Nota a Cass. pen., sez. III, 7 settembre 2012 n. 34236
a cura dell’Avv. Domenico Di Leo
Non può essere esclusa l’applicazione della circostanza della minore gravità di cui all’art. 609 bis, ultimo comma, c.p. in ipotesi di atti sessuali compiuti sul minore da un genitore o da persona che ne abbia l’affidamento laddove sia stata posta in essere una sola condotta oggettivamente poco invasiva in danno della minore vittima del reato. |
Nella sentenza indicata in epigrafe, la S.C. affronta il delicato tema dell’applicazione della circostanza attenuante prevista nell’art. 609 – bis u.c. c.p., nell’ipotesi in cui gli atti sessuali compiuti su persona minore degli anni dieci siano connotati da una gravità giudicata ‘minore’, reato previsto dall’art.609-quater in relazione agli artt.609-bis e 609-ter, ultimo comma, c.p.
Di fronte al mancato riconoscimento della minore gravità dei fatti a lui ascritti, il genitore della minore ha presentato ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo. La S.C. ha accolto solo uno dei quattro motivi, quello cioè attinente al mancato riconoscimento della circostanza attenuante della minore gravità dei fatti di violenza sessuale su minore e ha rinviato ad altra sezione della Corte di appello la decisione, in riferimento ai principi indicati e con eventuale adeguamento del regime sanzionatorio irrogato nella sentenza impugnata.
La decisione in commento si presenta interessante sotto un duplice profilo: il primo, quello relativo alla disciplina della violenza sessuale, a seguito della riforma del 1996 e s.i.m.; il secondo, attinente alla capacità di testimoniare del minore, nei casi particolarissimi come quello oggetto della sentenza epigrafata, in cui il minore è vittima del reato e unico testimone del fatto medesimo. Tra i due interessantissimi profili, si è scelto di tentare un approfondimento del secondo aspetto.
Il fenomeno della violenza sessuale su persone minori[1] ha assunto dimensioni preoccupanti, negli ultimi anni: il legislatore è intervenuto con la legge 66/1996, recante ‘Norme contro la violenza sessuale’, introducendo nel nostro ordinamento giuridico le ‘nuove’ fattispecie contenute negli artt. da 609 bis a 609 decies, e collocando i delitti contro la libertà sessuale nel TITOLO XII, CAPO III, SEZIONE II, dedicato ai delitti contro la libertà personale, anziché mantenere l’originaria collocazione all’interno del CAPO I del TITOLO IX, dedicato ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume. L’importanza della diversa collocazione va colta nella mutata sensibilità del legislatore, in uno all’evoluzione culturale e storica avvenuta progressivamente nel corso della seconda metà del secolo scorso, nei confronti di una sfera intima della libertà della persona la cui offesa non è più considerata un affare di Stato – disciplinata come lo era fino al 1996, nel senso di un’offesa al senso del pudore, di conio statuale – bensì una vicenda personalissima, attinente alla libertà di autodeterminazione del soggetto, la cui offesa viene duramente repressa in quanto lesiva della personale libertà di scelta. La gravità dei fenomeni di violenza sessuale in danno dei minori ha indotto il legislatore del 1996 a intervenire da un triplice punto di vista: a) dedicando espressamente alcune disposizioni al presidio dell’integrità fisica e morale delle piccole vittime; b) prevedendo la procedibilità d’ufficio per i reati a danno dei minori; c) prevedendo aggravanti specifiche per il fatto commesso in danno di minori e, in via residuale, prevedendo l’intervento punitivo in tutti i casi di aggressione dell’integrità dei minori, pur in difetto della violenza o della minaccia.
L’impianto normativo del 1996 si è mostrato deficitario nel corso degli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore, rendendosi così necessari alcuni interventi di calibratura della normativa di settore, interventi che hanno riguardato la procedibilità d’ufficio e l’applicazione delle sanzioni accessorie[2], il divieto di sospensione condizionale della pena[3], l’esclusione dall’indulto dei reati di violenza sessuale egli atti sessuali con minorenne e la corruzione di minorenne[4].
Nelle brevi note che seguiranno, si cercherà di illustrare il problema processuale più delicato che si pone nei processi nei quali i soggetti passivi dell’abuso sessuale sono i minori: in tali processi, occorre acquisire con attenzione e scrupolo particolari le dichiarazioni dei minori affinchè le medesime mantengano inalterata la loro genuinità e perché, successivamente, si possa procedere alla verifica dell’attendibilità delle stesse ai fini probatori, tenendo conto che, in casi simili, l’unica fonte di prova a carico è rappresentata dalle dichiarazioni delle persone offese.
Nella sentenza in commento, il giudizio di condanna espresso a carico del genitore della minore è stato fondato sulla ritenuta attendibilità del racconto della medesima, ritenuto coerente sia in sede di consulenza – espletata al fine di verificare la capacità della minore a rendere le dichiarazioni – che dinanzi al P.M. e in sede di incidente probatorio, parlando di un unico episodio a sfondo sessuale. Secondo il Tribunale, il racconto della minore ha trovato riscontri in altri elementi esterni. Emerge così in tutta la sua problematicità la questione relativa all’utilizzabilità e verifica dei criteri in base ai quali va valutata l’attendibilità delle dichiarazioni ‘de relato’ rese dai minori vittime di abusi; questo implica la necessità di individuare correttamente i sintomi dell’abuso sessuale su persona minore d’età e l’esigenza di garantire la genuinità della prova dichiarativa, da assumere con modalità processuali idonee a consentire sempre una rilettura difensiva in chiave critica delle prove, in ossequio alla presunzione di non colpevolezza che caratterizza il diritto penale.
Nel TITOLO II, CAPO I del LIBRO III , dedicato alle prove, è contenuta la vigente disciplina della testimonianza. Secondo l’impianto normativo, la testimonianza è un mezzo di prova, perfettamente in linea con il sistema processuale italiano improntato all’oralità, immediatezza e concentrazione, e perciò essa rappresenta la prova più importante. Ancor più grande è l’importanza della testimonianza nei processi di abuso sessuale su minori, nei quali l’unica fonte di accusa nei confronti dei presunti autori è rappresentata proprio dalle dichiarazioni delle vittime. In questi processi, occorre procedere ad una ricostruzione oggettiva e precisa dei fatti narrati per valutare se essi possono essere considerati sintomatici di azioni sospette, lesive della moralità e della sfera sessuale del minore.
L’acquisizione delle dichiarazioni de relato dei minori richiede il necessario apporto degli esperti esterni – sia all’organo inquirente che all’organo giudicante – perché in tal modo si può addivenire ad un risultato processuale utile per tutti: avvalendosi del sapere scientifico dei consulenti per l’infanzia, degli psicologi infantili e di altre figure esperte nella materia della pedagogia e dell’infanzia, i P.M., prima, e i giudici, poi, attraverso il confronto dialettico con la difesa, nel pieno rispetto della logica accusatoria e nel rispetto delle rispettive azioni antagoniste, ciascuna finalisticamente orientate al raggiungimento del risultato utile, possono giungere ad un risultato il più possibile vicino alla verità obiettiva dei fatti e non solo alla verità processuale. Le difficoltà di utilizzare le dichiarazioni provenienti dai minori derivano dal fatto che essi hanno una personalità in fieri e, perciò, sono soggetti deboli in quanto non hanno sviluppato una solida capacità cognitiva la qual cosa li rende facilmente esposti alle suggestioni che giungono loro dal mondo esterno: la facilità di essere influenzati rappresenta un punto debole della catena ricostruttiva dei fatti di violenza a danno dei minori tanto da rappresentare un vizio della ricostruzione dei fatti di cui i minori sono vittime[5].
Il codice di procedura penale predispone alcuni strumenti normativi volti alla duplice funzione di garantire il minore e di assicurare la genuinità delle dichiarazioni rese da questi.
Nel primo senso, vanno le norme contenute negli artt. 471 co.1 e nell’art. 472 co. 3 bis e 4, le quali, essendo finalizzate ad evitare il contatto fra il minore e gli ambienti giudiziari, rispettivamente vietano l’ammissione in aula dei minori di anni 18 e danno al giudice la facoltà di disporre l’esame dei minorenni a porte chiuse, salvo l’obbligo di procedere a porte chiuse nei dibattimenti in tema di violenza sessuale, quando la parte offesa è minorenne[6].
Nella seconda direzione, si muovono quelle norme che mirano a salvaguardare la genuinità delle dichiarazioni rese dal minore – testimone da influenze esterne, impedendo alle altri parti del processo di rivolgergli domande nocive, tanto per lui quanto per la sincerità della testimonianza. Un esempio è rappresentato dall’art. 190 bis c.p.p., quando prevede che l’esame del testimone minore degli anni sedici per i reati offensivi della sua libertà di autodeterminazione in materia sessuale è ammesso allorchè riguarda fatti o circostanze diverse da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze. O ancora, l’art. 498 co. 4 e ss, prevede che il presidente del collegio conduca l’esame testimoniale del minore con l’ausilio di un familiare del minore o di un esperto in psicologia infantile, a meno che non disponga che l’esame del minore avvenga secondo le forme consuete, se da ciò non deriva pregiudizio per la serenità del minore medesimo. I commi successivi autorizzano il giudice a predisporre utili accorgimenti – come avviene nel caso di incidente probatorio con minori, ex art. 398 co. 5 bis c.p.p. cui si rinvia[7] – su richiesta del minore o del suo difensore, come l’utilizzo del vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico, proprio per impedire che il minore, di fronte all’accusato, possa essere inibito a rendere per la prima volta o a confermare le dichiarazioni accusatorie già rese in precedenza. Nella medesima direzione, si pone l’art. 392 co. 1 bis c.p.p., che prevede la possibilità di chiedere al gip di procedere con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minore degli anni sedici, anche al di fuori delle ipotesi contemplate nel primo comma, quando si tratti di procedimenti per reati in materia di violenza sessuale o altri delitti lesivi della sfera sessuale del minore. L’attività giudiziaria, sia nella fase investigativa che in quella decisionale, non può che muoversi seguendo le indicazioni del legislatore, tutelando il minore e salvaguardando l’acquisizione, la raccolta e la valutazione del materiale probatorio costituito dalle sue dichiarazioni. Nel corso degli anni, la produzione della giurisprudenza di legittimità ha individuato alcuni criteri di sicuro riferimento per l’operatore del diritto che si trova a dover acquisire materiale probatorio di indubbia delicatezza ed evanescenza processuale[8].
Il primo snodo sul quale la giurisprudenza di legittimità ha posto alcuni punti fermi è rappresentato dal rapporto fra le indagini sui reati sessuali a danno dei minori e il contributo del sapere scientifico esterno. Il sistema processuale italiano parte dal presupposto che il testimone sia capace: tale presunzione[9] normativa è posta dall’art. 196 c.p.p. Tuttavia, è possibile che il soggetto chiamato a testimoniare non sia capace dal punto di vista fisico o mentale: in tali ipotesi, il codice consente al giudice di ordinare la disposizione degli accertamenti opportuni, attraverso l’utilizzo degli strumenti di legge, per valutare le dichiarazioni del testimone.
Nel caso dei minori, non è lecito parlare di incapacità a rendere testimonianza tout court: infatti, cosa diversa dall’incapacità a testimoniare è la difficoltà a rendere la testimonianza per motivi non attinenti a cause patologiche ma a uno sviluppo evolutivo e cognitivo ancora in divenire[10]. Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, quando il minore sia incapace a rendere testimonianza per motivi di origine non patologica, non deriva automaticamente l’inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese dal minore, se le medesime siano sorrette da altri elementi[11]. Inoltre, la condizione di inferiorità psichica del minore al momento del fatto prescinde dall’esistenza di condizioni patologiche in quanto quella condizione di inferiorità è sufficientemente integrata dal fatto che il soggetto passivo, a causa dell’incompleto sviluppo psicofisico, si trovi naturalmente in condizioni intellettive e spirituali di minore resistenza all’altrui opera di coazione psicologica o di suggestioni[12]. Secondo l’orientamento della S.C., l’accertamento della condizione di inferiorità del minore abusato, al di fuori di stati patologici medicalmente rilevanti, può essere svolto dal giudice direttamente senza la mediazione di alcuna analisi tecnico – scientifica di tipo psicologico, in quanto trattasi di accertamento relativo a una condizione personale del minore, che può dipendere da una situazione ambientale o da fattori traumatici, la cui intensità incide sulla capacità di autodeterminazione e di resistenza del minore all’altrui voglia[13]. Nei processi in tema di violenza sessuale su minori, sovente è contestato il ricorso alla consulenza tecnica da parte del P.M. disposta ex art. 359 c.p.p., sul presupposto che si tratterebbe di accertamenti non ripetibili per i quali, avendo ad oggetto uno stato personale soggetto a modificazioni nel tempo, occorrerebbe procedere ai sensi dell’art. 360 c.p.p. La S.C. ha stabilito che la consulenza sullo stato di psichico del minore, configurandosi come una indagine sulla condizione costante e non transeunte della persona, non riveste i caratteri dell’atto irripetibile ai sensi dell’art. 360 c.p.p. perché non si versa in una situazione soggetta a modificazione[14].
Connesso al problema della testimonianza è quello relativo all’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal minore vittima di abuso sessuale al consulente tecnico del P.M. Lo svolgimento dell’incarico affidato al consulente in questo tipo di reati, comporta che egli possa ascoltare, ai fini dello svolgimento dell’incarico, le persone offese, la cui dichiarazione è mediata dal filtro del sapere scientifico esterno, svolgendosi l’ascolto secondo le modalità protette nei riguardi del minore. Tuttavia, gli elementi raccolti ascoltando l’imputato, la persona offesa o altre persone non possono essere utilizzati se non per lo svolgimento dell’incarico peritale in quanto opera il divieto di utilizzazione contenuto nel comma 3 dell’art. 228 c.p.p.[15]. La giurisprudenza di legittimità offre una soluzione diametralmente opposta nel caso in cui e predette dichiarazioni vengono utilizzate in sede di incidente probatorio: ad esempio, in sede di giudizio a prova contratta, quale è il giudizio abbreviato, non rileva né l’inutilizzabilità fisiologica della prova, in quanto in tal caso il vizio – sanzione dell’atto probatorio è neutralizzato dalla scelta negoziale delle parti, di tipo abdicativo, né le ipotesi di nullità relativa normativamente stabilite per la fase dibattimentale ma rilevano le ipotesi di inutilizzabilità patologica, riguardante gli atti di prova assunti contra legem, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto dalla legge, in ogni fase del procedimento[16]. Partendo da tale arresto, è oramai ius receptum nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione secondo cui tra i mezzi di prova, che il P.M. può acquisire al di fuori del dibattimento e può inserire nel suo fascicolo tra gli atti utilizzabili ex art. 438 c.p.p., rientrano anche i documenti che rappresentano, con qualsiasi mezzo, fatti, persone o cose relative al fatto di reato (cfr. art. 234 c.p.p.). La giurisprudenza della Cassazione afferma già da tempo che il giudizio abbreviato rappresenta (secondo parte della dottrina la negazione dei principi del processo accusatorio e, in ogni caso) un negozio processuale stipulato dall’imputato il cui contenuto tipico consta della riduzione premiale della pena e l’abdicazione al suo diritto di assumere la prova secondo i canoni accusatori, con la conseguente accettazione del valore probatorio degli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari e che, nell’ordinario processo accusatorio, sono privi di quel valore[17]. Nei limiti appena accennati, secondo la citata giurisprudenza, è possibile utilizzare la relazione, escludendone la qualificazione come testimonianza de relato, nella misura in cui riferisce le dichiarazioni ricevute da altro soggetto[18].
Il secondo snodo su cui la S.C. si è soffermata attiene all’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal minore abusato a soggetti terzi. L’art. 191 c.p.p. dichiara inutilizzabili le prove purchè siano prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, la cui rilevabilità può avvenir e in ogni stato e grado del procedimento, anche d’ufficio (cfr. art. 606 co. 1, lett. c), c.p.p.). Stando così le cose, anche le dichiarazioni rese dal minore vittima di abuso sessuale non si sottraggono alla disciplina generale che stabilisce l’obbligo per il giudice di procedere all’assunzione del c.d. teste di riferimento, qualora ne sia fatta richiesta da una delle parti, salva la facoltà del giudice di agire d’ufficio ex art. 195 c.p.p.; prevedendosi la sanzione dell’inutilizzabilità della testimonianza indiretta, salvo che l’esame di queste risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità. Sull’utilizzabilità della testimonianza indiretta, la giurisprudenza della S.C. ha assunto tradizionalmente un atteggiamento restrittivo circa la possibilità di avvalersene, degradando la testimonianza indiretta del minore al rango di semplice indizio e, dunque, ricadente sotto la disciplina dell’art. 192 co. 2 c.p.p. In tale prospettiva, si segnala la pronuncia in base alla quale, per esempio, le dichiarazioni accusatorie provenienti dal minore e acquisite indirettamente, sono utilizzabili senza che sia necessario escutere il minore, salva la verifica di quelle alla stregua di semplice indizio[19]; o ancora, quella che ritiene manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di una simile soluzione per presunta violazione dell’art 111 Cost.[20];o ancora, si segnala la pronuncia che taccia di inutilizzabilità la testimonianza indiretta nel caso di omessa assunzione del teste indiretto, quand’anche si tratti di persona minore, nonostante la richiesta difensiva, salvo il caso particolare in cui si tratti di dichiarazioni rese dal minore ai propri genitori e che l’equilibrio psichico del minore sia talmente precario da tradursi in una situazione di infermità idonea a consentire il recupero indiretto della testimonianza dei genitori. Al di fuori di tale ipotesi, la S.C. ha adottato una linea esegetica meno rigorosa della norma contenuta nell’art. 195 c.p.p., tenendo conto della particolarità dei rapporti fra genitori e figli minori per l’inevitabile coinvolgimento emotivo di fronti a tipologie di illeciti come quelli in esame. Infatti, mentre in una prima fase, la S.C. riteneva che le dichiarazioni dei genitori che avevano raccolto le confidenze dei figli minori fossero da considerare come riscontri veri e propri nel momento in cui integrano gli estremi di una qualificata deposizione de relato quando riferiscono informazioni rese in un contesto di normalità allo scopo di soddisfare un naturale bisogno di difesa e protezione del minore stesso[21], successivamente la S.C. medesima ha ritenuto che quando il teste diretto, chiamato, non abbia risposto alle domande, non sussiste più alcuna limitazione al valore probatorio delle testimonianze indirette che devono essere configurate come rappresentazione dello stesso fatto che si assume di voler provare, sia pure soggettivamente mediata attraverso il testimone indiretto e non come prova logica o indizio[22]; sino a giungere a ritenere sufficiente la mera registrazione delle dichiarazioni rese dal minore, anche senza l’audizione diretta di questi, qualora quest’ultima possa turbarne l’equilibrio psichico[23].
Ultimo punto cruciale sottoposto all’attenzione della giurisprudenza di legittimità è quello relativo all’individuazione dei criteri che possano servire all’interprete per valutare le dichiarazioni del minore, quale persona offesa nei reati di abuso sessuale. Occorre prendere le mosse dalla norma contenuta nell’art. 192 c.p.p. e, prescindendo per i limiti imposti dalla trattazione dalle notevoli implicazioni di ordine epistemologico e gnoseologico attinenti al tema della prova, si osserva che la corretta valutazione della prova testimoniale del minore può condurre al risultato utile, quel risultato il più possibile vicino alla verità storica piuttosto che alla verità processuale.
Già anteriormente alla novella del 1996, si era affermato che le dichiarazioni rese dalla vittima del reato potevano essere assunte quali fonti di convincimento al pari dei ogni altra prova senza la necessità di riscontri esterni, non essendo applicabile al caso il canone ermeneutico dell’art. 192 c.p.p., salva la necessità per il giudice di compiere un esame sull’attendibilità intrinseca del minore dichiarante, esame particolarmente rigoroso in assenza di elementi obiettivi emergenti dagli atti a confronto dell’assunto con la persona offesa. I canoni così individuati erano il controllo sulla credibilità soggettiva e la verifica della coerenza interna del racconto[24]. Allora come oggi, questo equivale ad riconoscere che le dichiarazioni del minore, proprio perché provenienti da un soggetto che riveste la qualità di persona offesa dal reato, devono essere considerate simili a quelle rese dal teste che rivesta tale qualità e, proprio in quanto tali, devono essere soggette ad un rigoroso vaglio di attendibilità[25]. Ecco allora che l’attenzione dell’interprete, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, si è spostata dall’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal minore alla verifica dell’attendibilità di esse, tenuto conto che il teste minore è un soggetto in fase di crescita evolutiva, sia sul piano cognitivo che intellettivo. La giurisprudenza di legittimità ha individuato alcuni criteri utili per valutare le dichiarazioni rese dai minori, affidando la gestione ottimale dei criteri medesimi al prudente apprezzamento del giudice. In questa direzione, la valutazione delle dichiarazioni del minore, quale parte offesa nella materia dei reati sessuali, deve coinvolgere sia l’esame dell’attitudine psicofisica del teste ad esporre la vicenda in modo utile ed esatto che l’esame del suo atteggiamento psicologico nei riguardi delle situazioni interne ed esterne. La giurisprudenza ritiene proficuo l’utilizzo dell’indagine psicologica, se e nei limiti in cui essa sia svolta nel modo migliore, evitando ogni trauma ulteriore che non sia strettamente ed assolutamente indispensabile, la quale indagine vada a discernere due aspetti fondamentali e cioè l’attitudine del minore a testimoniare, dal punto di vista e intellettivo e affettivo, e la sua credibilità.
Sotto il primo profilo indicato, riveste primaria importanza l’esame volto ad accertare la capacità del minore di recepire le informazioni, raccordarle con altre, ricordarle e di esprimerle in una visione d’insieme, da considerare in relazione all’età, alle condizioni emozionali e alla natura e qualità dei rapporti familiari. Dal punto di vista della credibilità – aspetto da tener distinto da quello relativo all’attendibilità della prova, che rientra fra i compiti esclusivi del giudice – occorre esaminare il modo in cui la vittima ha vissuto e rielaborato la vicenda in modo da vagliarne la sincerità, il travisamento dei fatti e la menzogna[26]. Laddove l’esame condotto sotto i due profili abbia dato esito positivo in ordine alla valutazione della testimonianza del minore, essa può da sola integrare la prova del fatto narrato, dovendo escludere la necessità del concorso di ulteriori elementi utili a rafforzare il convincimento del giudice. Dal sommario e parziale esame sin qui condotto circa le citate pronunce della S.C., sembra possa scorgersi una linea esegetica secondo la quale emerge l’esigenza di effettuare il procedimento valutativo del fatto narrato dal minore in riferimento al modo di questi di rapportarsi alla sfera sessuale, fermo restando che la valutazione è riservata ai giudici del merito, in quanto presuppone una percezione ed un approccio diretti. Infatti, la credibilità del minore va esaminata in senso onnicomprensivo, valutando la posizione psicologica del dichiarante rispetto al contesto delle situazioni interne ed esterne, la sua attitudine a testimoniare, le sue condizioni emozionali in riferimento alle relazioni con il mondo esterno e alle dinamiche familiari, nonché i processi di rielaborazione cognitiva delle vicende vissute, processi che sono tanto più limitati quanto più il minore è in tenera età.
Concludendo, l’esame in merito alle dichiarazioni dei minori vittime di abusi sessuali presenta un momento topico del procedimento penale, sia per l’accusa che per la difesa, in vista del risultato ‘utile’, nel senso già esposto nella presente nota. Dalla giurisprudenza della S.C., emergono diverse indicazioni di tipo procedimentale che costituiscono di sicuro un catalogo, destinato ad arricchirsi mediante l’ausilio degli esperti esterni: 1. La compatibilità e l’attendibilità delle dichiarazioni del minore spettano esclusivamente al giudice; 2. Il perito e/o il consulente tecnico devono soltanto precisare quale sia lo sviluppo psichico del minore, le sue capacità di comprensione dei fatti e di rievocarli in modo utile, indicando quali siano le sue condizioni emozionali, indagare le dinamiche parentali e riferire come ha percepito e vissuto gli episodi di cui è testimone; 3. La risposta allo ‘stress’ è aspecifica, per cui le stesse reazioni emotive e comportamentali possono derivare dall’abuso sessuale, dal conflitto genitoriale, da entrambi i fattori o per altre cause; 4. È scientificamente dimostrato che un minore, quando è incoraggiato o sollecitato a raccontare, da parte di persone che hanno una influenza su di lui, tende a fornire la risposta compiacente che l’interrogante si attende e che dipende, quasi sempre, dalla formulazione delle domande; 5. Occorre tener presente la differenza fra gli adulti che ‘ raccontano ricordando’ mentre i minori ‘ ricordano raccontando’; 6. Solo le primissime dichiarazioni spontanee sono quelle maggiormente attendibili perché genuine e non contaminate da interventi esterni che alterano la memoria dell’evento; 7. È vietato chiedere all’esperto di valutare la compatibilità e l’attendibilità del minore.
Attraverso il corretto utilizzo di questi criteri potrà seguirsi un percorso di valutazione dell’evento che possa condurre ad accertare un presunto abuso sessuale sul minore, ponendo l’operatore nella migliore condizione possibile per comprendere quei fattori che possono essere determinanti per la valutazione e l’individuazione dell’abuso stesso. Altrimenti, si corre il rischio di incappare in clamorosi errori che possono portare a prosciogliere indagati colpevoli o, ancora peggio, a condannare indagati innocenti.
A cura dell’avv. Domenico Di Leo – RIPRODUZIONE RISERVATA
NORMATIVA DI RIFERIMENTO
Artt. 609 bis – 609 decies c.p.;
Legge 6 febbraio 2006 n. 38.
Legge 1° agosto 2003 n. 207;
Legge 31 luglio 2006 n.241;
Artt. 190 bis, 191, 192, 195, 196, 220, 228, 234, 351, 359, 360, 362, 392, 398, 422, 438, 471, 472, 498, 606, c.p.p.;
Cost. 111;
Inoltre, si vedano i riferimenti nelle note a piè di pagina.
DOTTRINA, BIBLIOGRAFIA E RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI
Si vedano i riferimenti indicati di volta in volta nelle note a piè di pagina.
TESTO DELLA SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE – SENTENZA 7 settembre 2012, n.34236 – Pres. Squassoni – est. Marini
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 2/11/2010 il Tribunale di Palermo ha condannato il sig. A. , previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di sei anni di reclusione, oltre pene accessorie, nonché al risarcimento dei danni in favore della parte civile, perché colpevole del reato previsto dall’art.609-quater in relazione agli artt.609-bis e 609-ter, ultimo comma, cod. pen., anteriormente al mese di (OMISSIS) in danno della figlia di età inferiore a dieci anni, essendo nata il (OMISSIS).
Il Tribunale ha valorizzato gli esiti della consulenza in ordine alla capacità della minore a rendere dichiarazioni e la coerenza del racconto reso dalla stessa sia davanti al Pubblico ministero sia in sede di incidente probatorio, dove ha parlato di un unico episodio a sfondo sessuale, dato che il Tribunale ha ritenuto più attendibile rispetto ad altre dichiarazioni rese in corso di indagini da cui emergeva una pluralità di episodi. A parere del Tribunale, le attendibili dichiarazioni della minore, che si sono rivelate precise anche con riferimento alle caratteristiche dell’organo genitale maschile, hanno trovato conferma in altri elementi, quali le dichiarazioni della madre; un foglio manoscritto con frasi redatte di pugno dell’indagato con cui chiedeva perdono alla figlia; le inverosimili spiegazioni che l’imputato ha fornito di tali frasi. A fronte di questi elementi il Tribunale non ha ravvisato né indicatori di conflitto tra i genitori né ragioni di astio della madre della minore verso il coniuge che possano gettare ombre sul racconto, ritenendo sul punto non significative le dichiarazioni della sorella della madre stessa.
2. Con la sentenza resa in data 4/7/2011 la Corte di appello di Palermo ha respinto i motivi di appello alla luce delle motivazioni esposte alle pagine 3 e ss della decisione. In particolare, dopo avere rigettato la richiesta di rinnovazione del dibattimento per effettuare una perizia sulla capacità della minore a rendere testimonianza (perizia ritenuta inutile dopo otto anni dai fatti), la corte territoriale ha escluso che la minore sia stata vittima di un falso ricordo indotto dalle parole della madre e dalle moltissime domande che più persone le hanno rivolto sui fatti prima che ella fosse sentita in sede d’indagine ed ha escluso che nel racconto sussistano contraddizioni tali da renderlo non credibile, a partire dall’ordine di non fare parola dell’accaduto che il padre avrebbe dato alla minore subito dopo gli atti sessuali. Ha, quindi escluso, che le frasi manoscritte dall’imputato possano avere una lettura diversa da quella che ne ha dato il Tribunale. Così confermato il giudizio di responsabilità, la Corte di appello ha respinto sia la richiesta applicazione della previsione del comma 3 dell’art.609-bis cod. pen. sia il richiesto giudizio di prevalenza della circostanze attenuanti generiche rispetto alla aggravanti contestate. La Corte di appello ha quindi confermato le statuizioni civili della prima decisione.
3. Avverso tale decisione il sig. A. propone ricorso tramite il Difensore, in sintesi lamentando:
a) Errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606, lett. b) cod.proc.pen. per avere i giudici di appello fatto cattivo uso degli artt. 196, comma 2, e 603 cod. proc. pen. e omesso di assumere una prova decisiva quale la perizia sulla capacità a testimoniare della minore e la di lei suggestionabilità, perizia erroneamente non effettuata dal Tribunale nonostante specifica istanza difensiva (ordinanza 27/4/2010) e nonostante la stessa sentenza di appello riconosca l’esistenza di posizioni molto diverse tra loro esposte nelle consulente di parte pubblica e privata;
b) Errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606, lett. b) cod.proc.pen. e vizio motivazionale ai sensi dell’art. 606,lett. e) cod.proc.pen. con riferimento alla mancata applicazione del comma 3 dell’art.609-bis cod. pen., avendo i giudici di appello omesso di considerare che si è in presenza di un unico episodio, che non vi sono state condotte invasive delle zone sessuali della minore, che secondo la prima sentenza l’impatto traumatico va definito modesto (pag.5) e la minore inizialmente non percepì alcuna offensività delle condotte (pag.13), che nessuna attenzione è stata dedicata agli aspetti soggettivi della condotta dell’indagato;
c) Errata applicazione di legge ai sensi dell’art.606, lett. b) cod.proc.pen. e vizio motivazionale ai sensi dell’art.606,lett.e) cod.proc.pen. in relazione al mancato giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche;
d) Errata applicazione di legge ai sensi dell’art.606, lett. b) cod.proc.pen. e vizio motivazionale ai sensi dell’art.606,lett.e) cod.proc.pen. per avere la Corte di appello omesso di esaminare i motivi di ricorso relativi al giudizio di responsabilità, trascurato il contenuto della consulenza di parte, evitato di considerare le censure relative alle modalità di assunzione delle dichiarazioni della minore e al pericolo che esse fossero frutto di suggestione e di falsa memoria (profilo affrontato in modo del tutto carente a pag.19 della motivazione).
4. Con atto depositato in data odierna la parte civile ha inteso confermare la costituzione in giudizio e sollecitato la dichiarazione di inammissibilità del ricorso proposto dall’imputato.
Considerato in diritto
1. In considerazione del contenuto dei motivi di ricorso la Corte deve osservare in via preliminare che il giudizio di legittimità rappresenta lo strumento di controllo della corretta applicazione della legge sostanziale e processuale e non può costituire un terzo grado volto alla ricostruzione dei fatti oggetto di contestazione. Si tratta di principio affermato in modo condivisibile dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, n.2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini (rv 203767) e quindi dalla decisione con cui le Sezioni Unite hanno definito i concetti di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (n. 47289 del 2003, Petrella, rv 226074).
Una dimostrazione della sostanziale differenza esistente tra i due giudizi può essere ricavata, tra l’altro, dalla motivazione della sentenza n.26 del 2007 della Corte costituzionale, che (punto 6.1), argomentando in ordine alla modifica introdotta dalla legge n. 46 del 2006 al potere di impugnazione del pubblico ministero, afferma che la esclusione della possibilità di ricorso in sede di appello costituisce una limitazione effettiva degli spazi di controllo sulle decisioni giudiziali in quanto il giudizio avanti la Corte di cassazione è ‘rimedio (che) non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito (invece) dall’appello’.
Se, dunque, il controllo demandato alla Corte di cassazione non ha ‘la pienezza del riesame di merito’ che è propria del controllo operato dalle corti di appello, ben si comprende come il nuovo testo dell’art.606, lett. e) c.p.p. non autorizzi affatto il ricorso a fondare la richiesta di annullamento della sentenza di merito chiedendo al giudice di legittimità di ripercorrere l’intera ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio.
Ancora successivamente alla modifica della lett. e) dell’art.606 c.p.p. apportata dall’art.8, comma primo, lett. b) della legge 20 febbraio 2006, n.46, l’impostazione qui ricordata è stata ribadita da plurime decisioni di legittimità, a partire dalle sentenze della Seconda Sezione Penale, n.23419 del 23 maggio-14 giugno 2007, PG in proc. Vignaroli (rv 236893) e della Prima Sezione Penale, n. 24667 del 15-21 giugno 2007, Musumeci (rv 237207). Appare, dunque, del tutto convincente la costante affermazione giurisprudenziale secondo cui è ‘preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti’ (fra tutte: Sez.6, n.22256 del 26 aprile-23 giugno 2006, Bosco, rv 234148).
2. L’applicazione di tali principi al caso in esame impone di ritenere infondati i motivi che hanno ad oggetto il giudizio sulla penale responsabilità dell’imputato.
Deve, infatti, osservarsi che non si ravvisa da parte della Corte alcun vizio logico nella motivazione della corte territoriale che ha ancorato la ricostruzione dei fatti ad alcuni elementi oggettivamente significativi, quali l’immediatezza del racconto della persona offesa, la condotta della madre, che esprime le proprie preoccupazioni ai familiari ma si astiene di denunciare i fatti, l’esistenza del foglio manoscritto ad opera dell’imputato. A tale ultimo proposito, soprattutto ove si consideri che l’imputato si rivolge esclusivamente alla figlia e non include il figlio fra i destinatari delle proprie scuse, va escluso che la lettura che i giudici di merito hanno dato delle frasi scritte dall’imputato si presti a censure sul piano della coerenza del ragionamento e della logica interpretativa. Sulla base di tali considerazioni il quarto motivo di ricorso va rigettato.
3. In tale contesto fattuale e probatorio, non si ravvisa da parte di questa Corte alcun vizio comportante l’annullamento della decisione a seguito della mancata rinnovazione dibattimentale che era stata richiesta al fine di effettuare una consulenza sulla capacità a testimoniare della minore. I giudici di appello hanno offerto una motivazione chiara e non illogica di tale decisione, desumendo non solo dal passaggio di oltre otto anni dai fatti ma anche dal contenuto e dalle caratteristiche delle dichiarazioni rese dalla minore la inesistenza di elementi che facciano dubitare della di lei capacità di ricordare e riferire i fatti.
4. Merita, invece, accoglimento il secondo motivo di ricorso. La Corte ritiene debba escludersi la legittimità e correttezza di un approccio interpretativo agli artt.609-bis e seguenti cod. pen. che di fatto escluda l’applicabilità della circostanza della minore gravità in ipotesi di atti sessuali compiuti sul minore da un genitore o da persona che ne abbia l’affidamento. Pur valutando con grande attenzione lo speciale impatto emotivo e psicologico che possonoprovocare le condotte poste in essere dal genitore o da persona cui la persona minore è fortemente legata, occorre avere riguardo alle concrete modalità dei fatti, alla loro durata nel tempo, alla loro invasività diretta della sfera sessuale, al coinvolgimento emotivo ed emozionale che esse richiedono o provocano, alle conseguenze che i fatti hanno provocato sullo sviluppo psicofisico della vittima.
5. Così fissati i parametri di riferimento, non appare infondato il motivo di ricorso allorché evidenzia come la sentenza del Tribunale (pagg. 4 e 5) abbia riconosciuto che i fatti furono oggettivamente poco invasivi ed ebbero un impatto traumatico modesto, tanto che la minore non percepì inizialmente la loro offensività; a questo deve aggiungersi la constatazione che le condotte contestate si limitarono a un unico episodio. Muovendo da queste premesse di fatto, la Corte ritiene che la motivazione con cui la corte territoriale (pag.22) respinge la richiesta di applicazione dell’ultima parte dell’art.609-bis cod. pen. risulti viziata e meritevole di annullamento; essa, infatti, si limita a giustificare la decisione mediate l’affermazione che l’avvenuta masturbazione del padre ‘ha sicuramente compresso in modo non indifferente la libertà sessuale’ della minore, così giustificandosi anche il mancato giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche. A fronte della pluralità di elementi che il giudice deve considerare e ponderare al fine di valutare l’applicabilità del terzo comma dell’art.609-bis cod. pen., il richiamo al solo elemento della compressione della libertà sessuale e la mancata graduazione di tale compressione nell’ambito del più ampio contesto esistenziale della minore, come sopra specificato, appare in contrasto con il sistema sanzionatorio e deve essere censurato.
6. La sentenza impugnata dev’essere pertanto annullata sul punto, con rinvio al giudice di merito affinché, sulla base dei principi affermati con la presente decisione,provveda a nuovo giudizio in ordine alla applicabilità dell’invocata attenuante e, ove necessario, alla determinazione del conseguente regime sanzionatorio.
7. Attesa la rilevanza della decisione del giudice di rinvio anche ai fini delle valutazioni in ordine al principio di soccombenza, si rimette al definitivo la decisione in ordine alla liquidazione delle spese del giudizio in favore della parte civile costituita e presente nel grado di giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata on rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo limitatamente all’applicabilità dell’attenuante prevista dall’art.609-bis, ultimo comma, cod. pen. Rigetta nel resto.
[1] Dal punto di vista storico e vittimologico, von Hentig (1948) è stato il primo ad aver individuato i minori di età quale classe generale di vittima perché considerava la condizione degli infanti e degli adolescenti maggiormente esposta alla vittimizzazione per lo stato di debolezza fisica e mentale e la conseguente minor capacità di resistenza e di reazione. La protezione dei giovani – che si trovavano a vivere il periodo più pericoloso della loro vita, secondo l’A. – era affidata ai genitori o ad altre agenzie di controllo. Secondo l’A., l’età era un fattore anche psicologico e situazionale nel senso che, in certi ambienti criminosi, i minori venivano sfruttati da complici adulti e più esperti per far compiere loro le azioni più rischiose e pericolose: in tal senso, le giovani vittime sono più assoggettabili e sottomesse rispetto ai complici più adulti. Va precisato che von Hentig indicava la categoria in esame col termine the Young, in quanto teneva presente le differenti legislazioni nazionali in base alle quali era diversificata l’età legale di riconoscimento della capacità giuridica oppure, con riferimento alla sfera sessuale, per consentire validamente ad atti sessuali, negli USA, considerava sia gli infradiciottenni e sia i giovani adulti, fino ai 21 anni di età). Cfr, Hentig von H., The Criminal and his Victim, Yale Univ. Press, New Haven, 1948.
[2]Legge 6 febbraio 2006 n. 38.
[3] Legge 1° agosto 2003 n. 207.
[4] Legge 31 luglio 2006 n.241.
[5]Sul punto si veda, G. Del Papa, Violenza sessuale e dichiarazioni dei bambini in tenerissima età, in Fam. e Dir., 2002, pag. 297 ss; P.F. Pieri, Dalla diagnosi all’intervento familiare, in Foro Toscano, 2002, IX, pag. 423 e ss, in cui l’A. approfondisce il tema dell’abuso sessuale infantile intrafamiliare, evidenziando i possibili indicatori dell’abuso (ambientali, soggettivi di tipo fisico e soggettivi di tipo comportamentale ed emotivo) e quelli della credibilità del racconto dell’evento, approfondendo alcuni problemi attinenti le false accuse (anche rivolte a persona sbagliata) e false denunce, false dichiarazioni e negazioni. Cfr., altresì, la ricca bibliografia indicata da Scarcella Alessio, Abusi sessuali su minori e valutazione di attendibilità delle loro dichiarazioni, nota a Cass. pen., sez. III, 18 settembre 2007, n. 37147.
[6] La preoccupazione costante del legislatore è quella di salvaguardare la personalità del minore, vittima di reato, nel suo approccio aduna realtà, quale è quella giudiziaria, invasiva della sfera privata e potenzialmente idonea, per motivi ‘ambientali’ a inficiare la genuinità del ricordo e del racconto da parte di un soggetto debole ed esposto qual è il minore.
[7] A proposito della predetta norma, si segnale che in essa si impone al giudice il ricorso alla perizia o alla consulenza nel caso in cui non sia possibile utilizzare mezzi o personale specializzato: la significatività della previsione normativa sta nel fatto che il riferimento alla consulenza tecnica è applicabile in via analogica anche alla procedura di assunzione delle informazioni da parte del P.M., essendo la consulenza tecnica lo strumento processuale che consente al P.M. medesimo di avvalersi del sapere scientifico esterno, come la perizia per il giudice.
[8] In dottrina, un contributo esegetico circa la testimonianza del minore è offerto da L. De Cataldo Neuburger, La testimonianza del minore tra scienza del culto del cargo e fictio juris, Padova, 2005.
[9] Si tratta di una presunzione iuris tantum che può ben essere vinta da una prova contraria.
[10] La giurisprudenza di legittimità ha operato una summa divisio fra l’attitudine a testimoniare e la verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni del minore attraverso il ricorso ad un accertamento tecnico. Infatti, al fine di valutare la prima – cioè la capacità di recepire le informazioni, raccordarle con altre, ricordare e di esprimerle in una visione complessa – può farsi senz’altro ricorso ad un’indagine tecnica che offra al giudice informazioni circa la maturità psichica del soggetto minore; al contrario, è vietato ogni accertamento tecnico che sia volto alla verifica dell’attendibilità probatoria perché tale operazione è riservata al giudice il quale deve esaminare il modo in cui il minore abbia vissuto ed elaborato la vicenda, in modo da discernervi sincerità, travisamento dei fatti e menzogna (arg. ex Cass. pen., sez. III, 20 giugno 2007, n. 35397).
[11] Cass. pen., sez. III, 6 luglio 2007, n. 35492 ha affermato che la motivazione resa dai giudici del merito era corretta nel dichiarare la colpevolezza dell’imputato sulla base dei fatti esposti dalla parte lesa in quanto i fatti erano sostenuti da altri elementi.
[12] Cass. pen., sez. III, 20 settembre 2007, n. 38261, ove si afferma che le indicate situazioni psichiche devono ritenersi idonee ad elidere, in tutto o in parte, la capacità della vittima di esprimere un valido consenso tale da respingere in modo efficace gli atti sessuali dell’agente.
[13] Cass. pen. , sez. III, 16 marzo 1988, n. 6091, ha affermato che, nel caso deciso, il giudice aveva respinto la richiesta di una perizia psicologica, in quanto egli aveva concluso per la sussistenza della condizione di inferiorità psichica deducendola dallo stato di prigionia avuto riguardo all’età delle persone offese (appena quindicenni), alle carenze affettive, allo stato di povertà, alla squallida situazione familiare, alla solitudine e al deficiente sviluppo della loro personalità; la ricorrenza di tutti questi elementi era destinata a determinare la facile resa alle imposizioni e alle pressanti richieste di aderire ad incontri sessuali con uomini che venivano loro presentati. È superfluo aggiungere che l’eventuale consenso prestato a tali incontri era viziato proprio dalla sussistenza della condizione di inferiorità psichica, a prescindere da alcuna patologia di carattere organico o funzionale.
[14] Secondo la S.C., il carattere irripetibile dell’accertamento non va ritenuto in astratto secondo la tipologia dell’accertamento stesso ma va valutato in concreto secondo le caratteristiche particolari della situazione da accertare e della sua prevedibile modificabilità: non è prevedibile che la maturità psicologica della persona offesa, che non sia affetta da alcuna patologia, possa essere esposta in breve tempo a rilevanti modificazioni (Cass. pen., sez. III, 8 marzo 2006, n. 19397). Ancora, in tema di reati sessuali in danno di minori di età, la valutazione giudiziale delle dichiarazioni accusatorie rese dalle vittime degli abusi, che richiede specifiche cognizioni tecniche mediante il ricorso al sapere scientifico esterno, non impone nella fase delle indagini preliminari alcun obbligo al P.M. di affidare la c.d. consulenza personologica nelle forme dell’art. 360 c.p.p. ovvero di richiedere al G.i.p. l’incidente probatorio, essendo ammissibile il ricorso alla procedura non garantita prevista dall’art. 359 c.p.p., le cui risultanze hanno tuttavia valore soltanto endoprocessuale, sottraendo agli indagati la facoltà di controllare, tramite i difensori e i consulenti tecnici, l’operato del consulente (nel caso di specie, la Corte, nell’enunciare il predetto principio, ha precisato che le risultanze della consulenza personologica ex art. 359 c.p.p. sono utilizzabili nei riti speciali ovvero nel giudizio ordinario, sull’accordo delle parti. Cass. pen., sez. III, 9 ottobre 2007, n. 37147 (c.c. 18 settembre 2007), Scancarello e altri.
[15] Questa linea esegetica è stata avallata dalla S.C. che ha ritenuto utilizzabili le dichiarazioni assunte dal consulente tecnico ‘solo ai fini delle conclusioni dell’incarico di consulenza – volta a verificare la credibilità dei testi in visa dell’esame protetto’, escludendo che il giudice possa utilizzarle quali dichiarazioni testimoniali ai fini della ricostruzione dei fatti, ostandovi il disposto dell’art. 228 co. 3 c.p.p. e degli artt. 392. 1 bis e 398. 5 bis c.p.p. Cfr, Cass. pen., sez. III, 1 febbraio 2006, n. 12647.
[16] Sul punto si veda Cass. pen., SS. UU., 21 giugno 2000, n. 16, Tammaro.
[17] I limiti espositivi della nota non consentono di approfondire il tema dell’utilizzabilità delle prove nel procedimento a prova contratta. Tuttavia, occorre precisare che nel giudizio abbreviato rileva soltanto la c.d. inutilizzabilità patologica ed è, quindi, utilizzabile la relazione redatta da una psicologa su incarico del Tribunale per i minorenni ed il relativo contenuto narrativo ai fini della prova come documento acquisito dal P.M. ex art. 234 c.p.p.. In particolare, la relazione presenta sia un contenuto narrativo (le dichiarazioni rese dal minore alla psicologa) sia un contenuto valutativo (il giudizio circa l’attendibilità del minore e l’interpretazione del suo stato psicologico). Come tale, la relazione può essere acquisita al fascicolo del P.M. ai sensi dell’art. 234 c.p.p. in quanto documento che rappresenta un fatto, limitatamente al suo contenuto narrativo. La Corte Cost., con la pronuncia n. 115 del 7 maggio 2007, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 442 comma 1-bis, c.p.p., nella parte in cui consente l’utilizzazione nel giudizio abbreviato di atti non utilizzabili nel giudizio ordinario perché il fondamento del giudizio abbreviato sta proprio nella possibilità di utilizzazione probatoria degli atti legittimamente assunti nel corso delle indagini preliminari.
[18] Affinchè possa essere considerata ‘testimonianza de relato, la relazione deve essere trasfusa in un verbale di sommarie informazioni raccolta dalla P.G. ex art. 351 c.p.p., oppure dal P.M. ex art. 362 c.p.p, o ancora, dal g.u.p. nell’udienza preliminare ex art. 422 c.p.p.
[19] Cass. pen., sez. V, 6 aprile 1999, n. 12027.
[20] Così, Cass. pen., sez. III, 2 luglio 2003, n. 38623, Baini, in cui si afferma che l’utilizzabilità delle dichiarazioni de relato è condizionata al comportamento acquiescente dell’imputato ovvero nel caso in cui questi non si sia avvalso del diritto di chiedere che sia chiamato a deporre il teste di riferimento, non rilevandosi alcuna violazione dell’art. 111 Cost. in quanto l’ordinamento giuridico consente che la formazione della prova avvenga senza contraddittorio, quando vi è il consenso dell’imputato (nella fattispecie, l’imputato non aveva chiesto l’audizione del figlio minore vittima di abusi sessuali). In senso conforme, Cass. pen.,sez. III, 24 ottobre 2003, n. 46795, De Rose; Cass. pen., sez. II, 10 gennaio 2006, n. 3632, Zaccaro e altro.
[21] Cass. pen., sez. III, 10 giugno 2003, n. 46289, Sannino.
[22] Cass. pen., sez. III, 29 novembre 2006, n. 9801, Baldi, relativa alla testimonianza indiretta dei genitori in relazione ad abusi sessuali subiti dal figlio minore che, chiamato a deporre nelle forme dell’incidente probatorio, non aveva risposto alle domande.
[23] Cass. pen., sez. III, 14 giugno 2007, n. 35728, Battisti.
[24] Cass. pen., sez. III, 22 gennaio 1997, n. 2540, Ricci.
[25] Cfr. Scarcella, Abusi sessuali, cit., pag. 51.
[26] Cass. pen., sez. III, 3 luglio 1997, n. 8962, Ruggeri.