Avv. Annunziata Staffieri

Dopo la recente approvazione da parte del Parlamento Europeo, in data 30 marzo 2023, della proposta di direttiva sulla parità e trasparenza salariale volta ad abbattere il “gender pay gap” in tutti gli Stati membri, un’altra bella notizia in materia di gender equality arriva dal nuovo codice degli appalti approvato definitivamente dal Consiglio dei Ministri nel corso della seduta del 28 marzo scorso.
Com’è noto, tale corpus normativo, attuativo dell’art. 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78 (legge delega), è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 31 marzo 2023 ed è entrato in vigore lo scorso 1° aprile, ma le sue disposizioni troveranno applicazione solo a decorrere dal 1° luglio 2023.
È inoltre previsto un periodo transitorio, fino al 31 dicembre 2023, che prevede la vigenza di alcune norme del d.lgs. n. 50/2016 e del decreto-legge n.76/2020 (Decreto Semplificazioni) e dal successivo decreto-legge n.77/2021(Decreto Semplificazioni bis).
Nella versione definitiva del nuovo codice appalti, contro ogni pronostico, è stata reinserita “in zona cesarini” la certificazione di parità di genere quale ulteriore requisito distintivo e premiante dell’offerta nell’ambito della partecipazione alle gare pubbliche per le imprese in possesso di tale certificazione.
Il comma 7 dell’art. 108, infatti, dispone testualmente: “Al fine di promuovere la parità di genere le stazioni appaltanti prevedono nei bandi di gara, negli avvisi e negli inviti, il maggior punteggio da attribuire alle imprese che attestano, anche a mezzo di autocertificazione, il possesso dei requisiti di cui all’art. 46-bis del codice delle pari opportunità”, vale a dire la certificazione della parità di genere.
Tale disposizione normativa infatti ha inserito, a far data dal 1° gennaio 2022, la certificazione della parità di genere quale leva strategica per la riduzione del divario di genere e in particolare per l’implementazione dell’occupazione femminile in Italia, uno degli obiettivi strategici del PNRR e dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
Aveva fatto molto discutere, nell’ultimo periodo, il “downgrade” effettuato in materia dallo schema di decreto attuativo che aveva escluso tale certificazione tra i requisiti premiali in grado di far conseguire un punteggio aggiuntivo alle aziende in possesso del “bollino rosa”, così come previsto dalla legge delega.
Grazie alle riflessioni della Camera, del Senato e alle osservazioni critiche sollevate dalle varie associazioni femminili, l’Esecutivo Meloni ha fatto retromarcia reintroducendo quale premialità la certificazione della parità di genere, unico strumento idoneo a comprovare l’adozione da parte dell’impresa di politiche volte al raggiungimento di una piena ed effettiva parità di genere.
D’altronde il nostro Paese non poteva permettersi un simile dietrofront, considerato che alla luce dei dati pubblicati dal Global Gender Gap Report 2022 del World Economic Forum il Belpaese si conferma al 63esimo posto dopo Uganda e Zambia e poco prima della Tanzania.
Da qui la necessità di investire sempre più in pari opportunità, consentendo alle imprese virtuose di beneficiare, grazie a tale attestazione, di premialità non solo nelle gare pubbliche ma anche nella concessione di aiuto di stato e di esenzioni contributive nella misura dell’1% nel limite massimo di 50.000 euro annui.
Con il messaggio n. 1269 del 2023 l’INPS ha, tra l’altro, posticipato al 30 aprile 2023 il termine inizialmente fissato per il 15 febbraio 2023 per la presentazione delle domande di esonero dal versamento dell’1% dei contributi previdenziali per le imprese in possesso della certificazione della parità di genere.
Inoltre, gli operatori economici in possesso di tale certificazione sono equiparati, dal recente codice appalti, agli operatori in possesso di rating di legalità o attestazione del modello organizzativo 231 ai fini dello sconto sulla garanzia provvisoria ridotta ad un massimo del 20%.
Tutto ciò conferma la centralità della certificazione in commento che ha ritrovato, all’interno del nuovo codice appalti, la sua originaria dignità. Tra l’altro, il possesso del suddetto certificato consente alle aziende sostenibili e inclusive di fruire non solo di vantaggi economici ma anche sociali e reputazionali.
Secondo i dati forniti dal Diversity Brand Index 2022, le aziende che hanno incentivato l’inclusività e l’equità di genere hanno avuto un incremento dei ricavi pari al 23%.
Le politiche di gender equality rappresentano un driver per il business. Solo implementando la cultura della diversità, dell’inclusione, della meritocrazia e della valorizzazione delle “soft skills” sarà possibile quella accelerazione tanto attesa verso la crescita e il benessere delle imprese inclusive. Non può infatti esserci sostenibilità senza parità di genere.

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