Commento a Cass. civ., sez. I, ord., 22 luglio 2024, n. 20034

Avv. Barbara Maria Grana

In materia di separazione consensuale, gli accordi tra i coniugi possono contenere disposizioni essenziali e disposizioni eventuali. Le disposizioni essenziali derivano direttamente dalla separazione e mirano a soddisfare i doveri di solidarietà coniugale nel periodo immediatamente successivo. Le disposizioni eventuali, invece, riguardano situazioni patrimoniali che i coniugi non desiderano più mantenere.

La regolamentazione giuridica di queste due tipologie di accordi è differente. Gli accordi relativi alle disposizioni essenziali della separazione possono essere revocati e modificati secondo l’art. 710 del codice di procedura civile (o, in base alla normativa attuale, l’art. 473 bis.29 c.p.c.). Questi accordi vengono superati dalla sentenza di divorzio, che stabilisce nuove condizioni in relazione al nuovo status dei coniugi. Al contrario, gli accordi che nascono occasionalmente dalla procedura di separazione seguono le regole dei negozi giuridici e il giudice non può né revocarli né modificarli.

Per distinguere tra i patti che costituiscono il contenuto eventuale degli accordi e quelli che costituiscono il contenuto essenziale, è necessario comprendere l’intenzione comune delle parti. Questo implica determinare se i patti abbiano nella separazione solo un’occasione e non la loro causa concreta. Per fare ciò, si devono utilizzare i criteri interpretativi degli articoli 1362 e seguenti del codice civile, iniziando dal significato letterale delle parole e delle espressioni utilizzate.

In tema di separazione consensuale, è fondamentale distinguere tra i patti che costituiscono il contenuto eventuale degli accordi e quelli che rappresentano il contenuto essenziale. I patti del contenuto eventuale non sono suscettibili di modifica o revoca ai sensi dell’art. 710 c.p.c. né possono essere sostituiti dalle condizioni derivanti dal divorzio, poiché sono negozi autonomi che regolano i rapporti tra i coniugi secondo l’art. 1372 c.c.

Questo è il principio di diritto affermato nella pronuncia della Cass. civ., sez. I, ord., 22 luglio 2024, n. 20034, che ha portato la Suprema Corte a cassare con rinvio la sentenza impugnata.

Nella fattispecie in esame, la materia del contendere ruota intorno alle condizioni di separazione consensuale omologata dal Tribunale, ove le parti avevano previsto, oltre ad un assegno mensile in favore della moglie, anche l’assegnazione a quest’ultima della casa coniugale, già adibita a residenza familiare, senza corresponsione di canone. Nel giudizio di legittimità, l’ex marito censurava la sentenza della Corte di appello da una parte, laddove aveva affermato che il Tribunale si era pronunciato sull’assegnazione della casa familiare, revocandola, senza che fosse stata a lui fatta la relativa richiesta e, dall’altra, nella parte in cui aveva ritenuto che su tale statuizione il giudice del divorzio non avrebbe comunque potuto statuire, perché l’attribuzione in godimento della casa familiare, prevista in sede di separazione consensuale, era espressione di un accordo autonomo e distinto rispetto alle vere e proprie condizioni di separazione.
La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 20034 del 22 luglio 2024, ha chiarito che l’analisi deve concentrarsi sulla volontà effettiva delle parti, cercando di comprendere se i patti in questione siano collegati intrinsecamente alla separazione o se invece si tratti di accordi che, pur avendo trovato occasione nella separazione, disciplinano aspetti patrimoniali autonomi e indipendenti da essa.

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