a cura dell’avv. Domenico Di Leo

         

Il principio della personalizzazione della minaccia o del danno non si applica alla protezione sussidiaria nel senso che anche “la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata tra situazioni di conflitto armato interno o internazionale” costituisce danno grave che giustifica il riconoscimento della protezione (art. 14, lett. c), d.lgs. n. 251 del 2007)’.

 

            La Corte d’appello di Catania ha respinto il reclamo proposto dal sig. *****, di nazionalità nigeriana, avverso la sentenza del Tribunale della stessa città con cui era stato respinto il suo ricorso avverso il diniego di protezione internazionale disposto dalla competente Commissione territoriale.

 

Il reclamante aveva dichiarato alla Commissione di aver lasciato il proprio paese essendo rimasto coinvolto in sanguinosi scontri verificatisi nel 2004 tra abitanti del proprio villaggio di etnia Shaklri – alla quale egli appartiene – e di etnia I. per la ripartizione dei proventi dello sfruttamento delle risorse petrolifere del villaggio stesso; che suo padre era rimasto ucciso negli scontri; che egli, rimasto solo, non aveva pensato di rivolgersi alla polizia ed era fuggito alla volta della Libia, ove era rimasto sino all’agosto 2008 per poi raggiungere l’Italia.

Il sig ***** ha quindi proposto ricorso per cassazione articolando due motivi di censura, cui l’amministrazione intimata non ha resistito.

 

La Corte di appello ha fondato il diniego sulla base del fatto che nel caso sottoposto al suo esame non risultavano integrati nè gli estremi della persecuzione (presupposto del riconoscimento dello status di rifugiato), trattandosi di una vicenda personale inserita in un localizzato contrasto tribale, né era rilevante, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del reclamante, non essendo neppure dedotta una “Violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” (art. 14, lett. c), d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251). Inoltre, la Corte di appello affermava che le circostanze dedotte dall’appellante non erano adeguatamente suffragate da prove, utili a fondare l’accoglimento della richiesta di protezione internazionale. Si trattava invece di una contesa di natura meramente patrimoniale interessante un ambito circoscritto di soggetti in un’arca territoriale assai limitata (un villaggio) da regolarsi alla stregua di un problema di ordine pubblico, a cura delle autorità locali di polizia, e alla quale il reclamante avrebbe potuto comunque sottrarsi trasferendosi in un’altra zona del paese, mentre aveva preferito emigrare all’estero; sicché era del tutto inconferente il richiamo alle condizioni generali della Nigeria desumibili dai reports internazionali, non sussistendo in ogni caso alcun nesso di causalità fra tali condizioni e le motivazioni soggettive del reclamante ad emigrare.

 

Con l’ordinanza n. 8389 del 25 maggio 2012, la Cassazione ha posto una questione attinente alla sussistenza dei requisiti per la richiesta e l’ottenimento della protezione internazionale e all’accertamento dei medesimi, non allineandosi coerentemente agli arresti giurisprudenziali che la Corte medesima ha raggiunto negli ultimi anni, in tema di immigrazione e protezione degli stranieri.

 

            Nel corso degli ultimi anni, si sono consolidate alcune linee interpretative già assunte dalla Corte, in tema di misure di protezione internazionale, così come attualmente disciplinate dai d.lgs 19 novembre 2007 n. 251 e n. 25 del 25 gennaio 2008, rispettivamente attuativi delle Direttiva 2004/83/Ce e 2005/85/CE. In particolare, nel riconoscere l’esistenza, accanto alle misure tipiche del rifugio politico e della protezione sussidiaria, espressamente disciplinate dalle norme di derivazione comunitaria, caratterizzate dal conseguimento di un titolo temporalmente stabile e dal godimento di diritti sociali, la Corte ha conservato dignità ed autonomia ai permessi umanitari disciplinati dall’art.5, comma 6 e 19, comma 2 del d.lgs n. 286 del 1998, delineandone con chiarezza le linee di demarcazione. Contestualmente, ha ribadito la peculiarità dei poteri istruttori officiosi del giudice in tali procedimenti dovuta al rilievo costituzionale ed al rango di diritti umani da riconoscere alle istanze degli asylum seekers. In ordine al primo dei due versanti esaminati, l’ordinanza della sesta sezione, sottosezione prima, n. 6880 del 24 marzo 2011, rv.617462 ha così individuato i criteri distintivi delle due misure tipiche “Il riconoscimento della protezione sussidiaria non richiede, diversamente da quanto previsto per lo “status” di rifugiato politico, l’accertamento dell’esistenza di una condizione di persecuzione del richiedente, ma è assoggettato a requisiti diversi, desumibili dall’art. 2 lettera g) e dall’art. 14 del d.lgs n. 251 del 2007. Tale diversità è stata ribadita dalla Corte di Giustizia (Grande sezione, procedimenti riuniti C 175-179/08), in sede d’interpretazione conforme dell’art. 11 n. 1 lettera e) della Direttiva 2004/83/CE, proprio al fine di evidenziare che l’eventuale cessazione delle condizioni riguardanti il riconoscimento dello “status” di rifugiato politico non può incidere sulla concessione della complementare misura della protezione sussidiaria, secondo il diverso regime giuridico di questa misura che si caratterizza, alla luce dell’art. 2 della direttiva, proprio perché può essere concessa a chi “non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato”. Ne consegue che, quando il richiedente sia colpito da un mandato di arresto per fatti commessi durante una manifestazione di protesta, il giudice non può escludere la protezione sussidiaria, senza accertare preventivamente il titolo sulla base del quale è stato emesso il provvedimento restrittivo della libertà personale, limitandosi ad affermare che il ricorrente non risulta essere autore di opinioni politiche o ideologiche contrastanti con quelle del Governo, ma deve verificare se ricorra, per lo straniero, il rischio effettivo di essere sottoposto a ‘pena di morte o tortura o alla minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale’.

             Nel nuovo sistema normativo, la Corte, al riguardo, ha affermato che pur potendo riscontrarsi una sostanziale coincidenza di requisiti tra le due misure, tuttavia tale coincidenza, pur essendo riconosciuta espressamente dalla previsione della convertibilità, al momento dell’entrata in vigore della nuova normativa, dei permessi umanitari preesistenti in protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 251 del 2007, non esclude, nell’attuale sistema delle misure di protezione internazionale, la tutela residuale costituita dal rilascio di permessi sostenuti da ragioni umanitarie o diverse da quelle proprie della protezione sussidiaria o correlate a condizioni temporali limitate e circoscritte, come previsto dall’art. 32, terzo comma, del d. lgs. n. 25 del 2008, ai sensi del quale le Commissioni territoriali, quando ritengano sussistenti gravi motivi umanitari (evidentemente inidonei ad integrare le condizioni necessarie per la protezione sussidiaria) devono trasmettere gli atti al Questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno. Nella successiva ordinanza n. 24544 del 21 novembre 2011 (rv. 619702) emessa dalla sesta sezione, sottosezione prima, è stata ulteriormente precisata la differenza tra la misura tipica della protezione sussidiaria e quella atipica del permesso umanitario, riscontrandola non nella misura della gravità delle ragioni di protezione ma piuttosto nella presumibile limitazione temporale della seconda “vuoi per la speranza di una rapida evoluzione della situazione del paese di rimpatrio, vuoi per la posizione del richiedente, suscettibile di un mutamento che faccia venir meno l’esigenza di protezione” (art. 14 d.lgs. 251/2007).

L’accertamento dei requisiti per accedere ad una delle tre misure di protezione internazionale ha natura officiosa e non richiede, neanche, in deroga al principio dispositivo, la precisazione nella domanda della misura o delle misure di cui si richiede il riconoscimento. E’ compito della Commissione territoriale prima e del giudice, se successivamente adito in sede d’impugnazione, procedere alla verifica delle condizioni per accedere almeno ad una delle forme previste di protezione internazionale, indipendentemente dall’espressa formulazione di una domanda al riguardo. Da questa premessa deriva un potenziamento dei poteri istruttori officiosi del giudice che la Corte, anche lo scorso anno, ha sottolineato, in continuità con S.U. n. 27310 del 17 novembre 2008, rv. 605498, il dovere di cooperazione del giudice all’accertamento della reale situazione del paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri officiosi d’indagine e acquisizione documentale esercitabili ai sensi dell’art. 8, comma terzo, d.lgs n. 25 del 2008 (Cass. n. 10202 del 10 maggio 2011, rv. 618021 emessa dalla sesta sezione, sottosezione prima). L’obbligo di accertare la veridicità delle allegazioni relative al fumus persecutionis dedotto dal richiedente ricade anche sul giudice di pace che sia chiamato a decidere sul divieto di espulsione per motivi umanitari, ex art. 19 comma 2 d.lgs n. 286 del 1998 (Cass. n. 3898 del 17 febbraio 2011 rv. 616297), mentre nell’ipotesi in cui lo straniero non sia in grado di fornire elementi di prova a sostegno dei fatti allegati e non sia agevole il reperimento officioso, il giudice è tenuto ad osservare, nel valutare l’attendibilità delle sue dichiarazioni, i canoni stabiliti dall’art. 3 del d.lgs n. 251 del 2007 ovvero che il richiedente abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, abbia fornito idonea motivazione sulla mancanza di elementi, abbia presentato la domanda il prima possibile o il ritardo abbia una giustificazione, dai riscontri effettuati sia attendibile (Cass., sezione sesta, sottosezione prima, ord. n. 4138 del 18 febbraio 2011, rv. 616960). Questo vantaggioso regime probatorio di derivazione comunitaria, proprio perché fondato sull’esigenza di accertare la veridicità di circostanze lesive dei diritti umani delle persone, ha avuto una capacità espansiva che nella giurisprudenza di legittimità si è manifestata in una recente ed importante pronuncia in materia di riconoscimento della cittadinanza italiana (Cass., sez. 6 – 1, ord. n. 20870 del 10 ottobre 2011, rv. 619711). La Corte ha ritenuto che, di fronte all’ambiguità degli atti anagrafici dello Stato turco forniti dal richiedente, era dovere officioso del giudice compiere gli accertamenti opportuni al fine di eliminare tale ambiguità proprio in considerazione del “primario rango costituzionale del diritto”.

            Nel caso in esame, col primo motivo di ricorso, il ricorrente ha denunciato la violazione di norme di diritto e il vizio di motivazione della decisione di secondo grado; la Corte di appello ha negato la protezione sussidiaria in quanto ha affermato che , nel caso de quo, la vicenda subita dal ricorrente va ricondotta a una pura questione di ordine pubblico interno al suo paese d’origine, osservando che i reports internazionali, non presi in considerazione dai giudici di merito, avevano evidenziato la partecipazione delle stesse forze di polizia alle violazioni dei diritti umani. Inoltre, la medesima corte ha affermato che l’art. 5 comma 1, lett d), d.lgs. n. 251 del 2007, prevede che tali violazioni rilevano anche se commesse da soggetti “non statuali”, quando lo stato o le organizzazioni che lo controllano o controllano una parte del suo territorio “non possono o non vogliono fornire protezione”.

Con il secondo motivo, nuovamente denunciando violazione di norme di diritto e vizio di motivazione, si contesta l’applicazione, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, del principio della personalizzazione della minaccia o del danno.

 

La S.C. ha respinto entrambi i motivi posti alla base del ricorso: sul primo ha statuito che il riferimento alla condotta dell’esercito nigeriano era generico e non attinente alla vicenda personale del ricorrente; respingendo il secondo motivo di ricorso, la S.C. ha affermato che esso è inammissibile in quanto il principio della personalizzazione della minaccia o del danno non si applica alla protezione sussidiaria nel senso che anche “la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata tra situazioni di conflitto armato interno o internazionale” costituisce danno grave che giustifica il riconoscimento della protezione (art. 14, lett. c), d.lgs. n. 251 del 2007). Ma la Corte d’appello ha escluso – con statuizione rimasta priva di specifica censura – che una tale situazione fosse stata dedotta in giudizio dal ricorrente.

Al fine di avere una visione agganciata a un dato normativo, occorre prendere le mosse dall’art. 2 lett a), g) e h) del d.lgs. 251/2007 il quale individua i requisiti per ottenere la protezione sussidiaria, quale forma di protezione internazionale nei casi in cui un soggetto abbia fondato motivo di ritenere che, se tornasse nel suo Paese d’origine, correrebbe il serio rischio di subire un ‘grave danno’. L’art. 14 del CAPO IV del d. lgs. in esame fornisce utili indicazioni circa il ‘grave danno’:

            a)  la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte;

            b)  la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine;

c)  la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

Il testo della lettera va inteso in senso ampio e letto in combinato disposto con la previsione di cui all’art. 7, che apre il CAPO III, in tema di rifugiato: la lettura ampia ed estesa è autorizzata dalle aperture in tema di immigrazione offerte dalla giurisprudenza comunitaria e avallate dalla S.C., in quanto – come affermato supra – l’obiettivo principale delle previste misure è la garanzia del godimento dei diritti personali e sociali del richiedente. Il cittadino nigeriano si è visto negare – nei due gradi di giudizio e in Cassazione – la protezione sussidiaria, anche se, pur non conoscendo perfettamente i fatti di causa – pare che vi potessero sussistere gli estremi, per la verità molto risicati, per l’ottenimento dello status di rifugiato.

Come si legge nel sunto dello svolgimento del processo, in sede di giudizio di appello, erano stati portati a conoscenza del giudice i risultati di alcuni reports internazionali, non meglio precisati, che riferivano circa la situazione politica interna dello stato africano: essi riferivano di una situazione profondamente instabile dal punto di vista politico nel 2004, in quanto il governo nazionale non era in grado di controllare i molteplici scontri a fuoco che si verificavano in molti villaggi e città del Paese. I motivi degli scontri erano secondariamente di origine patrimoniale, legati cioè allo sfruttamento delle risorse petrolifere del Paese, primo produttore di greggio in Africa. In realtà, la mappa etnica dello stato della Nigeria offre un panorama variegato in cui si contano oltre 250 etnie, 70 lingue e idiomi, e tre orientamenti religiosi principali: in un Paese in cui l’esercito ha rappresentato per molti anni la prima forza politica, a causa dei golpe militari che lo hanno visto primeggiare sulle liste ‘politiche’, è facile immaginare come i motivi economici si potessero facilmente mescolare ad altri di natura razziale – come affermato dal richiedente nigeriano – o religiosa, fino ad alimentare genocidi di cui l’Africa è stata testimone (è ancora vivo il ricordo degli scontri fratricidi in Ruanda fra le etnie Hutu e Tutsi).

A nulla vale il laconico commento della Corte d’appello di Catania quando afferma che il reclamante non aveva dedotto nemmeno una “Violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” (art. 14, lett. c, d. lgs. 251/2007). Quella corte ha affermato che la situazione di instabilità politica interna della Nigeria andava ricondotta nell’alveo di una contesa di natura meramente patrimoniale che interessava un ambito circoscritto di soggetti in un ambito territoriale assai limitato (un villaggio) da regolarsi alla stregua di un problema di ordine pubblico, a cura delle autorità locali di polizia, e alle quali il reclamante poteva comunque sottrarsi trasferendosi in un’altra zona del paese, mentre aveva preferito emigrare all’estero. Intanto, la scelta di trasferirsi all’estero piuttosto che in altra zona del Paese è stata dettata da motivi che vanno ricercati nel bisogno di ottenere la protezione internazionale, trascorrendo un lungo lasso di tempo in terra libica. In via deduttiva, tale personalissima vicenda umana si spiega con la necessità di sfuggire immediatamente alla ferocia degli scontri che infuriavano in alcune regioni della Nigeria – visto che anche la polizia del Paese africano partecipava alle violazioni denunciate dal richiedente e dai reports internazionali – e, probabilmente, con la necessità di reperire i fondi necessari per assicurarsi un passaggio aldilà del mare nostrum. Tutte queste considerazioni, opportunamente integrate dagli elementi di fatto raccolti dalla viva voce del richiedente protezione internazionale – si ricorda che i due d. lgs. più volte citati, hanno procedimentalizzato l’iter burocratico al fine di ottenere quante più informazioni possibile dal medesimo – costituiscono un bagaglio di conoscenze che, laddove carenti, devono essere corroborate dalle ricerche consentite, specialmente ai giudici, utilizzando i poteri officiosi. È appena il caso di ricordare che, durante lo svolgimento del processo, è emerso dal racconto del ricorrente nigeriano che le medesime forze di polizia commettevano atti di violazione dei diritti umani: in situazioni del genere, è immaginabile quanto sia difficile ottenere giustizia da un apparato giurisdizionale corrotto – la Nigeria occupa il 143° posto (su 163) nella lista dei Paesi più corrotti al mondo – al punto che emigrare e lasciare gli affetti e il suolo natìo diventa la soluzione più facile.

  Non è condivisibile quanto affermato dalla corte d’appello – e che, in sede di legittimità è stato dichiarato inammissibile perché generico e non specificamente attinente alla vicenda del ricorrente – in quanto il giudice ha poteri officiosi che deve utilizzare al fine di valutare attentamente tutti gli elementi forniti dal richiedente la protezione sussidiaria e andando oltre gli elementi medesimi, sino a giungere all’acquisizione di ulteriori indizi necessari e utili all’inquadramento della vicenda personale del richiedente. L’art. 8 del d. lgs. 25/2008 impone che l’esame delle domande (di coloro che richiedono lo status di rifugiato ma sono applicabili anche al caso della protezione sussidiaria: Cass. Civ. 10202/2011, cit.) deve essere esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti; le informazioni sono elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’ACNUR, dal Ministero degli affari esteri e che esse siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali e degli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative. Questa indicazione consente che la decisione di ogni singola domanda sia assunta in modo individuale, obiettivo e imparziale e sulla base di un congruo esame della domanda svolto sulla base del d. lgs. 251/2007. Ancora una volta, il doppio e reciproco richiamo fra le due normative (il predetto d. lgs e il d. lgs. 25/2008), sottolinea l’interazione necessaria fra due testi normativi intimamente legati nella disciplina della protezione internazionale. Alla luce di quanto detto, il giudice del primo e del secondo grado avrebbero dovuto ingegnarsi per reperire tutte le informazioni attinenti la situazione del richiedente protezione sussidiaria, non soltanto sulla base di quanto riferito dal medesimo ma soprattutto utilizzando i poteri istruttori officiosi: e questo, sino al limite estremo di arrivare a concedere al richiedente una protezione che può essere diversa da quella eventualmente scelta dal medesimo. Non solo: come appena accennato, il giudice è facilitato nel reperimento delle informazioni necessarie in possesso della P.A. procedente, ordinando alla medesima di esibire e produrre in giudizio gli atti e i documenti amministrativi relativi al giudizio di opposizione al diniego di protezione internazionale. E questo per il giudice, si ripete, non è una facoltà bensì un dovere di utilizzare poteri officiosi per assicurare al richiedente una misura di protezione efficace e personale. Pertanto, se il richiedente la protezione internazionale non ha fornito al giudice tutti gli elementi necessari a valutare la sua posizione, è obbligo del giudice reperire tutte le informazioni necessarie, utilizzando, accanto ai poteri già riconosciutigli per legge, i poteri d’istruzione officiosi, così come declinati in ambito europeo e recepiti dal giudice di legittimità italiano. Questa operazione di ricerca di tutti gli elementi utili a fornire al richiedente la misura di protezione più adatta al suo caso sembra andare, per i fatti simili a quello dell’ordinanza in commento, nella direzione della personalizzazione della minaccia, dovendo intendersi con questa espressione il fatto che la minaccia è percepita da quel soggetto, in quella situazione geopolitica particolare (e da tutti coloro che versano in una situazione analoga: il c.d. effetto alone) e che, in quanto percepita da quel soggetto, è una situazione soggettiva ben determinata. Quando il soggetto nigeriano ha affermato che nel suo Paese sarebbe stato perseguitato o, quantomeno avrebbe subito un grave danno nella forma della minaccia grave e individuale alla vita o alla propria persona, quale civile (non militare, dunque), in relazione a violenza indiscriminata in ordine a situazioni di conflitto armato interno (o internazionale), come già accaduto al suo genitore, in un contesto di violenza generalizzata e di sistematica violazione dei diritti umani e sociali da parte anche delle medesime forze dell’ordine – egli ha offerto tutti gli elementi necessari – agli organi amministrativi, in prima battuta, e al giudice, in sede di impugnazione – per valutare compiutamente la sua posizione: nel caso in cui le informazioni fornite fossero state insufficienti, gli organi amministrativi e giurisdizionali avrebbero dovuto attivarsi con i poteri necessari per ottenere un ampio ventaglio di informazioni utili alla predisposizione della protezione internazionale su misura per il ricorrente.

 

 

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

d. lgs. 19 novembre 2007 n. 251;

d. lgs. 30 maggio 2005 n. 140;

d. lgs. 28 gennaio 2008 n. 25.

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

www.altalex.it/immigrazione;

www.immigrazione.biz;

www.senato.it/documenti/repository/lavori/affariinternazionali/approfondimenti/87%20per%20sito.pdf;

www.meltingpot.org;

www.guidelegali.it/Legge/rifugiati-politici-attuazione-della-direttiva-2005-85-ce-recante-norme-minime-per-le-procedure-applicate-negli-stati-mem-3764.aspx;

www.guidelegali.it/Rifugiati%20politici%20%20Attuazione%20della%20direttiva%202005:85:CE%20recante%20norme%20minime%20per%20le%20procedure%20app;

http://www.unhcr.it/;

http://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/05140dl.htm;

Voce ‘Immigrazione’, a cura di Renato Finocchi Ghersi, ne Il Diritto – Enciclopedia  giuridica del Sole 24Ore/ Corriere della sera, Vol. 7, pagg. 264-271.

 

Segue il testo dell’ordinanza oggetto di commento.

 

Diniego di protezione internazionale – rifugiati e protezione sussidiaria – nessuna persecuzione

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Premesso



La Corte d’appello di Catania ha respinto il reclamo proposto dal sig. *****, di nazionalità nigeriana, avverso la sentenza del Tribunale della stessa città con cui era stato respinto il suo ricorso avverso il diniego di protezione internazionale disposto dalla competente Commissione territoriale.

Il reclamante aveva dichiarato alla Commissione di aver lasciato il proprio paese essendo rimasto coinvolto in sanguinosi scontri verificatisi nel 2004 tra abitanti del proprio villaggio di etnia Shaklri -alla quale egli appartiene – e di ernia I. per la ripartizione dei proventi dello sfruttamento delle risorse petrolifere del villaggio stesso; che suo padre era rimasto ucciso negli scontri; che egli, rimasto solo, non aveva pensato di rivolgersi alla polizia ed era fuggito alla volta della Libia, ove era rimasto sino all’agosto 2008 per poi raggiungere l’Italia.

La Corte di merito ha quindi osservato che ciò non integrava gli estremi né della persecuzione (presupposto del riconoscimento dello status di rifugiato), trattandosi di una vicenda personale inserita in un localizzato contrasto tribale, né era rilevante ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria per minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del reclamante, non essendo neppure dedotta una “Violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” (art. 14, lett. c), d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251). Si trattava invece di una contesa di natura meramente patrimoniale interessante un ambito circoscritto di soggetti in un’arca territoriale assai limitata (un villaggio) da regolarsi alla stregua di un problema di ordine pubblico, a cura delle autorità locali di polizia, e alla quale il reclamante poteva comunque sottrarsi trasferendosi in un’altea zona del paese, mentre aveva preferito emigrare all’estero; sicché era del tutto inconferente il richiamo alle condizioni generali della Nigeria desumibili dai reperti internazionali, non sussistendo in ogni caso alcun nesso di causalità fra tali condizioni e le motivazioni soggettive del reclamante ad emigrare.

Il sig ***** ha quindi proposto ricorso per cassazione articolando due motivi di censura, cui l’amministrazione inumata non ha resistito.


Considerato


1. – Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione di norme di diritto e vizio di motivazione, si censura la riduzione della vicenda del ricorrente a una pura questione di ordine pubblico interno al suo paese d’origine, osservando che dai reports internazionali, non presi in considerazione dai giudici di merito, risultava la partecipazione delle stesse forze di polizia a violazioni dei diritti umani, e che l’art. 5 comma 1, lett d), d.lgs. n. 251 del 2007, prevede che tali violazioni rilevano anche se commesse da soggetti “non statuali” quando lo stato o le organizzazioni che lo controllano o controllano una parte del suo territorio “non possono o non vogliono fornire protezione”.

1.1. – Il motivo è inammissibile perché il dedotto riferimento al comportamento delle autorità statuali è generico e non specificamente attinente alla vicenda del ricorrente.

2. – Cori il secondo motivo, nuovamente denunciando violazione di norme di diritto e vizio di motivazione, si contesta l’applicazione, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, del principio della personalizzazione della minaccia o del danno.

3. – Anche questo motivo è inammissibile.

Il principio della personalizzazione della minaccia o del danno non si applica alla protezione sussidiaria nel senso che anche “la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata tra situazioni di conflitto armato interno o internazionale” costituisce danno grave che giustifica il riconoscimento della protezione (art. 14, lett. c), d.lgs. n. 251 del 2007). Ma la Corte d’appello ha escluso – con statuizione rimasta priva di specifica censura – che una tale situazione, fosse stata dedotta in giudizio dal ricorrente.

4. – Il ricorso va pertanto respinto.

In mancanza di attività difensiva della pare intimata non vi è luogo a provvedere sulle spese processuali.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Depositato in Cancelleria
il 25 maggio 2012.

Nota a cura dell’avv. Domenico Di Leo – RIPRODUZIONE RISERVATA.

 

 

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