di Pietro Algieri
L’espressione latina: “Ad impossibilia nemo tenetur”, ” significa letterarmente : “nessuno è tenuto a fare cose impossibili”. Tale formula, infatti, si presume sia sorta già alle origini della civiltà giuridica di Roma antica per poi essere ripresa nel “Digesto”, quale parte del primo insieme di leggi minime nate per regolare la convivenza civile.
Il brocardo in questione, nonostante sia risalente nel tempo, è tuttora usata quale massima giuridica a illustrazione sintetica del principio in base al quale, se il contenuto di un’obbligazione diventa oggettivamente impossibile da adempiere per la parte che la aveva assunta, l’obbligazione è nulla per cosiddetta impossibilità oggettiva. Tale prescrizione è ora normata nel diritto italiano dall’art. 1256 comma 1 del codice civile e seguenti, secondo il quale “l’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile”.
Il principio in esame, tuttavia, è uno dei cardini imprescindibili del diritto e degli ordinamenti moderni, anche degli Stati esteri.. Nel diritto civile svizzero, ad esempio, l’art. 119 cpv. 1 del Codice delle Obbligazioni prevede che l’obbligazione si ritiene estinta quando ne sia divenuto impossibile l’adempimento per circostanze non imputabili al debitore mentre è nulla ab initio se tale impossibilità sussisteva già al momento in cui l’obbligazione è stata assunta (art. 20 CO).
Nel linguaggio comune la locuzione è usata per giustificare la mancata ottemperanza a un impegno assunto, dovuta a cause di forza maggiore. Andando indietro nel tempo, si nota che in passato le relazioni intersoggettive non erano regolate da norme precise e incisive come quelle che caratterizzano il nostro tempo e che il mero relazionarsi con un altro soggetto al fine di soddisfare un interesse personale, non faceva parte della quotidianità, anzi era visto come un qualcosa di eccezionale. La cultura e l’esperienza giuridica, pertanto, sono l’esempio lampante di come l’uomo tende ad unirsi con altri uomini per costituire gruppi sociali, in quanto vi sono interessi che non possono essere soddisfatti se non attraverso la collaborazione di più uomini. Gli antichi romano erano soliti affermare: “Unus homo, nullus homo“, a dimostrazione che già all’epoca dei “romani” la collaborazione e la vita di relazione avrebbero avuto per lo sviluppo economico sociale, sia del singolo che della collettività un ruolo di primaria importanza. Al fine di soddisfare alcuni interessi , però, si richiede una stretta inter-relazione quotidiana e costante tra i consociati, dando luogo alla nascita di un rapporto, il quale necessità di apposite regole che ne determinino la regolare esecuzione. La complessità e l’aumentare progressivo di tali rapporti ha fatto sì che questi ultimi venissero tutelati “tout court” dall’ordinamento, rivestendo una posizione centrale nelle normative dei vari paesi. Tali relazioni, si basano, quindi su un “do ut des”, in cui il soggetto prestante è titolare di un obbligo e il soggetto ricevente titolare di un potere, questo rapporto viene denominato obbligatorio. Esso, o più semplicemente obbligazione, sta ad indicare una particolare categoria di situazioni nelle quali assistiamo al fenomeno per cui un soggetto si trova giuridicamente tenuto ad un dato comportamento nei confronti di un altro.
L’obbligazione, quindi si struttura come una relazione in cui la posizione di subordinazione assume carattere peculiare, tale da costituire elemento di identificazione del rapporto. L’obbligo di effettuare la prestazione del soggetto passivo e nello stesso tempo il suo adempimento costituisce oggetto principale della tutela normativa. L’ordinamento giuridico si preoccupa, quindi, che tale obbligo venga ottemperato nei modi e nei tempi stabiliti nell’obbligazione, concedendo al titolare attivo una serie di poteri e facoltà al fin di vedere scongiurato il pericolo della non realizzazione del suo diritto alla prestazione. Per cui il rapporto obbligatorio si presenta strutturato come la contrapposizione di due definite posizione soggettive: l’una costituita dal diritto del creditore di ricevere la prestazione e l’altra dall’obbligo del debitore di adempiere la prestazione.
All’epoca dei romani, però, la figura che aveva dominato il diritto privato di quell’epoca, era stata la proprietà. In una società che aspirava alla sicurezza e alla stabilità, piuttosto che allo sviluppo, che mirava alla conservazione e al godimento della ricchezza, piuttosto che alla sua produzione, il diritto di proprietà si presentava come il diritto per eccellenza: «tutto il diritto», aveva insegnato “Ulpiano”, «tratta del come una cosa diventi di uno, o del come uno conservi la sua cosa, o del come uno la alieni o la perda». Le obbligazioni, infatti, erano concepite come uno dei modi mediante i quali si acquista o si dispone della proprietà; la sua disciplina, soprattutto per il formalismo che lo caratterizzava, era dettata dall’esigenza di proteggere i contraenti in quanto proprietari che dispongono delle proprie cose. Il concetto stesso di obbligazione, tuttavia, ha vissuto un excursus storico-giuridico tortuoso e con il tempo ha avuto diversi significati nel corso delle varie epoche del diritto romano. Esula dalla nostra trattazione una descrizione appurata del concetto di “obligatio” nel diritto romano, e prendiamo in considerazione solo quella che è stata recepita nelle Istituzioni di “Giustiniano”, l’obbligazione, infatti, viene considerato un vincolo giuridico in forza del quale siamo necessariamente tenuti ad un adempimento secondo il diritto del nostro stato. In antico non si conosceva propriamente l’obbligazione, ma lontane progenitrici di questa erano le figure dei “vades e praedes”, previsti soprattutto nel processo per “legis actiones” e scomparse in età postclassica, in seguito proprio al venir meno delle “legis actiones”.
Altra figura era il “nexum,” cioè un atto per rame e bilancia: il debitore restava libero, ma si poneva in condizione “paraservile” al creditore finché non avesse estinto il suo debito. Prima figura di “obligatio” ad evoluzione compiuta è individuata dalla dottrina nella “sponsio”: quest’ultima, originariamente, aveva solo funzione di garanzia, in quanto essa consisteva in uno scambio contestuale di domanda e risposta tra futuro creditore e futuro debitore.
La “sponsio” è tra le figure più antiche di obbligazioni di garanzia riconosciute dai Romani. Come detto poc’anzi, in capo ai due soggetti che sono titolari del rapporto obbligatorio, sia dal lato attivo sia dal lato passivo, sorge l’obbligo di adempiere diligentemente alla prestazione oggetto dell’obbligazione. Può accadere, tuttavia, che la stessa prestazione, sia divenuta impossibile per causa non imputabile al debitore. Si parla, al riguardo, di impossibilità sopravvenuta della prestazione. In tale ipotesi diventa impossibile consentire la realizzazione degli interessi dei contraenti, in quanto il programma contrattuale non è più suscettibile di attuazione.
Il cd. sinallagma contrattuale, espressione del reciproco condizionamento tra le prestazioni, implica che il debitore liberato per impossibilità sopravvenuta non imputabile perde il diritto ad ottenere la controprestazione; il venir meno di una delle obbligazioni comporta, dunque, la risoluzione del contratto perché ne rende irrealizzabile la causa . In forza del principio per cui “casus sentit debitor” le conseguenze economiche negative, derivanti dal mancato conseguimento della controprestazione, ricadono sul debitore della prestazione divenuta impossibile Si ha impossibilità sopravvenuta della prestazione quando si verifichino nel corso dell’esecuzione del contratto dei fatti, che presentino i caratteri dell’assolutezza e dell’oggettività, che fanno sì che una parte non sia più in grado di adempiere la propria obbligazione, dando esecuzione alla prestazione richiestale. Il debitore è liberato solo se la prestazione diventa impossibile, per caso fortuito o forza maggiore; in ogni altra ipotesi egli è responsabile. La disciplina romanistica dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore, è pressoché simile a quella vigente.
Tuttavia, nella stesura dell’art- 1218 c.c., si evince il peso che ha assunto il codice civile del 1865, in cui non vi era alcuna traccia dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione come causa di estinzione dell’obbligazione, la le uniche due ragioni che giustificano un impedimento del debitore erano quelle del “perimento e della messa fuori commercio del bene oggetto della prestazione”, ex art. 1298 c.c. 1865.
Di primaria importanza diventa l’individuazione del limite oltre il quale l’evento, che produce l’impossibilità di adempiere correttamente, non possa ritenersi imputabile all’obbligato; soltanto l’impossibilità non riconducibile ad un comportamento colposo del debitore, infatti, risolve il rapporto contrattuale, estingue l’obbligazione ed esclude la responsabilità del debitore. Se, viceversa, l’inadempimento risulta imputabile al debitore, l’obbligazione non si estingue, ma viene a modificarsi il suo oggetto: l’obbligato non è più tenuto all’esecuzione dell’originaria prestazione ormai divenuta impossibile, ma al risarcimento del danno arrecato al creditore. Il rapporto obbligatorio, dunque, non è in questo caso soggetto ad alcuno scioglimento automatico; solo nell’ipotesi in cui il creditore non domandi l’adempimento