RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO PER GLI INFORTUNI

OCCORSI AL DIPENDENTE

Cassazione Civile sezione lavoro n. 6337/2012

di Alessandra Prete

 

La sentenza della Corte di Cassazione del 23 aprile 2012 numero 6337, offre un interessante spunto di riflessione in merito alla tematica della responsabilità del datore di lavoro per gli infortuni occorsi al lavoratore a seguito di omessa o incompleta predisposizione di misure antinfortunistiche. In particolare, è affrontata la tematica relativa alla eventuale efficacia interruttiva del nesso causale ad opera della condotta colposa del lavoratore stesso.

In data 14 aprile 1998, infatti, D.P. perdeva la vita a causa di un infortunio sul lavoro. Nello svolgimento delle sue mansioni alle dipendenze di P.I.G., rimaneva folgorato nel tentativo di operare un collegamento tra la betoniera presente nel cantiere e il cavo di alimentazione con la corrente in tensione. Il tribunale di Sassari, con la sentenza n. 352/06 dell’11 aprile 2006, aveva dichiarato la responsabilità di P.I.G. per l’infortunio mortale occorso al suo dipendente.

La corte di appello di Cagliari, chiamata a pronunciarsi a seguito dell’impugnazione proposta da P.I.G., aveva invece riconosciuto una responsabilità concorrente tra datore di lavoro e lavoratore. Quest’ultimo infatti, nello svolgimento delle sue mansioni, aveva violato le comuni regole di prudenza che gli imponevano di disattivare la corrente prima di utilizzare la betoniera.
Dal canto suo, il datore di lavoro era stato ritenuto responsabile di gravi violazioni delle norme di prevenzione degli infortuni, in quanto aveva omesso di porre rimedio al pessimo stato delle betoniera nonché di munire la stessa dell’interruttore differenziale salvavita.

Il P.I.G. aveva proposto allora ricorso in Cassazione, al fine di veder riconosciuta l’esclusione della propria responsabilità. Tra i motivi di impugnazione poneva infatti in evidenza come l’attività che aveva determinato l’infortunio mortale non rientrasse tra le mansioni di D.P., manovale generico, e costituisse inoltre condotta abnorme, arbitraria e imprevedibile del lavoratore, come tale idonea a interrompere il nesso causale tra l’omissione delle cautele antinfortunistiche e l’evento mortale.

L’istituto del concorso di cause è disciplinato dall’articolo 41 del codice penale. Questo, al primo comma, prevede che “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”. La norma stabilisce dunque che il concorso di eventuali fattori esterni, anche indipendenti dalla condotta umana, non è di per sé idoneo ad escludere il nesso eziologico tra condotta ed evento.

Il secondo comma prevede invece una eccezione a tale regola generale: “le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita”.

La dottrina e la giurisprudenza si sono a lungo interrogate sul significato da attribuire all’espressione “cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento”.

Da tale elaborazione si sono sviluppate due fondamentali teorie: la teoria della causalità interrotta o sorpassante, e la teoria del fattore sopravvenuto, eccezionale ed imprevedibile.
Ai sensi della prima delle due teorie, ossia quella della causalità interrotta, il riferimento alle cause sopravvenute è da intendersi esclusivamente come relativo ad una serie causale assolutamente autonoma, totalmente indipendente e avulsa dalla condotta umana. Tale teoria ha trovato applicazione prevalentemente in ambito medico, dove la Cassazione ha, nella maggioranza dei casi, escluso che l’errore del medico potesse avere efficacia interruttiva del nesso causale tra l’evento ed una precedente condotta delittuosa. La condotta del medico, pur essendo erronea e dunque immediatamente lesiva, è stata pur sempre occasionata dalla condotta dell’agente che ha cagionato, ad esempio, le lesioni alla vittima.

Ai sensi della seconda teoria, quella del fattore sopravvenuto, eccezionale e imprevedibile, si ritiene invece che la causa sopravvenuta, per avere efficacia interruttiva del nesso causale, non debba essere completamente avulsa o autonoma rispetto alla preesistente condotta del soggetto agente, ma possa costituirne anche uno sviluppo, ancorché eccezionale, anomalo, atipico, altamente improbabile o imprevedibile[I].                                                                                                                Tale teoria è stata largamente utilizzata dalla Cassazione in materia di infortuni sul lavoro e di sinistri stradali.

Ed è proprio a tale teoria che fa riferimento il ricorrente quando qualifica lo condotta del lavoratore come abnorme, arbitraria, e imprevedibile.

Ai sensi della teoria del fattore sopravvenuto, infatti, al comportamento imprudente o negligente e anomalo del lavoratore può, teoricamente, riconoscersi efficacia interruttiva o “concausante” del nesso causale.

L’orientamento dominante in giurisprudenza ha, però, applicato tale teoria in modo fortemente rigoroso. Si è riconosciuta infatti efficacia interruttiva del nesso causale esclusivamente in quelle ipotesi in cui l’evento è stato dovuto al sopravvenire di un evento assolutamente atipico ed eccezionale – il comportamento del lavoratore – rispetto alla condotta iniziale consistente nell’omessa collocazione delle misure antinfortunistiche da parte del datore di lavoro. La responsabilità del datore di lavoro è stata infatti esclusa esclusivamente in quelle ipotesi in cui il comportamento del lavoratore presentava i caratteri dell’eccezionalità, della anormalità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed era estraneo alle mansioni attribuite o al processo produttivo.

La Cassazione ha riconosciuto tale efficacia interruttiva esclusivamente in tre casi. Nel primo caso, il lavoratore aveva violato consapevolmente le cautele disposte al fine di precludere l’ingresso in un’area pericolosa, all’interno della quale aveva poi subito un incidente[i].
Nel secondo caso, per liberare una pala meccanica improvvisamente bloccatasi, l’operaio si era sdraiato sotto la stessa senza spegnerla e ne era rimasto travolto[ii].
Nel terzo caso, l’operaio aveva volontariamente introdotto la mano in una cavità adiacente alle lame di una fresatrice, regolarmente protetta, dopo averne rimosso la relativa copertura[iii].
In tali casi, la Cassazione ha ritenuto interrotto il nesso causale in quanto il lavoratore ha tenuto una condotta anomala, abnorme, imprevedibile, ed esorbitante rispetto alle mansioni a cui era adibito.

Al di là di tali ipotesi, invece, la Cassazione ha assunto un atteggiamento più rigoroso, volto ad escludere l’efficacia interruttiva delle condotte del lavoratore pur caratterizzate da negligenza, imprudenza, e imperizia.
La ratio su cui si fonda la predisposizione di misure antinfortunistiche consiste infatti nell’evitare infortuni dovuti a fattori non solo estrinseci ma anche intrinseci, dovuti cioè a comportamenti imprudenti, negligenti, e imperiti del lavoratore, che pertanto vanno considerati come fatti ordinari e non eccezionali.  Come ha sottolineato infatti la sentenza in commento, il disposto dell’articolo 2087 c.c. ha una funzione sussidiaria e integrativa delle misure protettive da adottare a garanzia del lavoratore, e pertanto “abbraccia ogni tipo di misura utile a tutelare il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da rischi”, anche al di là delle singole e specifiche norme antinfortunistiche di volta in volta previste.

Pur in presenza di un comportamento abnorme del lavoratore, inoltre, il nesso causale non può dirsi interrotto quando l’infortunio risulta determinato da assenza o inidoneità delle misure di sicurezza, tali che, se adottate, sarebbero state idonee a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento anomalo. In tal caso, infatti, nessuna efficienza causale può essere attribuita alla condotta del lavoratore che ha dato occasione all’evento[iv].

Come ha più volte precisato la sentenza in esame, infatti, “la sicurezza del lavoratore costituisce un bene di rilevanza costituzionale (art.41, II Cost.) che impone – a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione – di anteporre al proprio legittimo profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua, adottando ogni cautela che lo specifico contesto lavorativo richieda”.
Tuttavia, la Cassazione nel 2007[v] ha riconosciuto anche l’ammissibilità di un concorso di colpa tra le condotte del lavoratore e del datore di lavoro quando “il lavoratore, con una normale prudenza e diligenza, avrebbe potuto ovviare all’evidenza del pericolo e non l’ha fatto”.
Sulla scorta di tale precedente giurisprudenziale, la sentenza in esame ha riconosciuto la legittimità della sentenza emessa dalla Corte d’Appello, nella parte in cui ha ritenuto che il ricorrente, nella specie, ha concorso al 50% alla causazione dell’infortunio mortale, in quanto non ha adottato alcuna misura di prevenzione, specifica o generica; e ha ritenuto che il lavoratore vi abbia concorso per il restante 50%, in quanto ha omesso di osservare le ordinarie regole di prudenza a cui pure sarebbe stato tenuto nello svolgimento delle sue mansioni.

Ha, pertanto, rigettato il ricorso.

 



[I] Cass.  9 luglio 2008, n 37992.



[i] Cass. Pen. Sez. IV, 25 settembre 2001.

[ii] Cass. Pen. Sez. IV, 10 novembre 1999.

[iii] Cass. Pen., sez. IV, 25 settembre 1996.

[iv] Cfr. Cass. Pen. Sez. IV, 03 novembre 2004, n.3455 e Cass. Pen., sez IV, 07 luglio 2005, n. 36339.

[v] Cass. Pen., sez. IV, 23 marzo – 1 giugno 2007, n. 21587

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