannoso, l’altro è liberato dalla presunzione di responsabilità e non è tenuto a provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno[7].
Quanto brevemente premesso, permette di affermare che la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli conosce la presunzione stabilita dall’art. 2054 c.c. la quale non pone a carico del conducente una responsabilità di tipo oggettivo ma di tipo presuntivo, dalla quale egli potrà liberarsi fornendo la prova liberatoria di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Questa prova si sostanzia nella dimostrazione di aver osservato, nei limiti della normale diligenza, un comportamento in concreto conforme alla disciplina del codice della strada ed esente da colpe, che il giudice valuterà con riferimento al caso concreto[8]. La presunzione di pari responsabilità prevista dall’art. 2054 c.c. opera non soltanto quando non sia possibile stabilire il grado di colpa dei conducenti ma anche quando non sia possibile stabilire la sequenza causale del sinistro. Di conseguenza, l’accertamento della colpa, quand’anche ritenuta grave a carico di uno dei conducenti, non esenta l’altro dall’onere di provare di avere fatto tutto il possibile per evitare l’evento, al fine di escludere il concorso di colpa a suo carico[9].
Un caso particolare è quello proposto nella sentenza in commento, ovvero l’ipotesi della collisione da tergo (c.d. tamponamento). In tal caso, la presunzione di responsabilità a carico del conducente del veicolo tamponato è superata dalla presunzione a carico del veicolo che segue circa il mancato rispetto della distanza di sicurezza. Infatti, secondo quanto disposto dall’art. 149 co. 1 C.d.S., il conducente di un veicolo deve essere in grado di garantire in ogni caso l’arresto tempestivo del proprio veicolo, evitando collisioni col veicolo che precede; nel caso in cui si verifichi la collisione, sul conducente del veicolo che segue grava una presunzione di inosservanza della distanza di sicurezza con la conseguenza che, non potendosi applicare la presunzione di pari colpa nella verificazione dell’evento dannoso, egli resta gravato dell’onere di fornire la prova liberatoria, dimostrando che il mancato e tempestivo arresto del veicolo e la susseguente collisione sono stati determinati da cause in tutto o in parte a lui non imputabili[10].
Se ci si fermasse a questo punto, si potrebbe affermare di non condividere la decisione della S.C. in commento, senza timore di smentita: tuttavia, l’osservazione dei fatti di causa sarebbe parziale e lacunosa.
Nella pronuncia in esame, il creditore – danneggiato è il malcapitato motociclista il quale, a seguito del tamponamento da tergo, ha perduto la vita. Di sicuro, nella causazione dell’evento – il tamponamento – egli non ha avuto alcun ruolo finalisticamente orientato alla realizzazione del sinistro; tuttavia, le conseguenze dello scontro hanno avuto un epilogo tragico in quanto il danneggiato non aveva indossato il prescritto casco protettivo ed ha, così, aggravato le conseguenze del sinistro, in ciò consistendo la c.d. mora del creditore, ai sensi dell’art. 1227 c.c., richiamato opportunamente dal co. 1 dell’art. 2054 c.c.
Il comportamento irregolare del danneggiato può considerarsi concausa ovvero causa esclusiva dell’evento dannoso solo allorquando, rispetto a quest’ultimo, abbia svolto un ruolo di antecedente dal punto di vista causale; la prova del nesso di causalità tra la condotta del danneggiato e l’insorgere del danno a lui occorso, grava a carico del convenuto-danneggiante che intende sottrarsi, in tutto ovvero in parte, al suo obbligo risarcitorio nei confronti del primo. Sembra questo l’assunto da cui parte la S.C. per giungere al riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni in favore dei congiunti superstiti del motociclista vittima di uno scontro in cui egli ha perso la vita, seppur ridotto sensibilmente per avere il motociclista concorso nell’aggravamento delle conseguenze del danno[11]. Ed è l’ipotesi contemplata nel comma 2° dell’art. 1227 c.c.
l’art. 1227 del codice civile regolamenta le conseguenze per l’ipotesi in cui la condotta colposa del danneggiato abbia spiegato efficacia causale concorrente ovvero esclusiva nella produzione del danno che il medesimo lamenti. A tal fine, la norma dedica la previsione del primo comma all’ipotesi in cui il soggetto che si assuma creditore abbia concorso a produrre il danno, sanzionandolo con una riduzione dell’eventuale risarcimento che viene determinata alla luce di due parametri, quali la gravità di tale colposa concorrente, nonché la entità delle conseguenze dannose lamentate. In tal modo, viene cristallizzato un rapporto di proporzionalità inversa tra il risarcimento eventualmente riconosciuto e tali elementi, di guisa che tanto più rilevanti risulteranno questi ultimi, tanto minore dovrà essere il risarcimento, in quanto in una simile ipotesi il danno de quo agitur risulterà essere conseguenza prevalente della condotta colposa concorrente del preteso creditore, ed in parte minore e/o meno rilevante del debitore-danneggiante.
Il secondo comma dell’art. 1227 c.c. regola, invece, l’ipotesi oggetto della sentenza qui annotata, prevedendo che il risarcimento non spetti allorquando il danno lamentato dal creditore sia conseguenza del difetto della ordinaria diligenza da parte di quest’ultimo, ovvero il creditore avrebbe potuto evitare ove avesse fatto applicazione di tale diligenza. Tale diligenza, senza dubbio, è quella presa in considerazione dal primo comma dell’art. 1176 c.c., ovvero quella del buon padre di famiglia, dell’uomo medio, vivente in uno specifico ambiente sociale, e dotato di sufficiente avvedutezza per la tutela dei propri interessi (tra cui rientra senza dubbio quello alla propria incolumità).
Dunque, appare subito evidente, così come del resto la giurisprudenza[12] sostiene da tempo, che in una ipotesi del genere, la diligenza – e specificamente il tipo di diligenza previsto e richiesto dalla norma da ultimo richiamata – viene in rilievo quale criterio di carattere generale cui l’interprete può fare ricorso per valutare la condotta del creditore/danneggiato.
In proposito, infatti, la S.C. ha evidenziato che questi non può limitarsi ad una condotta passiva nei confronti dell’altrui agire illecito, bensì è a lui richiesto, in applicazione del principio di solidarietà, di attivarsi, secondo quanto nelle sue possibilità e senza dover compiere attività gravose, rischiose ovvero integranti sacrifici eccessivi, per ridurre le conseguenze in termini di danno derivate dalla condotta del danneggiante[13]. Dunque, appare evidente che, allorquando al creditore sia richiesta una condotta non solo attiva, ma che, altresì, implichi notevoli rischi e/o spese, quest’ultima non possa integrare il requisito della ordinaria diligenza previsto dall’art. 1227, 2° comma c.c., con conseguente inapplicabilità di tale ultima disposizione, visto che, per costante orientamento giurisprudenziale[14], una simile condotta non può farsi rientrare nell’ambito della diligenza in questione. Infatti, per la Cassazione[15], la diligenza richiesta dall’art. 1227, secondo comma, c.c., quale aspetto del più generale dovere di correttezza nei rapporti, non può essere altro che indirizzata al contenimento dei danni entro i limiti che rappresentino una diretta conseguenza dell’altrui colpa; mentre, viceversa, detta diligenza non può estrinsecarsi in un`attività che venga ad interessare abnormemente la sfera giuridica personale del creditore, creando obblighi autonomi ed in nessun modo collegati al normale processo evolutivo delle conseguenze dell’inadempimento o del fatto illecito, e che tuttavia condizionino le scelte riconducibili alla libertà di iniziativa economica ovvero, più in generale, alla libertà di autodeterminazione quanto alle esigenze del consumo e della vita di relazione.
Tenendo presente che per fare applicazione dell’art. 1227 c.c. risulta sempre necessaria una valutazione, da parte del giudice di merito, in ordine al nesso causale tra l’evento e la condotta della vittima si riscontrano al riguardo opinioni dottrinali divergenti. E questo al fine di escludere che la stessa abbia spiegato una incidenza causale nel prodursi del danno, dato che ove anche sussista una condotta colposa del danneggiato, se si accerti che l’entità del danno subita da quest’ultimo sarebbe stata identica anche se il predetto avesse fatto uso di tutta la diligenza da lui esigibile.
Infatti, per un autore[16], l’art. 1227 c.c. non potrebbe trovare applicazione nel caso in cui dal punto di vista causale la condotta colposa del danneggiato si sostituisca del tutto a quella del danneggiato, poiché in tal caso dovrebbero trovare applicazione gli artt. 1218 e/o 2043 c.c. quali regole generali in tema di nesso causale, a seconda che si tratti di responsabilità contrattuale ovvero aquiliana, poiché in tal caso il fatto del danneggiato si erge a causa efficiente esclusiva, idonea ad escludere in toto la responsabilità del danneggiante.
Altro studioso[17] ritiene che l’art. 1227, 1°comma c.c. addirittura integri uno strumento idoneo anche ad elidere completamente la responsabilità dell’autore del danno, ove – ritenendo dunque applicabile il principio di matrice penalistica della equivalenza delle cause ai sensi dell’art. 40 c.p. – la condotta della vittima risulti in grado di spiegare efficacia causale esclusiva, interrompendo il nesso causale tra la condotta del danneggiante e l’evento.
Infine, ulteriore opinione dottrinale[18] ritiene che, nella ipotesi in cui, appunto, la condotta del danneggiato venga in rilievo, sotto il profilo eziologico, quale causa efficiente esclusiva dell’evento dannoso, la responsabilità dell’autore materiale del danno sia da escludere non in ragione della previsione di cui all’art. 1227 c.c., quanto piuttosto perché in tale ipotesi non vi è alcuno spazio per discorrere di fatto illecito, in quanto la relativa fattispecie costitutiva non si è mai perfezionata: risulta evidente, allora, come le dottrine in questione divergono in ordine alla individuazione del momento in cui interviene, dal punto di vista causale, la condotta del danneggiato, e cioè se agisce, come in sostanza ritengono gli autori più recenti, sulle conseguenze ovvero, invece, sull’evento vero e proprio – impedendone il sorgere in termini di illecito – come sostiene l’opinione più risalente.
Sotto il profilo della ripartizione dell’onere probatorio, va tenuto presente che, in tema di risarcimento del danno, l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso (dell’art. 1227 c.c., comma 1) va distinta da quella (disciplinata dal comma 2, del medesimo articolo) riferibile ad un contegno dello stesso danneggiato che abbia prodotto un aggravamento del danno, senza contribuire alla causazione.
Solo la seconda di tali situazioni costituisce oggetto di una eccezione in senso proprio, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 112 c.p.c., mentre, ove il convenuto si sia limitato a contestare in toto la propria responsabilità, il giudice deve valutare d’ufficio il possibile concorso di colpa del danneggiato, così come stabilito dai più recenti approdi della Suprema Corte.10
Con tali pronunzie, invero, la S.C. ha superato quel precedente suo orientamento che riteneva rilevabile d’ufficio anche il mancato utilizzo della ordinaria diligenza da parte del creditore, se i relativi fatti costitutivi fossero stati ritualmente allegati, nonché quella opinione dottrinale11 per la quale, nell’assenza di una espressa previsione di legge che qualificasse l’omissione della diligenza ordinaria da parte del danneggiato quale circostanza di fatto oggetto esclusivamente di una eccezione in senso proprio – cioè riservata esclusivamente alla iniziativa della parte che se ne intende avvalere – allora detta omissione, ovviamente a condizione che emergesse dal materiale acquisito agli atti processuali, era da ritenersi rilevabile d’ufficio dal giudice.
Guardando alla disposizione dell’art. 1227, comma 2° c.c. sotto il profilo della rilevanza della condotta del danneggiato, va osservato che, in relazione ad esso, possono verificarsi ipotesi del tutto differenti quali, ad esempio, la totale irrilevanza di tale condotta (è il caso del lavoratore che manomette le protezioni e, a causa di ciò subisca un infortunio: la S.C. esclude il concorso di colpa del lavoratore se l’impresa non fornisce la prova di aver impartito le opportune avvertenze), oppure – all’estremo opposto – una incidenza causale talmente elevata da poter elidere la responsabilità dell’agente (è il caso in esame); infine, l’ipotesi intermedia in cui le colpe si suddividono tra i due soggetti, venendo graduate in ragione della percentuale in cui ognuna di esse ha inciso, eziologicamente, nella produzione dei danni lamentati (il classico esempio del risarcimento ridotto nel caso in cui il danneggiato non abbia utilizzato la cintura di sicurezza previa dimostrazione, a carico del danneggiante, che il predetto utilizzo avrebbe ridotto in misura rilevante il danno).
In dottrina[19], la condotta del danneggiato viene ritenuta idonea a spiegare effetti determinanti solo allorquando i danni lamentati da quest’ultimo siano conseguenza degli incidenti definiti come bilaterali , ovvero quelli in cui entrambe i protagonisti, danneggiante e danneggiato, hanno la possibilità, quantomeno in astratto, di adottare misure di prevenzione, ovvero improntare il proprio agire ad una prudenza e diligenza che dovrebbe consentirgli di evitare – o, quantomeno, di ridurre in misura considerevole – le conseguenze dannose dell’altrui agire. In conseguenza, secondo la dottrina, in tali ipotesi il meccanismo della regola del concorso di colpa agisce come incentivo in termini di riduzione del costo sociale degli incidenti. Il che non avviene negli altri casi, che vengono definiti come unilaterali , dato che solo i potenziali danneggianti risultano in grado di ridurre la gravità ed il verificarsi degli incidenti, misura in questione dal punto di vista del terzo che la subisce, possono farsi alcune considerazioni sotto differenti profili.
Dunque, poiché sempre secondo l’autore da ultimo richiamato, il criterio da utilizzare in ottica di prevenzione deve necessariamente risultare differente a seconda che si tratti di incidenti bilaterali ovvero unilaterali, nel senso che nella prima ipotesi dovrebbe trovare applicazione il criterio della colpa, mentre nella seconda quello della responsabilità oggettiva, dovrebbe risultare pacifica la limitazione del ricorso della regola del concorso di colpa alle sole ipotesi di incidenti bilaterali.
Tuttavia, una simile rigida ripartizione mal si adatta alle ipotesi – che non sono affatto infrequenti – in cui la condotta ritenuta come esigibile dal danneggiato a fini di prevenzione non risulti perfettamente inquadrabile e riconducibile in quella che il medesimo si ritiene obbligato ad attuare negli incidenti bilaterali, ovvero in quelli unilaterali.
Per tali ipotesi, allora, appare condivisibile quanto sostenuto da quella dottrina[20] che afferma come l’alternativa sia tra il ricorso alla responsabilità per colpa, ovvero ad un criterio misto, rappresentato dalla responsabilità oggettiva temperata dal ricorso al concorso di colpa.
A tale ultimo proposito, va detto che altro autore[21], nel propendere per la seconda soluzione, evidenzia come la stessa si differenzi in quanto, in concreto, ciò che realmente cambia rispetto alla prima va individuato negli oneri preventivi che gravano sulle parti, la cui quantità e qualità si diversifica a seconda dei soggetti coinvolti, nel senso che quegli accorgimenti di prevenzione che richiedono, per essere concretamente attuati, necessitano di peculiari capacità tecnologiche, devono ritenersi di esclusiva pertinenza e competenza del soggetto danneggiante, in quanto quest’ultimo è l’unico soggetto realmente in grado di controllare la fonte dei rischi.
Dunque, in una simile ottica, il danneggiato, anche solo potenziale, potrà ritenersi gravato da un onere di diligenza solo nel caso in cui il rapporto tra costi e benefici di un potenziale intervento correttivo sia sensibilmente sbilanciato a favore di questi ultimi, nel senso della possibilità di conseguire un considerevole beneficio facendo ricorso ad una misura precauzionale che, per converso, si riveli per il danneggiato per nulla costosa, o quasi.
Allora, tanto equivale a dire che, perché possa ritenersi sussistente, a carico del danneggiato, l’obbligo di improntare la propria condotta alla diligenza richiesta dall’art. 1227, comma 2° c.c., è configurabile solo allorquando si sia in presenza di un danno di entità molto considerevole che, tuttavia, sarebbe evitabile con una precauzione per nulla gravosa mentre allorquando il livello della condotta precauzionale sia indubbiamente elevato, esso non potrà che gravare esclusivamente sul danneggiante.
In ordine all’art. 1227 c.c., all’art. 1227 c.c., merita di essere condivisa l’opinione di autorevole studioso[22]per il quale la norma in questione distingue, in relazione alle conseguenze dannose ed alla risarcibilità del danno, tra azione ed omissione del danneggiato, descrivendo due ipotesi del tutto diverse: nel primo comma, infatti, il richiamo al concorso di colpa del danneggiato mette in evidenza una sua partecipazione attiva, il che, invece, manca del tutto nella ipotesi regolata dal secondo comma.
In tale ultima ipotesi, infatti, ciò che rileva è il mancato attivarsi del danneggiato, comportamento omissivo che dal punto di vista del nesso causale determina lo spostamento a carico esclusivo di quest’ultimo della responsabilità non per l’evento – che continua a rimanere causalmente imputabile al solo danneggiante – bensì delle conseguenze lesive di esso, che il comportamento attivo e diligente del danneggiato avrebbe potuto evitare o, quantomeno, sensibilmente limitare. Quindi, se nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 1227 c.c. i comportamenti del danneggiato che l’interprete dovrà esaminare e valutare non rilevano in ragione del momento temporale del loro verificarsi – visto che nella valutazione della condotta colposa concorrente del danneggiato vengono in considerazione tutti i comportamenti del danneggiato, indipendentemente se siano anteriori ovvero posteriori alla condotta del danneggiante – al contrario, nella diversa ipotesi regolata dal secondo comma dell’art. 1227 comma c.c., come giustamente sostenuto dal citato autore, per stabilire se il danneggiato abbia o meno improntato la sua condotta alla ordinaria diligenza cui la norma fa riferimento, occorrerà esaminare esclusivamente la condotta tenuta da quest’ultimo dopo che l’evento dannoso si è verificato, in quanto i comportamenti del danneggiato anteriori al suo verificarsi sono privi di qualsiasi rilevanza a tal fine ed in quanto tali non dovranno essere presi in esame dall’interprete nell’esegesi della condotta del danneggiato, poiché altrimenti il medesimo rischia di essere indotto in errore e confondere le due ipotesi previste dall’art. 1227 c.c.
BIBLIOGRAFIA
Si vedano i riferimenti indicati volta per volta nelle note a piè di pagina.
NORMATIVA DI RIFERIMENTO
Art. 1176 c.c.;
Art. 1218 c.c.;
Art. 1227 c.c.;
Art. 2043 c.c.;
Art. 2054 c.c.;
Art. 112 c.p.c.;
Art. 149 C.d.S.
Di seguito, si riporta il testo integrale della sentenza oggetto del presente contributo.
Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza n. 14807 del 4 settembre 2012
Svolgimento del processo
Con citazione notificata in data 6 aprile 1994 T.P. e C.R., in proprio e quali legali rappresentanti della figlia minore A., esponevano che il (omissis), verso le ore 20, il loro figlio T.A., di anni 17, mentre percorreva la Via (omissis), a bordo di un ciclomotore, era stato investito da una Fiat 128 guidata da G. S., che sopraggiungeva da tergo. A seguito dell’investimento, il ragazzo, “imbarcato” sul cofano dell’auto e rimasto incastrato nel parabrezza sfondato, aveva perduto la vita. Ciò premesso, convenivano in giudizio G.S., che era stata condannata per il reato di omicidio colposo, suo padre G.D., quale proprietario dell’auto, e la compagnia di Assicurazione Duomo, quale loro assicuratrice.
In esito al giudizio in cui si costituivano tutti i convenuti sostenendo che il sinistro era avvenuto per colpa esclusiva della vittima, il Tribunale di Milano, dichiarata la colpa concorrente di entrambi i conducenti, ritenuto che le conseguenze dell’incidente erano state aggravate dal danneggiato per non aver usato il casco protettivo, condannava i convenuti a risarcire un terzo dei danni subiti dagli attori. Avverso tale decisione proponevano appello principale T.P., C.R. e T.A., divenuta maggiorenne, ed in via incidentale i G. e la Duomo.
In esito al giudizio, la Corte di Appello di Milano con sentenza depositata in data 2 marzo 2006 riconosceva a favore di T.A. il diritto al risarcimento del danno morale condannando i G. e la Duomo al pagamento della somma di Euro 20.000,00 oltre interessi legali dalla sentenza; riduceva da Euro 185.106,76 ad Euro 60.253,30 il danno biologico spettante a T.P. e C.R.; riduceva da Euro 25.000,00 ad Euro 15.000,00 il danno patrimoniale spettante al T. ed alla C.; compensava le spese.
Avverso la detta sentenza i congiunti della vittima hanno quindi proposto ricorso per cassazione articolato in quattro motivi. Resistono con controricorso i G. e la Duomo Assicurazioni, la quale ha altresì depositato memoria illustrativa a norma dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Al fine di inquadrare più agevolmente il complesso delle doglianze formulate dai ricorrenti, può tornare utile premettere che il primo ed il quarto motivo sono articolati sia per violazione di legge sia per vizio motivazionale; il secondo è articolato esclusivamente sotto il profilo della omessa, insufficiente, e contraddittoria motivazione riguardo al fatto relativo all’uso o meno del casco, al momento del sinistro, mentre infine solo il terzo motivo è articolato sotto il profilo della violazione di legge. Ciò premesso, deve rilevarsi che tutti i profili, attinenti al vizio motivazionale,non risultano accompagnati dal prescritto momento di sintesi, (omologo del quesito di diritto), volto a circoscriverne i limiti, oltre a richiedere sia l’indicazione del fatto controverso, riguardo al quale si assuma l’omissione, la contraddittorietà o l’insufficienza della motivazione sia l’indicazione delle ragioni per cui la motivazione sarebbe inidonea a sorreggere la decisione (Cass. ord. n. 16002/2007, n. 4309/2008 e n. 4311/2008). Ne deriva l’inammissibilità di tali profili di doglianza in quanto anche in caso di proposizione di motivi di ricorso per cassazione formalmente unici, ma in effetti articolati in profili autonomi e differenziati, sostanziandosi tale prospettazione nella proposizione cumulativa di più motivi, affinchè non risulti elusa la “ratio” dell’art. 366-bis cod. proc. civ., deve ritenersi che tali motivi cumulativi debbano concludersi con la formulazione di tanti quesiti e momenti di sintesi per quanti sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati (cfr. S.U. 5624/09, Cass. 5471/08). Passando all’esame della prima doglianza, limitata al profilo afferente la violazione e la falsa applicazione di legge (artt. 102- 107 C.d.S., art. 2054 c.c., comma 2), va osservato che i ricorrenti hanno lamentato l’erroneità della sentenza impugnata “nella ricostruzione della dinamica del sinistro, per aver immotivatamente trascurato la specifica rilevanza causativa del sinistro delle plurime condotte colpose della signora G.S., tali da dover far ritenere superata la presunzione di colpa di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, a carico del T. e comunque tale da determinare la graduazione della responsabilità in termini più favorevoli alla vittima del sinistro”. I ricorrenti hanno quindi concluso il profilo di doglianza con i seguenti quesiti di diritto:
a) La prova liberatoria di cui all’art. 2054 c.c., da parte del conducente del veicolo senza guida di rotaie nel caso di danni prodottigli dalla circolazione di altro veicolo deve essere data necessariamente in modo diretto, cioè dimostrando di aver tenuto un comportamento esente da colpa e perfettamente conforme alle regole del codice stradale, ma può risultare anche dall’accertamento che la condotta del danneggiante sia stato il fattore causale esclusivo dell’evento dannoso? b) In caso di collisione di veicoli da tergo (tamponamento) la presunzione di colpa paritetica prevista dall’art. 2054, rimane assorbita e superata dalla presunzione de facto di inosservanza di distanza di sicurezza del conducente del veicolo tamponante?” Anche tale profilo di doglianza deve essere dichiarato inammissibile. E ciò, per un duplice ordine di considerazioni.
In primo luogo, perchè deve essere esclusa la ammissibilità del quesito “multiplo”, sul rilievo che ad una censura di diritto esposta nel motivo non può che corrispondere un quesito di diritto ed uno solo, solo in tal modo escludendosi ogni rischio di equivocità e solo con tale scelta restando sostenibile il rapporto di pertinenzialità esclusiva e diretta tra motivo e quesito (Cass. n. 1906/2008). In secondo luogo, perchè nessuno dei due quesiti soddisfa le prescrizioni richieste dall’art. 366 bis c.p.c.. Ed invero costituisce orientamento consolidato di questa Corte quello secondo cui l’ammissibilità del motivo di impugnazione è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta ed autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisce necessariamente il segno della decisione (Sez. Un. 28054/08) e deve escludersi che il quesito possa essere integrato dalla Corte attraverso un’interpretazione della motivazione (Cass. 14986/09). Nel caso di specie, entrambi i quesiti formulati, ad onta del duplice contenuto, non presentano i requisiti indicati non contenendo nè la sintetica riassunzione degli elementi di fatto sottoposti all’attenzione del giudice di merito nè l’indicazione della questione di diritto controversa nè la formulazione del diverso principio di diritto, di cui il ricorrente, in relazione al caso concreto, chiede l’applicazione, in modo da circoscrivere l’oggetto della pronuncia nei limiti di un accoglimento o di rigetto del quesito stesso (Sez. Un. n. 23732/07, n. 20360 e n. 36/07).
Passando all’esame della terza doglianza, per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti lamentano che la Corte di merito avrebbe errato quando ha respinto il motivo di gravame, con cui essi avevano censurato la sentenza di primo grado per aver pronunciato oltre i limiti delle domande formulate dai convenuti, osservando – questa, la considerazione della Corte – che si trattava di un accertamento che il giudice deve fare d’ufficio. La censura è infondata. Ed invero, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l’art. 1227 c.c., distingue l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso, regolata dal comma 1, da quella, di cui al comma 2 dello stesso articolo, in cui il danneggiato abbia prodotto un aggravamento del danno, senza contribuire a causarlo, ovvero non abbia contribuito a ridurne l’entità, dopo che il fatto produttivo di esso si era già verificato. Ed è appena il caso di sottolineare che la distinzione non è assolutamente di poco conto perchè nella prima ipotesi prevista dal comma 1, il giudice deve proporsi d’ufficio l’indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato, in quanto deve porre il danno a carico di ciascuno dei conducenti solo nei limiti in cui ne sia effettivamente responsabile (ex multis Cass. n. 12267/92, 11654/98, 13460/99, 4799/01, 8575/02, 27123/06, 28060/08). Resta da esaminare l’ultima doglianza, la quale, stante la dichiarata inammissibilità del profilo di censura afferente al vizio motivazionale, non accompagnato dal momento di sintesi, deve essere limitata al solo profilo della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., con cui i ricorrenti hanno lamentato l’erroneità della sentenza “per avere la Corte di Appello, in difetto di carenza di accertamento del nesso di causalità fra mancato indossamento del casco e la morte di T.A. confermato la sentenza di 1^ grado che aveva ridotto della metà l’entità del risarcimento dovuto agli eredi aventi diritto”. Anche quest’ultima doglianza è inammissibile, attenendo essenzialmente alla ricostruzione dell’incidente e non concernendo violazioni o false applicazioni del dettato normativo bensì la mera valutazione della realtà fattuale, come è stata operata dalla Corte di merito. Infatti, non può essere ammessa in sede di legittimità la censura con cui, nel sollecitare l’esame delle risultanze probatorie, pur deducendo formalmente un vizio di legittimità, parte ricorrente mira, nella sostanza delle cose, ad un riesame del fatto, che è precluso nel giudizio di legittimità, in quanto la valutazione degli elementi di prova e l’apprezzamento dei fatti attengono al libero convincimento del giudice di merito. Considerato che la sentenza impugnata appare esente dalle censure dedotte, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato. Sussistono giusti motivi per compensare le spese di questo giudizio, in considerazione del fatto che l’orientamento giurisprudenziale, in materia di quesiti ex art. 366 bis c.p.c., si è consolidato dopo la proposizione dei ricorsi per cassazione in questione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese di questo giudizio.
[1] Cfr. Guaglione L., Studi di diritto civile, Vol. I – Obbligazioni e responsabilità civile, Nel Diritto Editore, 2011, pp. 354 ss.
[2] Esempi di caso fortuito sono la pozza d’olio sul manto stradale che abbia causato lo slittamento del veicolo; il malore che ha colpito il conducente, se non sia dipeso da una condizione di malattia conosciuta, o determinato dalla mancata copertura farmacologica, etc.
[3] Così, Bianca C. M., Diritto civile, Vol. 5, La responsabilità, Giuffrè editore, Milano, 2012, pp. 761 ss. L’A. fornisce un esempio del meccanismo di riduzione del risarcimento, nel caso in cui operi la presunzione di colpa in parola. A seguito della collisione fra due veicoli, uno di essi – il veicolo A – riporta un danno del valore di 300 e l’altro – il veicolo B – riporta un danno del valore di 500. A seguito dell’applicazione del principio della presunzione di colpa, il risarcimento spettante al proprietario del veicolo A sarà di 150 mentre al proprietario del veicolo B spetterà un risarcimento di 250. A seguito della compensazione, l’obbligazione del proprietario del veicolo A si ridurrà a 100. In questo caso, si è data per certa l’identità fra conducente e proprietario, per ragioni di semplicità.
[4] Sul punto si segnala Cass. Civ., 11 giugno 1990, n. 5679, con cui si afferma che, in tema di responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli, la presunzione di pari responsabilità stabilità dall’art. 2054 c.c. in caso di scontro fra veicoli, ricorre non soltanto quando sia certo l’atto che abbia dato origine al sinistro ma sia incerto il grado di colpa attribuibile a ciascun conducente coinvolto ma anche in tutti i casi in cui non sia possibile accertare il comportamento specifico che ha causato il danno, con la conseguenza che, in tutti i casi in cui non si conosca il fatto che abbia generato il sinistro, la causa presunta dell’evento va ricercata nei differenti comportamenti tenuti dai conducenti coinvolti nello scontro, in egual misura, anche se solo uno di essi abbia riportato danni: in tal caso, la presunzione potrà essere superata soltanto se il danneggiato fornisca la duplice prova che lo scontro sia dipeso dal solo comportamento colposo dell’altra parte e che il danneggiato medesimo ha fatto tutto il possibile per evitare il verificarsi dell’evento dannoso.
[5] Cfr. Bianca, cit.,. Con la sentenza 4020 del 22 ottobre 1976, la S.C. stabilì che il danneggiato non può avvalersi delle regole sulla presunzione di colpa di cui all’art. 2054 c.c., per la prova, gravante su di lui, in ordine al nesso di causalità fra il fatto dannoso e le conseguenze da lui lamentate. La Corte di Cassazione ha affermato che l’attore non aveva provato che i danni riportati dal proprio veicolo nella parte anteriore fossero conseguenza del tamponamento subito ad opera del veicolo che era sopraggiunto, soccombendo sul punto.
[6] In tema di circolazione stradale, l’art 2054 c.c. comma 2, non inibisce al giudice di merito di graduare, anche in caso di concorso di responsabilità, le percentuali imputabili a ciascun conducente, in misura diversa da quella paritetica anche quando non sia provato che il concorrente danneggiato abbia fatto tutto il possibile per evitare lo scontro, qualora ritenga che il conducente dell’altro mezzo abbia una responsabilità prevalente in relazione alle positive risultanze processuali (Cass. Civ., sez. III, 15 aprile 2010, n. 9040).
[7] Cass. Civ., 14 novembre 1986, n. 6696; conf., Cass. Civ., 19 dicembre 2008, n. 29883.
[8] Cass. Civ., sez. III, 29 aprile 2006, n. 10031.
[9] Cass. Civ., sez. III, 9 gennaio 2007, n. 195.
[10] Cass. Civ., sez. III, 21 settembre 2007, n. 19493.
[11] Conforme nel senso del testo, Trib. Nola 18 maggio 2011, n. 1240, con nota di Cascella G., in www.comparazionedirittocivile.it.
[12] Cass. Civ., 26 novembre 1997, n. 11843.
[13] Cass. Civ., 9 febbraio 2004, n. 2422, in cui si è affermato che “Ai fini della concreta risarcibilità dei danni subiti dal creditore – che pure sia in astratto sussistente, configurandosi i medesimi ai sensi dell’art. 1223 c.c. come conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento – l’art. 1227 secondo comma c.c., nel porre la condizione della inevitabilità, da parte del creditore, con l’uso della ordinaria diligenza, non si limita a richiedere a quest’ultimo la mera inerzia di fronte all’altrui comportamento dannoso, oppure la semplice astensione dall’aggravare, con fatto proprio, il pregiudizio già verificatosi, ma, secondo i principi generali di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c., gli impone altresì una condotta attiva o positiva diretta a limitare le conseguenze dannose di tale comportamento, intendendosi comprese nell’ambito della ordinaria diligenza, all’uopo richiesta, soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici.”
[14] Cass., 29 settembre 1999, n. 10763, in La Tribuna, Archivio Civile, 2000, 6, p. 791, che ha affermato “il dovere di correttezza imposto al danneggiato dalla norma di cui all’art. 1227 c.c. comporta che non sono risarcibili i soli danni che sarebbero stati evitabili con l’ordinaria diligenza. Sono escluse dall’ambito di detta diligenza, peraltro, le attività che comportino, per il creditore-danneggiato, notevoli rischi o spese”.
[15] Cass., 14 maggio 1998, n. 4854.
[16] Cafaggi F., Profili di relazionalità della colpa, Padova, 1996, p. 404.
[17] Franzoni M., Il danno al patrimonio, in Il diritto privato oggi, a cura di Cendon P., Milano, 1996, p. 72.
[18] Salvi C., La responsabilità civile, in Trattato di diritto privato, a cura di Iudica-Zatti, Milano, 1998, p.301.
[19] Monateri P.G., La responsabilità civile , in Tratt., dir. civ, diretto da Sacco R., Torino, 1998, pp. 40-48; Id., Voce Responsabilità civile , in Dig., IV, Disc. priv., Sez. Civ ., 1997, XVII, 1-12.
[20] Monateri, op. cit.
[21] Si tratta di Gabrielli A., La condotta del danneggiato , in La responsabilità civile , IX, a cura di Cendon P., Torino, 1998, p. 514.
[22] Stanzione P., Manuale di Diritto Privato , Torino, 2009, p. 770 e ss.